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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

Le psicosi come interrogazione sulla identità: una proposta

Arnaldo Ballerini



III capitolo da:
Caduto da una stella. Figure della identità nella psicosi
Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2005


Il tema della identità ha avuto e sta avendo nel mondo di oggi una straordinaria, e per certi versi confusiva, dilatazione, non solo nella ricerca psicologica, psicopatologica, sociologica, ma attraverso una ridondanza nei mass-media, per cui non è raro sentire dire da qualcuno, che magari è in un momento di delusione e difficolta esistentiva e/o di umore alterato, che è in una "crisi di identità". Sono così tanti i piani attraverso i quali avviene la costruzione della identità, gli ambiti ai quali il concetto si riferisce, che vi è certo qualcosa di vero in simili asserzioni.
Del resto si parla di identità individuale, di esperienza di identità, di identità sociale, (quale posizionamento dall'esterno ma infine co-costitutivo della identità personale ), di ruolo, di identità nazionale, etnica, di gruppo, etc., e molti di questi aspetti sono più insicuri nella cultura del presente e nei veloci mutamenti che comporta e che trascinano anche specifici piani di messa in crisi della nostra identità Perfino la identità che sembra, o è sembrata, la più biologicamente salda, quella di genere, viene meno di rado che un tempo messa in discussione, e le categorie identificatorie del maschile e femminile appaiono ad alcuni valicabili, e non solo dal punto di vista socio-culturale ma esattamente da quello biologico.
Alcuni esempi di famosi "casi problemi" dell'identità, che erano propri delle esemplificazioni paradossali della speculazione teoretica e della fantascienza, sembrano quasi alla portata dello sviluppo delle biotecnologie.
Tutto ciò comporta anche il venire alla ribalta di problemi psicologici e percorsi e rischi psicopatologici un tempo certo meno evidenti. Se il soggetto transessuale nel senso più pieno del termine è colui che aspira attraverso una modificazione medico-chirurgica ad assumere l'identità dell'altro sesso (Callieri, 2003), i livelli patologici o no di questo desiderio di trasformazione identitaria sono diversi, visto anche il rischio di psicosi che la trasformazione in un "come se" essere dell'altro sesso può comportare. Ma conosciamo esempi di desiderio di cambiamento di sesso che si mantengono sul piano di una fantasia consapevole ma eretta a progetto di vita, come una mia paziente affetta da un grave disturbo ossessivo che da anni indica se stessa sempre e senza eccezioni al maschile. La ricerca di una identità diversa, ma asserita come essere sempre esistita in potenza da parte del soggetto, nel transessuale, a differenza dello psicotico, si snoda nel reale ed usa i mezzi tecnici che il reale può offrirgli, così come la lotta per una rettifica anagrafica e più generalmente legislativa, testimonia di una identità che non vuol rinunciare a quella sociale, in qualche modo ad un "ruolo", anche se cambiato. Se l'aspirazione a cambiare l'identità di genere è una delle più radicali che possano esistere, e forse discende da antichi miti ed antiche culture, essa si pone al limite del reale: reale che pur pratica, ma lo tende verso un punto al di là del quale l'unica trasformazione possibile della identità personale sarebbe quella psicotica.
In quest'ultima la crisi dell'identità mi appare ancor più basica: non si tratta di essere in qualche modo ancora "io" ma con un sesso diverso al quale sento o mi illudo di aver sempre appartenuto, ma di essere un altro "io", del quale il romanzo delirante è una specificazione discorsiva, che, come ogni altro delirio, svolge anche la funzione di ristabilire un movimento intenzionale verso il mondo, nel passaggio da "non so chi sono" a "io sono" questo o quest'altro. Ma senza toccare l'ambito del delirio di identità, ho più sopra cercato di ricordare come esista un rapporto fra forme di identità, quasi contropolari se considerati quali "tipi ideali", quali quella della persona a rischio di caduta nella melanconia o invece della persona a rischio di ingresso in un percorso schizofrenico. Se una riflessione psicopatologica su questo piano è possibile, lo è tenendo presente che:

1) per la psicopatologia fenomenologica si tratta di ragionare in termini dialettici, vale a dire di prevalenza-sproporzione di aspetti che in quanto sproporzionati e pervasivi divengono patologici o espongono alla vulnerabilità nei confronti dei disturbi mentali, ma fanno tuttavia parte della costituzione di ognuno di noi. Lo stesso problema dell'importanza, del peso, del passato è fondamentale nella temporalità di tutti, ma è quando è prevalente fino al punto di coincidere con la categoria della "irrimediabilità", del fatale restare indietro, della stagnazione della presenza, della infruibilità del presente e del futuro, quali pura ripetizione del "già accaduto", che questo scompaginamento della proporzione fra le estasi temporali di passato-presente-futuro sostanzia la disperazione e la angoscia melanconica, così come più sfumatamente già si annuncia nella persona del tipo pre-melanconico. Lo stesso fondamento del a-problematico sentimento dell'ovvietà del common sense, della tacita naturalità dell'esperire il mondo e gli altri, è nella norma in equilibrio fra un troppo e un troppo poco: un troppo poco che ci farebbe bizzarri ed un troppo che ci depaupererebbe di originalità. La stessa ovvia considerazione della intersoggettività del mondo oscilla di continuo, per dirla con Minkowski (1997), fra il vivere per la propria singolarità, pur sullo sfondo della possibilità sintonica verso gli altri, e in contatto vitale (il che non vuol dire in accordo tematico !) con il mondo in-comune, pur sullo sfondo della nostra singolare ipseità.
Ma esistono persone per le quali la oscillazione si trasforma in rigida prevalenza della assenza di sintonia con gli "altri". "Altri", che incontrati inesorabilmente nel mondo della vita divengono problematici, veri e propri enigmi, con la scoperta o latente angoscia di una insufficiente distanza che salvaguardi dal rischio di esserne risucchiati. Io condivido l'idea che ciò non significa una, del resto impossibile, assenza dell'Altro, ma una sua fragilità o carenza di originaria costituzione nella coscienza di queste persone, che comunemente indichiamo come permeate di tratti autistici, per le quali l'altro costituito, e l'incontro con il quale è ineludibile nella quotidianeità del mondo della vita e quindi nel contesto socile, è generalmente un problema. Io penso di poter sostenere che è questo il difetto originario dal quale discendono, in persone esposte alla vulnerabilità schizotropica, la difficoltà di raggiungere una sufficiente sintonia con gli altri, che è un sentire più emotivo che non dell'ambito della ragione, che prescinde dai temi del pensiero altrui ma intuitivamente avverte la ovvietà dei modi di procedere della mente, nella naturalità che ci comprende tutti. Ed inoltre dalla stessa carenza originaria derivano le difficoltà e i rischi patologici che in queste persone emergono nel dover assumere una identità di ruolo nella rete interpersonale e la connessa fragilità nella "competenza sociale".

2) ma costituzione dell'Altro e costituzione dell'Io sono dal punto di vista fenomenologico due facce dello stesso processo, che è all'origine della soggettività dell'io come della oggettività del me. E questi sono i presupposti della costruzione della identità, di un percorso che si svolge nel tempo: identità che non è un fenomeno unitario riconducibile ad un unico fattore psicologico costitutivo, nè è un qualcosa stabilito una volta per sempre ed immutabile. L'identità umana appare piuttosto essere una costruzione complessa, legata tanto al soggetto che al contesto. Ed inoltre è sempre in evoluzione, è lungo un arco di vita che costruiamo la nostra identità, pur disponendo di un nucleo aggregativo che, almeno dopo i primi tempi della vita, si mantiene costante ed assicura quella continuità per la quale uno si riconosce e viene riconosciuto. Il ricondurla esaustivamente alla memoria, e oggi forse potremmo dire alla condizione della memoria quasi puntiforme degli eventi (working memory) delle esperienze vissute, indica una condizione necessaria ma certo non sufficiente. E del resto anche nei disturbi gravi della memoria se la persona ha perduto la memoria di che egli sia biograficamente, non per questo ha perso la nucleare soggettività dell'io. Nemmeno il cercarne la continuità nella supposta fissità del carattere sembra sufficiente, poichè la identità si nutre tanto della persistenza come dei cambiamenti. Nè è sufficiente il considerarla puramente un prodotto sociale, assolutizzando la osservazione che noi siamo "chi" gli altri ci fanno o semplicemente ci dicono essere. Su questa strada si va verso non solo una scomparsa della identità individuale ma forse anche del soggetto come tale.
La costruzione della identità ha vari livelli di complessità crescente, fino alla piena ed esprimibile, raccontabile, consapevolezza di chi e che cosa siamo oggi: oggi, perchè molti aspetti di essa sono pur sempre modificabili e da conquistare. Come l'identità ha vari livelli così si esprime su vari piani: individuale-soggettivo, gruppale, etnico, e così via. In fondo è questa stessa complessità che la espone ad una discreta fragilità o può farne quel tipo di problema, che - moda a parte - è così alla ribalta nella cultura del presente che espone tutti alla insicurezza nella globalità e sovratutto accellerazione del realizzarsi di cambiamenti di idee, di valori e di visioni del mondo.
Ma il piano al quale il presente contributo è dedicato è sovrattutto il tema della crisi e modificazione della identità nelle psicosi schizofreniche, che appare toccare il nucleo più profondo della costruzione della identità. Del coinvolgimento di questo nucleo della presenza umana, del livello ontologico di essa più che ontico, è testimonianza la caduta di ogni sicurezza su noi stessi che drammaticamente compare in molti esordi psicotici, in quello stato che Conrad (1958) chiamava trema, con parola greca che allude al terrore e alla angoscia di una condizione di pervasiva "perplessità" (Callieri, 1982), nella quale il mondo e l'io sono revocati in dubbio, come sospesi in una equivalenza di significati dove l'io diviene letteralmente un altro, perde - come il mondo correlato - ogni familiarità abituale e la persona si chiede smarrita chi egli sia. Come ne è testimonianza lo sforzo rivelatorio e ricostruttivo di una nuova identità, che può seguire ed essere esplicitato nel romanzo delirante su se stessi.
Ma la frequentazione di persone in condizioni psicotiche mi ha convinto che il tema-problema della identità è sempre in essi presente, anche se può essere vistosamente esplicitato nella negazione della identità personale e familiare dagli altri riconosciute, o invece gelosamente nascosto o ambiguamente alluso o confusamente e angosciosamente avvertito. Penso cioè che le psicosi che chiamiamo schizofrenia siano sempre anche una interrogazione sul "chi sono". Ma non semplicemente una evanescenza del ruolo (è anche questo) ma una crisi dei fondamenti della soggettività di per sè. Si può leggere questa crisi come <una de-dialettizzazione manifesta dell'io e del me>> (Kraus, 1999), per una debolezza del "me" quale superfice dell'identità legata agli altri, orientata verso gli altri e ormai distaccata dalla superfice dell'Io autonomo, e che rischia di divenire, e diverrà, se il processo prosegue verso la fase di anastrophè, di quel rovesciamento tolemaico che pone il soggetto al centro di tutto quanto accade, l'ultimo ed unico riferimento nella interpretazione del mondo.
L'identità è sempre coinvolta nelle turbe psicotiche, ma spesso palesemente anche in quelle c.d.nevrotiche, seppure su piani diversi (non si può unificare sotto l'aspetto di un disturbo identitario Madame Bovary e L'uomo senza qualità) proprio perchè l'identità umana è una elaborazione complessa di elementi tanto individuali, di capacità e processi iscritti nella coscienza individuale, quanto sociali, di tratti del carattere quanto di processi che hanno a che fare con il rapporto con l'altro come singolo o più ancora con la rete sociale. Non si tratta soltanto e semplicemente di una sorta di "etichettamento" dall'esterno, ma sovrattutto di una attiva assunzione di identità di ruolo, proposte o aspettate dal contesto. In altri termini l'identità è una elaborazione che riguarda il fluire delle esperienze della persona, e se concerne un polo di medesimezza, concerne anche una ipseità da raggiungere e mediare in una biografia narrabile.
Certo il piano della crisi della identità può attuarsi a livelli assai diversi, in quanto può avere per bersaglio superfici diverse della costruzione dell'identità. Una cosa è, ad esempio, sentir vacillare la propria identità nazionale, o di ruolo professionale o di posizione nella vita come padre o marito o moglie etc. o come persona amata, o come appartenenza a una comunione di idee-valori, di visioni del mondo, tutti aspetti che pur contribuiscono a definire nel suo complesso la nostra identità, altra cosa è letteralmente non sapere più chi sono, sentire che sono un altro, e cercare di uscire dalla terribile angoscia dell'indeterminatezza magari delirando di nome, origini, famiglie diverse da quelli reali.
E’ vero che la scienza psichiatrica è una "ontologia regionale", e si occupa in pratica delle manifestazioni ontiche di quella crisi tuttavia ontologica che è la psicosi, e la psicopatologia che la fonda una ricerca scientifica particolare. Cosi che nel pensiero del suo fondatore, Jaspers, la psicopatologia è, come ogni scienza, <<...soltanto particolare, non abbraccia il tutto dell'Essere, non è una conoscenza totale dell'Essere, ma una conoscenza particolare delle cose...non ha nessuna risposta per quei quesiti fondamentali che agitano l'uomo>> (Jaspers, 1913-1959), e dunque vi sia da parte sua una messa in guardia verso la svolta o - per Jaspers- deriva della psicopatologia verso il piano (ontologico) della essenza dell'essere ed un doversi strettamente mantenersi sul piano (ontico) delle contingenze dei modi di esistere. Tuttavia si può proporre <<un modello ontologico nelle psicosi>> (Agresti, 1994), proprio perchè nelle psicosi, attraverso i temi e le forme dell'esperienza interna che le definiscono, affiorano temi ed interrogazioni di qualità " metafisica", che riguardano i fondamenti dell'Essere, non del come io sono in quel modo o in quell'altro o in quel contesto o in quell'altro, ma del mio esistere come soggettività. E' questa angoscia del rischio di <<incontro con il nulla>>, con la <<percezione del non essere>> (Agresti,1994) il piano raggiunto dai disturbi psicotici.
Ho ricordato più sopra come, detto in sintesi, si possa cercare di distinguere una "paura ontologica" da una "paura ontica", anche se penso che il tipo di affetto possa certo variare in intensità ma forse non in qualità, e una insicurezza "ontica" da una "ontologica".
Una considerazione simile può esser fatta quando si parla e si legge diffusamente di "crisi dell'identità". Una cosa in effetti è la crisi di valori, credenze, costanze affettive, ruoli sociali, visioni del mondo, con le quali identificarsi contribuendo così a quel composito che è la nostra identità, altra cosa è il dubbio psicotico su di Sè, per il quale non esiste la possibilità di ritrovare un <<cogito ergo sum>>, che definisca un punto dal quale ristabilire la sicurezza di esistere come Io-soggetto, anche se molte apofanie deliranti tentano proprio, a mio parere, questa operazione, ma uscendo dalla realtà condivisa.
Alla maggior parte degli esseri umani che oggi più spesso di un tempo pur vivono ed esprimono un sentimento di messa in crisi della loro identità, mai verrebbe in mente di essere indicati con un nome diverso da quello anagrafico (anche nel pur radicale cambiamento della identità di genere la modificazione concerne il nome proprio, ora declinato secondo il sesso opposto), con origini diverse e biografia diversa, come invece accadeva a quel grande poeta schizofrenico che fu Holderlin. Gli studiosi delle opere e della sua biografia annotano come egli manifestasse i primi segni di evidente disturbo mentale dopo il suo ritorno da Bordeaux, dove era stato precettore in casa del commerciante tedesco D.Ch.Meyer dal 28 gennaio al maggio 1802. Holderlin (1770-1843) era trentenne e fece ritorno attraversando la Francia a piedi in un viaggio di diverse settimane. Al ritorno andò a trovare Schelling, vecchio compagno di studi, che trovò il poeta in uno stato "pietoso", sia fisicamente che mentalmente. Nei quattro anni successivi, trascorsi in parte presso sua madre, in parte ad Homburg, assistito dall'amico Sinclair, Holderlin compose ancora alcuni testi fondamentali, gli "inni tardi", che Heidegger ed altri studiosi considerano la vetta della sua produzione, ma nello stesso tempo l'alterazione mentale venne assumendo sempre più le caratteristiche della psicosi schizofrenica. Nel 1804 il suo stato si era talmente aggravato che nel settembre 1804 Sinclair fu costretto a farlo portare a forza a Tubinga, ove venne ricoverato nella clinica psichiatrica dell'Università. Il 3 maggio 1807, passate le manifestazioni più acute della malattia, Holderlin viene affidato ad un falegname, una brava ed anche colta persona che lo accudirà, lui e poi le figliole, fino alla sua morte, il 7 giugno 1843. Le numerose testimonianze di quel periodo mostrano come Holderlin usasse spesso un pensiero e linguaggio incoerente, intessuto di neologismi, con un comportamente altamente manierato espresso comunemente con una affettata cerimoniosità, per cui tutti i visitatori, fosse anche uno studente, venivano gratificati con il titolo di Sua Maestà, Sua Santità, Santo Padre e simili. Il poeta rifiutava la sua identità, che anzi si infuriava se qualcuno lo chiamava Holderlin: ad un visitatore (Wilhheim Waiblinger) nei primi anni Venti disse: <<Io, signore, non ho più lo stesso nome, ora mi chiamo Killalusimeno...>>. In calce alle poesie dell'ultimo periodo, che si distinguono da un lato per un sentimento estatico di armoniosa immersione nella natura e dall'altro per una stereotipia gravemente schizofrenica, il poeta si firmava "Scardanelli" o anche "Buonarroti". Bevilacqua osserva che non si ha una idea di dove provenga il primo di questi nuovi nomi, mentre "Killalusimeno" sembra uno stravolgimento di una frase dialettale italiana (chi l'ha l'usi meno), e il definirsi "Buonarroti" non sembra avere a che fare con Michelangelo, che non risulta essere mai stato oggetto di studio da parte del poeta, ma piuttosto con Filippo Buonarroti, il proto-comunista amico di Babeuf. Anche Holderlin era stato in gioventù un fervente giacobino, tanto che nel 1804 fu emesso un ordine di arresto per lui, poi annullato a seguito di una perizia psichiatrica che lo dichiarava infermo di mente. Holderlin asseriva dunque di essere un altro, con un altro cognome, e denegava in particolare la parte della vita giovanile trascorsa nel Seminario di Tubinga (per volontà della madre che lo voleva pastore evangelico e perchè era l'unica possibilità di fare un percorso di studio pur non avendone i mezzi finanziari), e si irritava se qualcuno si ostinava a chiamarlo Herr Magister, che era appunto il titolo conseguito. (G.Bevilacqua, 2003, comunicazione personale).
Per approdare su livelli così nucleari come quelli psicotici di crisi del vissuto della propria identità individuale occorre aver attraversato un tempestoso mare di revoca in dubbio del Sè, quale è l'esperienza dell' "umore delirante" e della "perplessità" che lo permea, lo stato di Wahnstimmung, che è tanto un disturbo del pensiero quanto - inestricabilmente - degli affetti, fino a scuotere i fondamenti stessi dell'esistere come soggetto, in una angosciosa ricerca di ri-trovarli: il più spesso nel significato di re-inventarli. Se occorresse una riprova che Io e Mondo sono due aspetti correlati e la loro separazione è in definitiva una razionalizzazione secondaria, questa potrebbe esser data proprio dallo stato di animo pre-delirante ove la domanda "cosa sta succedendo" è la controfaccia di "cosa mi sta succedendo" e, come per la figura della "percezione delirante", si staglia l'esperienza di Sè fatta in quella esperienza.
Ernesto De Martino (1977) scriveva: <<C'è qualcosa, dimmi che cosa c'è? Il paziente si sente spaesato, ha la percezione di un mutamento vago di significato, caratterizzato dalla perdita del "fondo di domesticità mondana". Il mutamento ha un significato straordinariamente pregnante per l'esperiente, indica qualcosa che lo riguarda direttamente e secondo una minaccia radicale...>>. Una minaccia all'Io che non permette un oltrepassamento ed una elaborazione di sè che mantenga tuttavia il senso della continuità della propria vita. Commentando i contributi di Ricoeur, Charbonneau (1994) scrive <<...ciò che ci caratterizza per definizione il più intimamente non è affatto la medesimezza, ma esattamente la nostra maniera sempre singolare di cambiare o di non cambiare. La nostra capacità a evolvere, a rielaborarci, ricostruirci, e la maniera di come conduciamo questa metamorfosi, ci segna più ancora che la pretesa stabilità dei nostri caratteri>> (trad.mia).. Ma poichè il rapporto dialettico fra "medesimezza" e "ipseità" , e la possibilità narrativa che ne deriva, sembra essere il centro della identità umana, perchè questo rapporto sia attivo occorre che la soggettività non sia messa in crisi nei suoi fondamenti, che il "chi" dell'identità sia comunque persistente nonostante le trasformazioni del "che cosa" dell'identità (A.Tatossian, 1994).
Ma il mio paziente Marco che in stato di esordio psicotico, di Wahnstimmung, gira e rigira fra le mani il suo orologio marcato "Rolex", come icòna della perdità di "fiducia" nella consistenza e continuità dell'esperienza della familiarità del mondo, e nel contempo sente come smarrito il suo sè e avverte come "falsa" la sua identità, non attraversa una crisi del "che cosa" ma propriamente del "chi" dell'identità e non può quindi compiere alcuna metamorfosi, che non sia delirante, verso un altro contenuto dell'identità, una metamorfosi il cui prototipo è una conversione religiosa, perchè è proprio la ipseità che è stata fin lì il filo conduttore che non tiene, e lui apparirà all'inseguimento di una ipseità, illusoriamente più autentica.
Poichè la variazione del rapporto fra medesimezza ed ipseità sembra scandire possibilità diverse di caduta nella psicosi, oltre che delineare diversi personaggi di racconti tipici, che vanno da protagonisti nei quali, come tipicamente nelle favole, l'identità è ricoperta quasi esclusivamente dall' idem, ad altri protagonisti per i quali l'identità non ha il supporto della medesimezza, come potrebbe Marco la cui angoscia psicotica ruota attorno ad un cambiamento catastrofico del mondo nel quale non si sente più il soggetto, ed è perplesso circa la sua capacità di sentire sè stesso come l'agente dei suoi pensieri, parole, azioni, regolare senza delirare un nuovo rapporto fra ipse ed idem che permetta al discorso sulla sua identità di svilupparsi senza interrompersi?
<<E' come se, cercando di appoggiare la risposta alla domanda "chi sono?" sui tratti di permanenza, di immutabilità, il soggetto si trovasse confrontato con l'enigma - e la minaccia - di una ipseità senza medesimezza.. Come se l'ipseità si rifugiasse nella domanda senza risposta: chi sono io? ... questa messa a nudo che fa la sofferenza della ricerca d'identità>>, diceva Ricoeur in una conferenza pronunciata ad un pubblico di psichiatri. (1996, trad.mia).
Ma perchè, continuando ad adoperare la terminologia di Ricoeur, il rapporto fra idem e ipse, quel rapporto che risulta fondante la identità personale, che in quanto "normale" può finalmente essere narrata, in un percorso biografico ed autobiografico in continuo scambio con gli eventi di vita e con il contesto sociale, vien meno nella psicosi ed in particolare in quelle patologie che si indicano come disturbi schizofrenici ? La caduta nel dolore melanconico ha molto a che fare, al di là delle situazioni di esistenza e del loro importante senso personale, con un crollo assai impersonale, una "deiezione" nell'anonimo ( la heideggeriana Verfallenheit), qualsiasi possa essere il personale situativo patogenetico, ed è in questa caduta anonima che il futuro come progettualità scompare, ciò sembra essere in continuità di senso - se non di causa - con la struttura sproporzionata della identità del pre-melanconico ed il suo basarsi prevalentemente sulla medesimezza, soprattutto offerta dalla identità di ruolo sociale introiettato pervasivamente, ed ovviamente intriso di tempo passato. Ma quale è il disturbo basico del dubbio, della incertezza su "chi sono io", a mio parere sempre presente negli esordi schizofrenici, anche se più o meno coglibile a seconda delle persone ed ovviamente del tipo di ascolto e di rapporto dello psichiatra con la persona dello psicotico? Perchè ogni psicosi di questo tipo, che è iscritta nelle individuali declinazioni della storicità dei percorsi di vita, è anche una interrogazione sulla propria identità, in una angoscia che potrà talora sfociare nella costruzione delirante di altre origini ed altra identità, in un "romanzo familiare", anche protettivo rispetto al vissuto di angoscia? Quali sono gli aspetti psicopatologici di questo rischio di vuoto, di questo abisso, di questo non-esistere, di fronte al quale la persona costruisce l'arte di esistere non esistendo?
Si può affrontare questa ricerca partendo dall'Io o dal Mondo, ma sapendo bene che sono due facce della stessa medaglia, che ognuna è il riflesso dell'altra. Si può cioè centrare la indagine del sorgere della psicosi sulla crisi sconvolgente della "qualità dell'esser-noto" del mondo (Callieri,1982), sulla sospensione dei compimenti di significato, sulla crisi del progetto di mondo coesistentivo, o centrare l'attenzione sul polo egoico, sui disturbi dell'Io e della esperienza de sè. Ma, qualunque sia il campo di ricerca prescelto, è dal punto di vista fenomenologico evidente che <<il normale sentimento di egoità e il suo correlato, l'essere in sintonia con il senso comune, vanno mano nella mano...> (Parnas, 1999) e che <<la perdita dell'evidenza naturale riguarda non soltanto ciò che si incontra "al-di-fuori" nel mondo, ma anche e soprattutto l'Io proprio>> (Blankenburg, 1971).
Una lunga serie di ricerche e teorie sulla schizofrenia centra la attenzione sulla struttura dell'Io, che mostra una particolare debolezza e labilità. Anche senza che si concretizzino i veri e propri "disturbi dell'Io" della psicopatologia classica, questa debolezza di non potersi dare un fondamento sta in rapporto con la debolezza della naturalità dell'esperire: <<andare-da-sé ed essere-sè intrattengono una relazione complementare>>, scrive Blankenburg (1971) in tema di costituzione dell'Io schizofrenico.
Ritengo che il tema dei "disturbi dell'Io" ci fornisca una chiave di lettura del modo di essere psicotico, delle sue angosce sulla ineludibile crisi della identità. Il cuore della psicosi sembra essere una alterazione della esperienza di Sè nel Mondo, in mutuo rinforzo, ove la debolezza nella costituzione dell'Altro è debolezza del Sè, ove la angoscia è assieme per il terremoto del Sè e per la evanescenza del common sense nell'esperire il mondo, o - più sinteticamente - per l'esperienza del Sè fatta in quella esperienza. Dal punto di vista del Sè restano centrali i disturbi jaspersiani dell'Io, che gettano una luce da fine del mondo, in quanto punta saliente della messa in crisi della continuità dell'esperienza, della "presunzione" (Vertrauen) per la quale <<il mondo reale esiste solo nella presunzione costantemente prescritta che l'esperienza continui costantemente nel medesimo stile costitutivo>> (Husserl,1929). Messa in crisi davvero radicale se avviene che l'Io non sia più il polo identico e stabile dei vissuti. Questa evanescenza dell'Io è per Jaspers (1913-1959) una particolare alterazione della "coscienza di attività dell'Io", un venir meno della esperienza fondante per la quale tutto lo psichico ha il tono del "mio", del personale, del proprio operare, o - con Schneider (1956) - è "concernente il me" (Meinhaftigkeit), nel centraggio che questo A. fa sull'aspetto del "mio" più che su quello di "coscienza di operare", tendendo così a sottolineare un aspetto più immediato dell'esperire e più legato alla pregnanza affettiva rispetto ad un atto più riflessivo, quale la tematizzazione di essere i soggetti attivi dei propri atti psichici. Comunque si consideri questa scomposizione schneideriana, è indubitabile che la "coscienza di attività" dell'Io, in via immediata o invece riflessa, è un aspetto essenziale della vita psichica, e come avviene per altre essenziali componenti la sua importanza diviene evidente quando è carente e la sua carenza genera il mondo psicotico dell'influenzamento, dell'imposto, del "fatto" , della manipolazione del proprio esperire, in quanto non più sentito come proprio.
La crisi della "meità", il non riconoscersi come soggetto del proprio esperire, pensare ed agire, ha un immediato riflesso sulle basi stesse del mantenimento della identità personale. Intanto i cambiamenti, che via via strutturano la nostra identità, possono avere questa funzione dinamico-strutturante se e in quanto vi è un soggetto che li riconosca come "i propri cambiamenti". Ed è questa coscienza di appartenenza la precondizione per coniugare persistenza e cambiamento nel filo ininterrotto della identità. Questo è vero per qualsiasi cambiamento, da quelli somatici dell'invecchiare (come nelle serie di celebri autoritratti, nei quali le modificazioni evidenti non mettono in crisi l'identità dell'autore dell'autoritratto) alle radicali metamorfosi delle conversioni religiose o di altro tipo, nelle quali non è in discussione la appartenenza al soggetto del suo sentire ed esperire. Può in queste situazioni essere in atto un rifiuto di precedenti aspetti e declinazioni della identità, ma questo stesso atto del rifiuto è vissuto come appartenente all'Io. E' questo che garantisce la medesimezza anche là dove i cambiamenti del "che cosa" della identità siano vistosi.
Spesso si allude alla condizione schizofrenica con la espressione metaforica di "rottura dei confini dell'Io", che tuttavia ingloba sia il patologico essere influenzati che il patologico influenzare. Ma a parte che questa ultima evenienza sembra più propria dei disturbi maniacali che schizofrenici e comunque in essi avrebbe più le caratteristiche di elaborazione che di esperienza immediata (Blankenburg, 1988), l'aspetto più attinente al tema della identità è che i disturbi dei confini dell'Io <<illuminano dall'interno i mondi psicopatologici (quelli schizofrenici in particolare) in cui si declinano>> (Stanghellini, Rossi Monti, 1999), cioè sono costitutivi di essi, attraversati come sono dalla evanescenza del senso di "meità".
Ma considerare questo significa riflettere sul senso di appartenenza all'io dei propri vissuti quale pietra fondante la possibilità di costruire una propria identità, che sia anche in grado di assimilare i cambiamenti ai quali la vita e il mondo degli altri la solleciteranno. In un punto assai significativo della Seconda Meditazione Descartes scrive a proposito del cogito che fonda "l'io sono" : <<Io vedo la luce, io odo il rumore, io avverto il calore. Ma mi si dirà che queste apparenze sono false e che io dormo. E sia così. Tuttavia, in ogni modo, mi sembra che io veda, che io oda, che io mi riscaldi; e questo è propriamente quello che in me si chiama sentire, e ciò preso così precisamente, non è niente altro che pensare>>. (trad.mia).
Il riferimento al soggetto che esperimenta è ben chiaro, o come annota Heidegger (1961) Descartes sta dicendo che <<ogni ego cogito è un cogito me cogitare>>. Due cose si possono sottolineare: che la coscienza è centralmente coscienza di sè, che - in termini jaspersiani - il senso di appartenenza all'io, la presenza del soggetto, è ineludibile, se anche di fronte al dubbio che tutto sia un inganno e una apparenza, la risposta che almeno "mi sembra" così, reintroduce la essenza del soggetto e della sua intima appartenenza del sembrare. Inoltre, come è stato osservato da Henry (1985), non solo ogni attività dello spirito possiede il carattere di appartenenza al sè, ma il "sentire", l'affettività del pensiero, è per Henry auto-affezione: <<Essa è il sentire originale, il sentir-si di sentire>>(trad.mia).
Kimura (1997) commentando queste considerazioni scrive che la specificità della schizofrenia sta nel fatto che <<...l'evidenza di una appartenenza al "me" del "mi sembra che..." quale iscritto nel cogito, è perduta>>.(trad.mia) Ciò a mio parere vuol dire riproporre il disturbo schizofrenico come una patologia centrata sulla condizione abnorme della costituzione del soggetto (e quindi dell'Altro), della quale condizione lo svanire del "senso di attività dell'Io", come Jaspers lo chiamò, è una epifania ed un aspetto essenziale. Ma sottolineare il ruolo basico nella patologia schizofrenica della crisi dell'appartenenza all'io del proprio pensare, o, più esattamente. del proprio continuo sentire patico, vuol dire rendersi conto che la condizione schizofrenica conduce assai fatalmente verso una angosciosa interrogazione sulla propia identità, di una tormentosa, innaturale, iper-reflessività su di essa, visto che l' "io esperimento in me, dunque sono", è in sè stessa la pre-condizione di possibilità per l'avvio della costruzione dell'identità e del suo mantenersi nei e dei cambiamenti, se sono vissuti come i "propri" cambiamenti".
Su di un piano diverso ma convergente, quel che appare stravolto nelle psicosi è il rapporto fra "passività" e "attività" (Stanghellini, Ballerini, 1992) con lo sproporzionato prevalere della prima modalità nell' esperire Sè e il Mondo.
La rottura psicotica della buona proporzione fra attività e passività psichica diviene così la rottura fra continuità e cambiamento. Se infatti non posso più sentire come mie le mie esperienze interne non vi è più alcuna continuità possibile nella identità: si profila una ipseità nuda e sganciata da qualsiasi aspetto portante di medesimezza.
Quel cambiamento del complesso Io-Mondo che è il cambiamento psicotico, la rottura processuale con la propria biografia, non ha concordanza possibile con la persistenza della identità banale di ognuno, essenzialmente perchè non può esser riconosciuto come un cambiamento che appartenga al Sè; il rapporto fra libertà ed imposizione è alterato a favore di questa ultima. Quando la persona in esordio psicotico si chiede "chi sono" si chiede "cosa mi è successo", ma non nella maniera metaforica che tutti possiamo adottare quando siamo sconvolti da affetti o emozioni che sembrano sommergerci, ma nel senso letterale di essere vittima di un cambiamento che non gli appartiene, per cui egli si avverte come esser trasformato in un altro, in un enigma inquietante e il più spesso misterioso. Ed è tentando di sciogliere questo enigma della propria identità che alcuni psicotici delireranno sulle proprie origini, creando un "romanzo familiare" che in qualche modo reimpianti una continuità identitaria, un anno zero dell'idem, con il quale l'ipseità intereagisca ed una nuova storia possa esser magari narrabile, anche se non credibile.

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