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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

Il vaso di Pandora:
Riflessioni sull’esperienza psicotica acuta

di Francesco Barale, Stefania Ucelli


Ripubblichiamo, con il permesso degli Autori e dell’editore Borla (ai quali vanno i nostri ringraziamenti) un capitolo del volume curato da Dario De Martis, Francesco Barale e Edgardo Caverzasi La crisi psicotica acuta (Borla, Roma,1989). Il volume raccoglie gli atti di un convegno che si svolse a Pavia alla fine degli anni ‘80 per iniziativa della Clinica Psichiatrica dell’Università e della Fondazione Pietro Varenna di Milano.

Nella Introduzione al volume Dario De Martis scriveva:

"Pensare la crisi … significa confrontarsi con i temi radicali che concernono la temporalità, la storia del soggetto, la causalità psichica e somatica; temi che per quello che riguarda gli atteggiamenti clinici hanno molte implicazioni e incrociano le mitologie della ‘crisi’ come evento positivo, potenzialmente fecondo di riorganizzazione e integrazione di aree escluse dalla storia del soggetto. La tesi di Barale e Ucelli è che il migliore storicismo in psicopatologia è quello che abbandona l’idea naturalistica di ‘storia’ e l’immagine di una continuità lineare tra le esperienze del soggetto, e si apre alla possibilità delle diverse ‘storie’ latenti, in gran parte inattuate, nel mondo interno del soggetto stesso".

Un ringraziamento anche alla dr.ssa Elena Acquarini che ha curato la riproduzione del testo in rete.

Mario Rossi Monti

Antonella Di Ceglie

 



Il vaso di Pandora:

Riflessioni sull’esperienza psicotica acuta

di Francesco Barale, Stefania Ucelli


 

INTRODUZIONE: LA CRISI TRA CONTINUITA’ E DISCONTINUITA’

Come ha scritto recentemente Lanteri-Laura (1986) sia la riflessione psicopatologica che quella psicoanalitica si trovano tradizionalmente a loro agio con la durata e la cronicità e a disagio con l’acuto, che tendono a dissolvere in vario modo, o riducendolo ad una causalità esogena (un trauma, un episodio infettivo o tossico…) o leggendovi in qualche modo le tracce di una cronicità, di un continuum temporale e di senso misconosciuti. La crisi acuta finisce dunque, paradossalmente, col non esistere, per lo meno come oggetto pensabile, o con l’apparire tale solo agli ignoranti, a coloro che non riescono ad intravedere, sotto le apparenze dell’acuto, le sequenze di eventi (nel campo sociale, interpersonale o fantasmatico) che saldano la discontinuità. L’acuzie è, in queste concezioni, trattata come qualcosa di sospetto e di inautentico, che rimanda in definitiva a continuità nascoste. Ciò che è intelligibile si colloca per statuto, in questa tradizione di pensiero, nel corso della diacronia. Anche il "mediocre destino" della nozione di "nevrosi attuale" nel pensiero psicoanalitico testimonia del resto come la dimensione dell’evento attuale finisca con l’essere considerata scatenante solo in quanto ravviva qualcosa di passato, qualcosa che si ripete e che, interpretato, si svela come assai poco "attuale".

Ma in questa prospettiva tradizionale, intrinsecamente riduttiva, sembra funzionare un "pregiudizio di continuità", per usare l’espressione che J. Kagan (1984) ha usato riferendosi ad analoghe caratteristiche delle teorie tradizionali sullo sviluppo infantile; e in essa finisce con l’essere perduto, tra l’altro, proprio ciò che c’è di specifico nella crisi acuta: il suo essere appunto una crisi, un evento quasi sempre ampiamente imprevedibile, che si presenta come discontinuo rispetto alla storia del soggetto: che sembra portare alla luce anzi molte volte, proprio qualcosa di "altro" rispetto alla storia del soggetto, qualcosa che non si è organizzato (o non si è ancora organizzato, nella prospettiva più ottimistica) nella diacronia e nella continuità di senso; qualcosa che fa parte forse di altre storie potenziali che non si sono mai attuate, di altre possibilità di senso che non si sono mai dispiegate, di abbozzi di esperienze mai elaborate mentalmente.

Si potrebbe agevolmente mostrare come i modi tradizionali di pensare (cioè di non pensare) l’acuzie in psicopatologia (e anche in psicoanalisi) siano ampiamente mutuati sui modi in cui la scienza e un certo pensiero filosofico ottocenteschi erano abituati a trattare le rotture di continuità come fossero solo apparenti, riducendole in definitiva a variazioni continue. L’idea stessa che potessero esistere in natura discontinuità irriducibili ad una dilatazione più approfondita delle sequenze temporali e ad un’indagine "microscopica" sulle sequenze temporali e causali, era, come è noto (K. Pomian, 1977), inconcepibile per lo spirito scientifico e filosofico ottocentesco (malgrado i modi assai diversi in cui, nella tradizione hegeliana, si poneva il problema qualità/quantità), così come inconcepibile era l’idea di eventi singolari che segnalassero una discontinuità tra cause ed effetti. La riflessione sui sistemi complessi e l’evoluzione stessa delle conoscenze scientifiche (anche in biologia) rende insoddisfacente la tradizionale prospettiva "continuistica" ma, com’è noto, solo in tempi recenti sono stati elaborati i linguaggi matematici stessi in grado di rendere ragione delle discontinuità che caratterizzano i sistemi complessi, la cui evoluzione è ampiamente imprevedibile.

In psicopatologia, sottesa a quella concezione tradizionalmente riduttiva dell’acuzie vi era un’idea deterministica della "psicogenesi" (le varie teorie, tutte dotate di enorme potere auto-confermatorio, malgrado le ripetute smentite provenienti dai tentativi di verifica empirica, sulla psicogenesi in senso etiologico degli stati psicotici) ed una concezione implicita altrettanto deterministica e "chosiste" della storia e della temporalità psichica.

Pensare la crisi dunque implicherebbe non solo considerare e comporre la quantità di elementi di vario ordine (biologico, psicologico, interpersonale, ecc…) che intervengono nell’acuzie psicotica, ma sollevare questioni teoriche radicali, che ci appaiono ampiamente aperte sia in psicopatologia sia in psicoanalisi e che riguardano il rapporto crisi-struttura-storia del soggetto. Le osservazioni che seguono, che pure si muovono in questo ambito di problemi, non affronteranno direttamente questi nodi e non procederanno per vie teoriche; seguiranno invece dei percorsi clinici, privilegiando alcune implicazioni emozionali dei modi di concepire la crisi psicotica. Pensiamo infatti che se in tempi di neokraepelinismo e di biologismo di nuovo trionfante vi è il serio rischio in psichiatria del ri-diffondersi di atteggiamenti che deprivano di senso e contenuto esistenziale l'esperienza psicotica, vi è d’altro canto il rischio che la critica al riduzionismo biologistico si attardi ed insterilisca in riduzionismi d’altro tipo, psicologici o sociologici, o in relazionismi superficiali, che finiscono col proporre una visione non credibile, edulcorata, elusiva e facile della "psicosi"; una visione tutta in continuità con alcuni elementi (magari assai superficiali e generici) reperibili nella storia, nel mondo interno o nel campo psicosociale del soggetto che presenta una crisi psicotica. Di fronte alla catastrofe psicotica, all’irruzione di elementi di cesura e discontinuità radicale che essa rappresenta, lo psichiatra è chiamato a svolgere un difficile lavoro di contenimento e di sutura, di tessitura di "reti di protezione", secondo la bella metafora di Petrella. Ma questo lavoro di ritessitura di elementi di continuità e di significati possibili nell’universo sconvolto della psicosi, lavoro così difficile e precario, può non essere un esercizio intellettualistico (o addirittura un ulteriore elemento scissionale) solo a patto che passi attraverso la partecipazione autentica e la consapevolezza, emozionale innanzitutto, delle questioni davvero radicali in gioco nella crisi. D’altro canto ogni crisi rimanda ad una continuità della quale rappresenta il punto di squilibrio e, forse (e qui incontriamo un mito importante della psichiatria dinamica), di riorganizzazione. Come ha scritto A. Andreoli (1986), la riflessione sulla crisi è una sorta di problematica depressiva, dunque, della psichiatria contemporanea, di cui condensa i problemi; e al ripetersi di ogni crisi dei nostri pazienti si rinnova il nostro interrogarci sulle leggi enigmatiche che reggono il fragile equilibrio tra continuità e cambiamento nella vita mentale.

 

IL VASO DI PANDORA

La metafora del vaso di Pandora è di H. Searles. Searles la usa (1965) per descrivere cosa avviene quando, in una situazione prepsicotica o psicotica non acuta, ci sono delle spinte troppo intense o troppo rapide verso l’integrazione di materiale emozionale molto urgente e molto carico emozionalmente (che non è stato ancora, possiamo dire, reso pensabile). Ciò può produrre un movimento brusco di de-fusione, di scollamento da una situazione di confusione con l’oggetto che garantisce l’omeostasi psicotica. Si può allora assistere ad una liberazione esplosiva, allo stato magmatico, di mobilitazioni pulsionali, libidiche e distruttive, disinvestite e defuse, che invadono il campo psichico e vengono proiettate all’esterno, alla ricerca, inizialmente caotica (sarà il delirio a rimettere un po’ d’ordine), di questi nuovi oggetti da reinvestire; descrizione classica, questa, analoga a quella ben nota di Nacht e Racamier, dell’esordio psicotico acuto (1958). Searles nota come in molti casi queste acutizzazioni psicotiche siano scatenate da "circostanze che hanno portato il paziente ad incontrare certe verità su se stesso e sui suoi rapporti con altri membri della sua famiglia". "Verità preziose", ma che "giungono troppo rapidamente perché l’Io del paziente possa assimilarle; perciò l’Io regredisce, indietreggiando di fronte a quello che può essere considerato, nei suoi effetti, un vaso di Pandora scoperchiato". "Così – conclude Searles – quella che poteva essere un’esperienza di crescita e di conoscenza diventa un’esperienza che porta alla psicosi, nella misura in cui a poco a poco contro di essa viene eretta tutta una serie di difese patologiche".

Naturalmente la situazione descritta da Searles può presentarsi nelle circostanze più varie: basti pensare agli scompensi che si osservano, abbastanza comunemente, quando una relazione psicotica si rompe, o quando un membro di una coppia simbiotica si sottrae alla simbiosi (talvolta anche quando una relazione psicoterapica si inceppa) e il paziente si trova improvvisamente ad avere a che fare con la massa di identificazioni proiettive ("verità" nel senso del mondo interno) di cui prima si liberava impegnandole nell’altro e che ora gli ritornano impossibili da contenere.

Ma vi sono molte cose, dette ed implicite, in questo passo di Searles, su cui vale la pena di riflettere.

Innanzitutto, lo sfondo di problemi su cui subito si instaura il tema della psicosi acuta è quello del fallimento della differenziazione e del cambiamento; e, ad un tempo, del fallimento della possibilità di attingere a quel patrimonio di potenzialità umane (la cui presenza intravediamo di quando in quando, intatta, anche nello schizofrenico più regredito) che sembra drammaticamente imprigionato, nella psicosi, nell’alternativa tra confusione e catastrofe. Il riferimento al mito di Pandora è, da questo punto di vista, molto suggestivo: quello di Pandora, infatti, è uno dei miti che riguardano la lacerazione di una situazione di indistinzione originaria e la creazione di differenze nel tessuto dell’esperienza. Intanto la differenza sessuale: Pandora è, come è noto, la prima donna. Ma, con la differenza sessuale, la tolleranza della differenziazione, del tempo, di una condizione di dipendenza dagli oggetti. E, sullo sfondo di tutto ciò, il tema della colpa, come in tutti i miti della lacerazione dell’unità originaria. È per le colpe di Giapeto e di suo figlio Prometeo che ai loro discendenti viene regalata Pandora col suo carico; e con ciò vengono instaurati, ad un tempo, la differenza sessuale e il tempo, il godimento e la sofferenza e la morte. E Racamier (1980) ci ha dato delle descrizioni bellissime di come le fantasie relative a questi temi e la necessità di sottrarsi all’organizzazione pulsionale (che spinge verso lo scoperchiamento del vaso di Pandora) sia al centro dell’organizzazione schizofrenica. Ma vi è, in questo passo di Searles, il riferimento esplicito ad un altro mito: quello freudiano del "granello di verità" che si celerebbe, sotto infinite rifrazioni, al fondo di ogni delirio; sarebbe anzi questa verità, impossibile da elaborare e da pensare, la matrice emozionale della crisi psicotica. C’è anche il collegamento diretto a questo "granello di verità" ad aspetti non solo del mondo interno ma della storia "reale" del paziente: tendenza tipica, questa, della psichiartia psicodinamica americana di allora (ma che ha trovato diversi revivals, più o meno anacronistici, anche nella psicoanalisi contemporanea, in cui rimane fortemente radicata). Ma soprattutto è presente un ulteriore mito, che è al centro del modo in cui da sempre la psichiatria di impostazione psicodinamica ha considerato le "crisi": che esse siano, almeno potenzialmente, un’occasione di "crescita e conoscenza". Posizione espressa lapidariamente da Resnik (1986) con l’affermazione: "La crisi è sempre, nel bene o nel male, un momento di lucidità" (ma le assonanze di questa proposizione con la "metanoia" lainghiana e la sua idealizzazione estetica di quella cosa spesso tragica, comunque drammatica, che è l’esperienza psicotica acuta sono evidenti). Questa posizione può essere definita ippocratica, nella misura in cui nella medicina ippocratica, appunto, la crisi era il "momento della verità" della malattia, il suo punto cruciale. Questo mito (che la crisi sia la rivivescenza di un momento matriciale dell’esperienza psicotica, di un’area esclusa dall’organizzazione successiva, e che abbia perciò una potenzialità evolutiva) ha certamente avuto una funzione importante nel promuovere un atteggiamento verso le manifestazioni anche più drammatiche della follia come verso qualcosa che è carico, almeno potenzialmente, di senso e di verità umana (intrapsichica e/o interpersonale) che si tratta innanzitutto di accogliere e di intendere, per quanto ci riesce, nelle sue ragioni. Ma, come tutti i miti, funziona se non viene preso troppo alla lettera, irrigidendo in credenze o ideologie lo spazio di problemi cui allude. Le indagini catamnestiche e gli studi sull’evoluzione ci mostrano, del resto, ad esempio, che se una categoria come quella di "bouffée delirante" è una specie, per varie ragioni, dura a morire, l’ottimismo sugli aspetti integrativi ed evolutivi della crisi è assai poco giustificato, finora, di fatto. Anzi, è comune osservare, nelle singole storie di molti psicotici, come i momenti di riacutizzazione, ben lungi dall’essere momenti integrativi, finiscano con il rinsaldare, anche trattati in contesti assai accoglienti, se non altro per il terrore catastrofico che risollevano (Pao, 1984), le strategie e gli atteggiamenti psicotici.

Dunque una riflessione si impone. Il termine "crisi" non ha forse rischiato di diventare una parola passe-par-tout, in grado di coprire, all’insegna di continuismi genericamente psicosociali o vagamente sistemici, realtà molto diverse? Di quali crisi si parla? Qual è la fisionomia (se ne è individuabile una) delle crisi che contengono potenzialità integrative? Quali sono le condizioni che le rendono possibili? Tutti gli "accessi" sono "crisi"? E di che cosa è crisi la crisi? A quali linee di frattura nella struttura rimandano le singole crisi? Qual è l’economia che le regge? Quale la loro evoluzione e il loro rapporto con la struttura e la storia del soggetto?

 

VARI LIVELLI DI RIFLESSIONE

Molte altre domande, oltre a queste, potrebbero essere accumulate, in un elenco generico. Esse si collocano, in realtà, a livelli diversi di apprensione possibile di questo oggetto sfuggente che è la "crisi". Sia ciascuna di esse che le risposte che a ciascuna di esse possono essere fornite appaiono certamente parziali, riduttive o artificiose dal punto di vista degli altri piani di riflessione; ma tutte segnalano aspetti comunque ineludibili del problema.

Un primo livello, ineliminabile, di riflessione, è, innanzitutto, quello nosografico. È stato ampiamente trattato in altri capitoli di questo volume; e su quelle considerazioni non torneremo.

Ci limitiamo qui ad alcune considerazioni su un contributo recente di Maj (1987) a proposito dei "disordini schizo-affettivi", che ci pare esemplare di come un approccio rigoroso e lucido alla questione, ma che rimane intenzionalmente tutto all’interno dell’orizzonte nosografico, sollevi problemi ed aporie che richiedono un cambiamento di vertice. Maj rileva come i movimenti pendolari di spostamento dell’attribuzione nosografica di questi quadri dall’area maniaco-depressiva a quella schizofrenica (e viceversa) abbiano seguito mutamenti di atteggiamenti culturali che hanno a che fare solo assai relativamente con le "evidenze empiriche"; oppure siano stati indotti da evidenze empiriche certamente importanti ma che, come l’argomento ex iuvantibus della risposta ai sali di litio, di per sé testimoniano dell’appartenenza dei quadri acuti che rispondono a questa terapia alla "malattia maniaco-depressiva" altrettanto quanto l’effetto antifebbrile dell’aspirina sia nel raffreddore che l’artrite reumatoide depone per la comune natura di queste due affezioni. Maj conclude infatti per l’eterogeneità dei disturbi "schizoaffettivi", difficilmente riducibili ad un unico comune denominatore (se non si vuole incorrere in ingenue semplificazioni) e indica l’opportunità di non ricorrere frettolosamente a spiegazioni "unitarie" ma di procedere alla faticosa catalogazione di "sottotipi omogenei". Ma cosa vuol dire precisamente questo, qual è la natura di un’eventuale operazione di questo genere e quali sono le condizioni che la consentirebbero? Questa individuazione di "sottotipi omogenei" avverrebbe su base puramente sintomatica (o, peggio, a partire da qualche correlato biologico assunto arbitrariamente come elemento specifico ed "essenziale")? Ma i sintomi non assumono valore diverso in strutture diverse? Ed è veramente possibile definire strutture diverse senza ricorrere all’individuazione dell’economia interna che le regge e quindi ad un momento interpretativo (magari implicito negli stessi criteri di individuazione dei sintomi)? E questa definizione può essere solamente sincronica o non implica necessariamente una valutazione diacronica? Ma l’introduzione dell’aspetto diacronico ed evolutivo non finisce con l’introdurre variabili assai complesse (oppure cortocircuitare in riformulazioni, magari solo un po’ più sofisticate, della vecchia tautologia: "se la schizofrenia non evolve in demenza vuol dire che era sbagliata la diagnosi")? Maj giustamente ricorda la necessità di un’adeguata valutazione della "fonte di reclutamento" dei casi considerati, perché essa influenza la gravità delle forme cliniche e quindi la loro distribuzione nei diversi "sottotipi". Ma non traspare in ciò stesso, nel tentativo di dominare questa e le altre possibili variabili, una difficoltà ineliminabile del tentativo di classificazione delle forme di sofferenza mentale come fatti della natura, isolati dal loro concreto costituirsi all’interno di un itinerario umano complesso (itinerari che si organizzano intorno alla storia delle vicende interne ma anche delle risposte che queste vicende hanno ricevuto, nonché, radicalizzando il problema, delle forme culturali stesse e dello scenario simbolico collettivo in cui questo incontro avviene)? E, del resto, la distanza e il tempo che separa ad esempio la concezione kraepeliniana della schizofrenia dalle tesi di Zubin (1983) (che tendono a mettere in discussione la nozione stessa di cronicità) non sono forse lo spazio e il tempo della crescita e della trasformazione non solo e non tanto delle "evidenze empiriche" ma dei modi dell’incontro con la sofferenza psichica, che a loro volta hanno costituito la condizione dell’emergere di altre "evidenze empiriche"?

Ma, in fondo, decenni di "pensiero critico" ci hanno talmente assuefatti a queste considerazioni che un rischio altrettanto grosso dell’assunzione delle evidenze empiriche come dati primi e irrelati è quello della negazione, altrettanto a-dialettica, che delle evidenze empiriche abbiano comunque bisogno, così come abbiamo bisogno di articolare il continuum delle possibilità di sofferenza mentale e delle sue declinazioni individuali in categorie su cui sviluppare un massimo di intesa e che ci consentano, se non altro, di poterci parlare. Del resto Freud stesso, come ci ricorda Racamier (1980), "non ha mai disdegnato le sfumature nosografiche, dato che esistono". Ciò che è dunque davvero indispensabile è un lavoro di ricerca di evidenze empiriche che sia metodologicamente consapevole del carattere funzionalmente artificioso delle sue operazioni, che si ritagliano su uno sfondo implicito assai complesso che determina le condizioni del loro costituirsi; cioè un lavoro di ricerca che non scambi per l’essenza naturale delle cose i suoi artifici metodici, che abbia ben chiare le caratteristiche delle proprie procedure e dei propri linguaggi e abbia ben presente come essi arrivino sempre inevitabilmente a dei punti di curvatura che impongono l’aprirsi di altri orizzonti di questioni in cui i problemi "protocollari" precedenti sono contenuti; altri orizzonti che richiedono altre procedure conoscitive e altri linguaggi. In particolare, per quel che riguarda le forme pratiche di assistenza in cui la riflessione psichiatrica si sviluppa, un lavoro di ricerca che non ignori ma anzi assuma come proprio oggetto il passaggio, per usare ancora le parole di Andreoli, "da una psichiatria istituzionalmente statica e clinicamente fissata a una psichiatria clinicamente in movimento, epidemiologicamente composita e istituzionalmente instabile".

In questo ambito ci pare, si colloca la ricerca sull’evoluzione degli episodi psicotici acuti i cui primi risultati sono proposti in questo volume.

Ma altri livelli problematici dunque si impongono. Quello psicopatologico, strutturale, fenomenologico; la riflessione psicodinamica. Vari capitoli di questo libro si situano a questi diversi livelli. Ciò che segue, in queste note, è dedicato ad un particolare problema, che ci pare tuttavia centrale nel problema della crisi psicotica, nel modo di concepirla e nella possibilità di interazione terapeutica con essa: la questione del rapporto tra crisi, struttura e storia del soggetto.

 

CRISI E STORIA DEL SOGGETTO

4.a. Alcune configurazioni e problemi

Configurazioni diverse sono possibili. Il ritorno ad una situazione manicomiale può essere esemplificativo, intanto, di una di esse.

La scena è quella del reparto di un vecchio manicomio, prima della 180. In questo reparto è entrato un gruppo di giovani psichiatrici molto entusiasti e molto impegnati ideologicamente, decisi a "portare avanti", come si diceva, "un programma di de-istituzionalizzazione". In questo contesto c’è un incontro: quello con una anziana signorina che, in quello squallidissimo posto, si era ritagliata un angolino di decoro, col centrino sullo sgabello di metallo e le tazzine per il té; angolino nel quale ci accoglieva con garbo manierato e cerimonioso. Questa signorina era ricoverata da circa 35 anni, dal tempo di un episodio dissociativo acuto, descritto con ricchezza di dettagli nella cartella clinica (che poi, per gli altri 35 anni, praticamente era silente), insorto in coincidenza dell’accostarsi della paziente alla possibilità di un rapporto sentimentale. Non vi era traccia, attualmente, dell’antica patologia (che sembrava totalmente spenta da molti decenni) se non, forse, nella ferma convinzione che mai e poi mai sarebbe uscita da quella che ora considerava la sua "casa" perché il fratello maggiore, "che l’aveva fatta ricoverare per gelosia", avrebbe fatto di tutto per impedirglielo.

Il caso sembrava messo lì apposta per surriscaldare i nostri spiriti anti-manicomiali. Iniziò un lungo lavoro di ricerca dei familiari (di cui non esisteva più alcuna traccia), si dotò la paziente di pensione, fu infine rintracciato il fratello maggiore che, dopo lunghe peregrinazioni, era tornato a vivere vicino. Lo andammo a trovare; e fu con grande stupore (e diffidenza: si sa, i familiari…) che lo udimmo dire che lo scopo della sua vita era solo attendere che la sua amatissima sorella uscisse dal manicomio; che non si era neppure sposato (mantenendo una promessa fatta alla madre) per questo; che non si era più fatto vivo perché i medici, a suo tempo, l’avevano perentoriamente dissuaso dicendo che era assolutamente inopportuno, viste le condizioni e le convinzioni deliranti della sorella, che lo facesse: si sarebbero fatti vivi loro, al momento giusto. Da allora, erano passati diversi lustri, aspettava. E, vista la nostra incredulità, ci aprì la porta di una cameretta e poi di un armadio dove teneva, in perfetto ordine, gli oggetti personali e i vestiti della sorella: i vestiti di una fanciulla degli anni 40, con cappellini, veletta, guanti, tutto perfettamente ordinato e pronto per l’uso. Sembrava davvero che il tempo si fosse fermato, non solo nella cartella clinica. In compenso questa sembrava (finalmente) una dimissione facile; anche se, inspiegabilmente, la nostra signorina accoglieva i nostri entusiastici resoconti sui rapidi progressi del progetto di dimissione col solito garbo figé ed una tenace incredulità ("vedrete che non sarà possibile"). Infatti, il giorno prima di quello fissato per il rientro a casa, comparve un quadro assolutamente improvviso di psicosi delirante acutissima, in cui vedemmo bruscamente ripresentarsi gli stessi temi, con gli stessi personaggi e quasi le stesse "dimenticate" parole, fin nei minimi particolari, di 35 anni prima; situazione che rapidamente scivolò verso un quadro confusionale agitato (una "catatonia acuta"? un "caos organismico", come dice Ping Nie Pao?) e poi verso una di quelle drammatiche dissoluzioni psicosomatiche descritte da P. Marty (1976), con eritemi, ponfi, edemi, ipertermia, imponente impegno neurovegetativo…, che si concluse, nel giro di un paio di giorni, con la morte.

Tante considerazioni sarebbero possibili su questo caso. Ne scegliamo qui solo alcune relative al nostro tema. Questo riemergere tale e quale dell’esperienza psicotica acuta di molti o moltissimi anni prima è un fenomeno descritto più volte. Recentemente ci hanno riflettuto Vender e coll. (1989). Chi si occupa di psicoterapia delle psicosi sa del resto che è relativamente frequente, con certi pazienti, incontrare delle memorie assolutamente "immediate ed evidenti", immodificate e immodificabili, che sembrano sottrarre a quel faticoso lavoro di metabolizzazione, elaborazione e trasformazione che è il "ricordare". Racamier, che le ha descritte (1984), le ha chiamate "ricordi illuminati", per indicare la loro caratteristica di risaltare con straordinaria ("luminosa") evidenza sull’isolamento e su uno sfondo di rapporti enigmatici o interrotti con la trama dei ricordi circostanti.

Come se il tempo, per queste aree mentali (quelle implicate nell’esperienza psicotica originari che riemerge tale e quale 30 anni dopo o quelle racchiuse, appunto, nel "ricordo illuminato") non fosse assolutamente passato. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a fenomeni che non hanno a che fare con il ricordo. C’è un arresto della temporalizzazione di fronte ad un’esperienza troppo urgente per poter essere metabolizzata mentalmente, integrata, trasformata, inserita in nessi significativi, elaborata e rielaborata nel ricordo. Sia il riemergere acuto di un’esperienza psicotica antica mai integrata ed elaborata sia i ricordi illuminati, "fotografie di un reale pietrificato" (De Waelhens, 1972), sono dunque immagini di un’esperienza che, a rigore, non è mai stata fatta, che è rimasta in una dimensione pre-simbolica, nella preistoria, per così dire, sottratta al tempo o fissata a livello sensoriale nel ricordo illuminato: aree emotivo-mentali che sembrano rimanere radicalmente precluse alla storia del soggetto, incistate in un tempo astorico, che non consente alcuna rielaborazione, saturo di coincidenze e tessuto di identificazioni proiettive; possibilità di storia mai attuate.

La situazione descritta è quella di una particolare disarticolazione della architettura interna del tempo e della storia del soggetto. Come ha scritto recentemente A. Green (1987) "la storia dell’analisi di un paziente non è la storia che ha avuto luogo nel reale, è la costruzione della realtà psichica del soggetto. Ma nei casi limite e nelle strutture psicotiche…ci troviamo di fronte ad organizzazioni che non si contentano di mostrarci delle storie lacunari, ma che ci presentano spesso un quadro a-storico. La storia della malattia è più ricca della storia del soggetto. Non che i ricordi manchino, ma il legame tra i ricordi evocati e la struttura psicopatologica lascia uno scarto incomprensibile". Questo scarto (che la verità non riguarda solo le esistenze psicotiche ma, probabilmente, ogni esistenza) sembra essere ampiamente occupato da quelle aree "preistoriche" che si esprimono esplosivamente nelle crisi acute.

Ma la crisi, se è il modo di irrompere nella storia del soggetto delle aree cieche della storia, è, contemporaneamente, il segnale dell’impossibilità di un loro contenimento e integrazione. Nel caso descritto, poi, ci si può chiedere se l’impossibilità radicale di accesso alla pensabilità, al tempo e alla storia di ciò che si è espresso in modo drammaticamente dissolutivo nella crisi, non abbia a che fare, anche con la risposta ricevuta dal trattamento istituzionale. È assai probabile che sia anche così. Ma il punto che volevamo sottolineare è che il lavoro con i pazienti psicotici attraversa comunque problemi radicali di tolleranza, pensabilità ed eventualità catastrofica, radicato com’è in aree emozionali inelaborate e apparentemente sottratte alla storia. Ha a che fare con un lungo e spesso estenuante impegno in una preistoria "preliminare al linguaggio e alla formazione dei ricordi" (Green, cit.) che, quando le cose vanno bene, può permettere lo svilupparsi, a volte, di una storia. Ma è come se il terapeuta "consacrasse un lungo tempo a cercare di tessere la tela e lo schermo sul quale si proietterà il film del soggetto che infine potrà raccontare una storia o un dramma". Chi di noi ha lavorato negli ospedali psichiatrici sa bene, del resto, cosa significhi incontrare le vite apparentemente senza tempo e senza storia degli schizofrenici cronici, che sembrano vivere in una separazione radicale tra l’enigmatica e inaccessibile temporalità interna e l’adattamento meccanico (o simbiotico, o entrambe le cose) alla temporalità oggettiva, peraltro spesso altrettanto immota, dell’istituzione . senza che tra i due si apra alcuno spazio di transizionalità: e le crisi sembrano prendere il posto di questa transizionalità impossibile.

Altre volte, invece, ma in genere in contesti assistenziali assai diversi, una transizionalità si costituisce e i coaguli emozionali impensabili e sottratti alla storia che si esprimono negli episodi acuti riescono in qualche modo ad avere un accesso migliore a quel tempo della elaborazione e rielaborazione, della tessitura e ritessitura di un senso mai definitivamente conchiuso che è il tempo del ricordo e della vita mentale.

G. è una paziente psicotica di circa 30 anni, seguita psicoterapicamente da uno di noi da diversi anni. L’esordio psicotico, acutissimo, era avvenuto, come per la signorina del manicomio del caso precedente, in coincidenza dell’affacciarsi di G. alla vita sentimentale e sessuale. Al primo episodio acuto altri erano seguiti, prima dell’inizio della terapia; ma il trattamento partecipe ed affettuoso ricevuto nel contesto di un servizio territoriale particolarmente disponibile (durante gli episodi acuti era stata, ovviamente, ospedalizzata) aveva probabilmente contribuito ad evitare l’organizzarsi di una condizione di grave regressione psicotica. Anche il quadro psicopatologico di stato, all’inizio della psicoterapia, presenta delle somiglianze, tuttavia, con quello dell’anziana signora precedente. In quest’ultima l’esperienza psicotica acuta si era rapidamente spenta e il delirio stesso, sopo un po’, non aveva avuto ragioni di essere, lasciando il posto a ciò che Racamier chiama "delirare nel reale", cioè un indovarsi come un paguro nel tessuto della realtà circostante usando gli oggetti come oggetti-sé, infiltrati di proiezioni silenziose e discrete, "mormorii di delirio disseminati nelle cose". In G. l’esperienza psicotica acuta ha lasciato il posto ad una "psicosi bianca" (entità nosografica non reperibile nel DSM III): quella modalità descritta da J. L. Donnet e A. Green (1973) in virtù della quale, per sopravvivere, non è più necessario, anche in questo caso, fare quella cosa tutto sommato dispendiosa che è delirare: è sufficiente svuotare di senso le cose e i rapporti. G. in effetti, col sostegno dei suoi medici, ha mantenuto un lavoro, delle relazioni, un impegno politico (fortemente intessuto di fantasie deliranti), si è persino sposata. Solo che svuota accuratamente di senso tutto ciò attraverso una microattività proiettiva incessante, che attacca infallibilmente, distorce e appiattisce ogni legame (e ogni apertura possibile di senso); solo ogni tanto questa attività si condensa in abbozzi di delirio e solo ogni tanto, negli spiragli di questa organizzazione opaca e ripetitiva balena un mondo segreto carico di angosce tumultuose, a temperatura elevatissima.

Anche qui, come nel caso precedente, un intervento non sufficientemente consapevole della radicalità dei problemi in questione provoca una riviviscenza del crollo iniziale. Questa volta è un altro attivismo, però diverso da quello ideologico, che scoperchia il vaso di Pandora: è un attivismo sostenuto da una certa supponenza, forse, di sapere "come si fa con gli psicotici" e, sul piano controtransferale, soprattutto da una certa intolleranza del sentimento di inanità che inevitabilmente organizzazioni di questo tipo suscitano; impazienza che può tradursi in un proporsi troppo "attivo" come oggetto transferale, in un desiderio un po’ baldanzoso di scuotere il paziente dalla sua "onnipotenza inanitaria", in atteggiamenti interpretanti che hanno il valore di una reintroduzione narcisistica di senso (al servizio del terapeuta) in una situazione insopportabilmente opaca. La nuova crisi viene superata. E il terapeuta ha appreso un po’ di più di quell’esercizio di straordinaria astinenza e tolleranza che gli psicotici ci impongono, quando ci confrontiamo davvero con loro. Da allora G. non ha più avuto crisi catastrofiche (sono passati diversi anni). Ha avuto invece molti microsismi di grado meno elevato, sommovimenti a piccole energie, che hanno organizzato, pare, delle valvole naturali, dei sistemi di pervietà e comunicazione tra interno ed esterno, fantasmi e reale, immediato e storia. Situazioni di psicotizzazione acuta parziale in seduta, potremmo chiamarle. Non sappiamo bene come questo sia avvenuto. E il terapeuta stesso ha un’idea solo molto parziale dell’uso che G. ha fatto di lui e del rapporto con lui; mentre conosce meglio i sentimenti di irritazione, inutilità, eccitamento, fatica, paura, noia bestiale, che, accanto a momenti di intensa bellezza e speranza, G. gli ha suscitato.

Certo non è stata la crisi acuta a creare varchi verso un’area di gioco e di pensiero, chè anzi la crisi era il segno che non esistevano le condizioni di contenimento sufficienti per il lavoro di elaborazione. Semmai un valore lo attribuiremo a quei sommovimenti parziali, attraverso i quali, ogni tanto, da sfondi opachi e conglutinanti, si sono affacciate e hanno cominciato a circolare, nel rapporto, quelle aree emozionali alla ricerca di un orizzonte di pensabilità che avevano fatto irruzione nella crisi acuta.

L’evoluzione certo è stata molto diversa, in questo caso, rispetto al precedente, a parità di condizioni psicopatologiche iniziali. È probabile che ciò abbia a che fare con aspetti molteplici, che vanno dalla differente virulenza "naturale" del processo psicotico, all’economia interna e all’organizzazione strutturale dell’apparato mentale di G. (e alla forza delle sue capacità di legame), alle condizioni di trattamento, a numerose variabili relative all’assetto della relazione terapeutica. Sarebbe interessante individuare quali aspetti di ciò che accade nella coppia al lavoro nella relazione terapeutica possono essere individuati come elementi predittivi di differenti evoluzioni. Ma ciò va ben al di là dei propositi di queste note. Le metafore energetiche ci appaiono, comunque, inevitabili, nei termini, se non altro, della temperatura necessaria, nell’apparato contenitore, per avviare processi elaborativi e oltre la quale, invece, nessuna elaborazione è possibile, per il prevalere di processi disgregativi caotici che tendono verso l’entropia. In questo caso comunque un abbozzo di continuità tra esperienza psicotica e storia si è costituito (continuità "interna" tra esperienza psicotica e storia del soggetto, ovviamente, chè dall’ "esterno" non c’è nulla che non abbia una qualche storia); e non è certo irrilevante che questi rapporti di senso si siano costituiti man mano che il rigido canovaccio di vicende di personaggi a fosche tinte che G. mi aveva presentato, all’inizio, come la sua Storia (con la "s" maiuscola) ha cominciato a mutare e a lasciare spazi di possibilità di risignificazione.

Ma molte altre descrizioni di altre modalità del rapporto crisi-storia sono possibili. Che dire, ad esempio, di quelle boufféè deliranti "vere", che forse sono più rare di quanto si pensava ma che pure esistono e delle quali non si riesce talvolta davvero a vedere né il prima né il dopo? Dove vanno a finire quelle esperienze? Forse in aree cieche del mondo interno, presenti in tutti noi? Quelle zone di scissione fisiologica che costituiscono l’ "inconscio più profondo", come l’ha chiamato M. Klein in uno dei suoi ultimi lavori in cui, capovolgendo posizioni precedenti, sostiene che la salute mentale è garantita proprio dal mantenimento di queste scissioni fisiologiche che proteggono dal crollo psicotico altrimenti indotto dall’irruzione di emozioni intollerabili e proto-oggetti e proto-pensieri arcaici? Questa scissione protettiva può cedere per le ragioni più varie, esterne o interne, che squilibrano economicamente il sistema, aumentando la pressione degli elementi scissi o indebolendo le difese. Ma, allora, appunto, possiamo pensare davvero questi momenti di scompenso acuto senza tirare in ballo quel punto di vista economico di cui ci si deve sbarazzare certamente quando lavoriamo col paziente, ma che si impone da sé, in un certo senso, se cerchiamo di concettualizzare non solo le crisi psicotiche ma molti altri fenomeni clinici (e che è certamente implicato nel processo di fuoriuscita dalla pura sensorialità verso la mentalizzazione)? E col punto di vista economico, che riguarda l’interfaccia della vita mentale col biologico, numerose altre questioni, forse.

Inoltre, talvolta, questi scompensi acuti compaiono in strutture in cui predominano, con grande evidenza, meccanismi primitivi di risoluzione dei conflitti (il diniego, la scissione, la proiezione, ecc…): in questi casi la faccenda è meno perturbante. Ma in altri casi invece proprio no: ci troviamo di fronte ad apparati mentali funzionanti a livelli di elaborazione ed economici relativamente maturi che improvvisamente si collassano per irrompere di una angoscia impensabile. E quello che succede in questi casi, semmai, è una psicotizzazione successiva: un’evoluzione in cui proprio l’esigenza di evitare di sperimentare di nuovo il "panico organismico" della dissoluzione del sé produce una regressione dell’Io verso organizzazioni difensive e stili di rapporto oggettuale sempre più primitivi, sempre più narcisistici, in modo da far sparire, tendenzialmente, il conflitto e gli oggetti stessi. L’Io allora tende a perdere la sua funzione di sostegno "alla messa in gioco intrapsichica delle pulsioni" (Andreoli); e, ammesso che la crisi abbia avuto all’inizio un innesco conflittuale, l’organizzazione dell’Io tende a degenerare e ben lungi dal far evolvere parti non integrate del mondo interno le trasforma sempre più in resti narcisistici, sempre più radicalmente, se è possibile, forclusi. Così lo scompenso psicotico, all’inizio collasso episodico di un Io che riprende poi a funzionare, tende, ripetendosi o prolungandosi, a trasformarsi in una disorganizzazione stabile della struttura e dei suoi livelli di funzionamento, da cui è ben difficile, talvolta, tornare indietro.

Queste considerazioni hanno delle evidenti ed immediate implicazioni di ordine operativo, per quanto riguarda gli stili di intervento: tanto più prolungata è la sofferenza psicotica, l’esperienza di perdita dell’integrità del sé, tanto maggiore è il rischio di un’evoluzione di questo tipo. Il che significa che la risposta alla crisi si muove subito tra esigenze apparentemente contraddittorie: quella di non dare una risposta, anche sintomatica, all’urgenza, di non sottovalutare il rischio di una grave disorganizzazione che è sia intrapsichica che interpersonale, predisponendo adeguati dispositivi di contenimento e trattamento, e quella, invece, di proporsi subito come termini di un’interazione di crisi che non sia solo di tamponamento sintomatico, ma cerchi, da subito, di restituire le emozioni in gioco ad un quadro conflittuale, lavorando, nell’urgenza, per la pensabilità. Entrambe queste esigenze sono importanti e inscindibili. Anche se si ha l’impressione, talvolta, che prevalga invece una dicotomia o un’oscillazione molto brusca di atteggiamenti tra una polarità, diciamo così, immediatamente medicalista e una polarità altrettanto immediatamente ideologica. È stato un topos (e anche un luogo comune) della psichiatria dell’ultimo decennio quello della distinzione tra crisi e urgenza. Questa distinzione è stata ed è certamente importante. Ma abbiamo l’impressione che abbia condotto, in certe aree della psichiatria, ad atteggiamenti emozionali e professionali sostanzialmente evasivi rispetto all’urgenza interna che comunque si esprime in ogni crisi. Troppo spesso il look distintivo dello psichiatra a malintesa impostazione psicodinamica è parso quello un po’ furbesco e supponente di "chi non si fa fregare dall’urgenza" e da tutte le gabole (di pazienti, parenti, committenti e chi più ne ha più ne metta) sicuramente nascoste (e magari velocemente interpretate) nella richiesta "urgente". Disconoscere e non farsi carico, in realtà, anche di questa urgenza significa mettersi (anche nel caso in cui ciò sia sostenuto dalle migliori intenzioni e non solamente da un atteggiamento indifferente o peggio clinico) in un’orbita di non contatto con gli aspetti comunque radicali che si esprimono nella crisi (intrapsichici o intrerpersonali che siano).

 

4 b. Crisi e storia del soggetto: una questione radicale

Per concludere accenneremo ad un altro livello possibile, il più problematico forse, del rapporto crisi-storia. Anche qui ci serviremo di una breve vicenda clinica.

M. è un giovane di 18 anni. Arriva all’osservazione di chi scrive qualche anno fa, al momento di un esordio schizofrenico subacuto. Fino a qualche mese prima era stato un ragazzo tutto sommato molto normale: abbastanza socievole, malgrado una certa timidezza e sensibilità, di buon successo scolastico, ben integrato nel gruppo dei coetanei, molto intelligente con una spiccata sensibilità estetica e una certa vulnerabilità emozionale. La famiglia, medio-borghese, appariva sufficientemente armonica ed integrata, con un buon rapporto tra i genitori, che non presentavano alcun tratto patologico particolare e tra questi e i figli. C’è invece una familiarità di alcuni casi di psicosi in parenti di 2° grado. Alcuni mesi prima la famiglia era stata colpita da una grave disgrazia: la morte del fratello maggiore in un incidente automobilistico. M. sembra aver reagito bene nei primi mesi, mentre la madre sprofonda in una situazione depressiva. Dopo un po’ tuttavia M. si fa progressivamente più apatico, manifesta bizzarrie comportamentali, rifiuto del cibo, allarmi ipocondriaci; improvvisamente compare tutta la nota sintomatologia dell’esperienza delirante primaria, cui fanno seguito costruzioni deliranti mutevoli, sempre più enigmatiche, con prevalenza di temi di colpa-persecuzione. La famiglia è fortemente mobilitata, in senso molto positivo, malgrado l’angoscia, nel tentativo di fronteggiare la crisi di M.. Chi scrive dà le indicazioni di intervento richieste e, dopo un po’, perde di vista la situazione. M. e i suoi ricompaiono dopo qualche anno e la situazione, ora, è assai diversa. Il quadro clinico di M., innanzitutto, è ora quello di una schizofrenia; una schizofrenia che certamente non ha avuto l’evoluzione catastrofica che il manicomio produceva, centuplicando l’effetto patogeno delle difese psicotiche e della regressione autistica; alcune aree dell’Io sono integre e il sostegno farmacologico e psicoterapico (M. è stato seguito in un contesto assai qualificato) sembra aver prodotto una sorta di "secondarizzazione forzata" (Andreoli) di vaste aree del funzionamento mentale, un certo contenimento dell’esperienza psicotica e un discreto adattamento "a minima". Ma un’evoluzione processuale c’è stata, secondo un iter che getta qualche dubbio sui modi in cui dobbiamo intendere le affermazioni radicali intorno alla sparizione delle figure tradizionali della clinica psichiatrica. Ma non solo il quadro clinico di M. è evoluto; anche lo scenario relazionale è mutato; e, con esso, è mutata anche la sua storia. L’intera organizzazione relazionale familiare si è come collassata, malgrado ogni sforzo (anzi, per un eccesso, semmai, di partecipazione) nell’impatto con l’esperienza psicotica di M. e si è organizzata a livelli dominati dal circuito delle identificazioni proiettive; così la capacità di contatto, comprensione, partecipazione e separatezza tra i singoli membri del gruppo è sostituita da movimenti magmatici all’insegna di una sostanziale indistinzione reciproca.

Ma anche la storia è mutata. Affiora ora un’altra storia; e, nei genitori di M., una trama di ricordi, vissuti, sentimenti di colpa, momenti problematici, difficoltà, incomprensioni, dissapori coniugali segreti, si organizza, ora, in una nuova apparente continuità di senso col disastro psicotico, sotto la pressione dell’esigenza stessa di trovare una "ragione" di quanto è successo. Così la mamma di M. mi dice una cosa atroce: quando scorge sulla mia faccia una involontaria espressione dubitativa mentre mi sta elencando, in una sorta di esercizio catartico masochistico, tutti gli sbagli e le colpe sue e del marito ("individuate" del resto in una tranche di cosiddetta terapia familiare, precedentemente eseguita, come le cause possibili della schizofrenia di M.) esclama: "Ma come, dottore, lei pensa che non sia vero che M. sta male perché abbiamo fatto questi sbagli? Ma allora come possiamo sperare che possa guarire?".

Forse questa storia nuova che la mamma di M. ora racconta, non riconoscibile prima, dolorosamente emersa dopo, non è significativa? Non stabilisce un attendibile rapporto di continuità diacronica? Certo che è significativa; e certo che questo rapporto di continuità c’è ed è importante che si delinei. Solo che si tratta di storie e di rapporti possibili; per nulla necessitanti. Storie, rapporti e trame di continuità che si instaurano retrospettivamente: non solo nel senso che sono messi in evidenza dal realizzarsi di quella possibilità che è stata la psicosi di M., ma nel senso, molto più forte, che sono generati dalla crisi psicotica, che li estrae da una zona di latenza dove giacevano, come possibilità insaturate, assieme a tante altre storie e a tante altre trame non attuate. Esattamente come nel mondo interno di tutti noi giacciono, irrealizzate, aree, nuclei possibili di esperienza, che le circostanze più diverse possono saturare. È molto probabile che la mamma di M. non si sarebbe mai "ricordata" tutte le cose che mi è venuta poi a raccontare se non ci fosse stata la crisi di M. e che io, anche se l’avessi seguita più approfonditamente, non me ne sarei accorto: perché, a rigore, prima, quelle cose non esistevano come ricordi operanti.

Dunque il rapporto crisi-storia può essere rovesciato. Non solo la crisi appare spesso assai difficilmente riducibile alla "Storia" ma instaura essa stessa altre storie. Questa idea che possa cambiare la storia di ciò che è già accaduto può sembrare assai irragionevole e contraria al senso comune, se non si fa mente locale al fatto che ogni storia del passato è in realtà una narrazione possibile che si è andata edificando attraverso la selezione, su basi affettive (spesso quelle direttamente in causa nella patologia dei pazienti) di certi aspetti, tratti, significati, di un’esperienza che è sempre assai più complessa ed eccedente rispetto a quella narrazione e ad ogni altra narrazione che se ne possa dare.

Nel caso dei genitori di M. è accaduto, in negativo e a rovescio, sulla base della esigenza di farsi carico della misteriosa negatività e distruttività in atto nella psicosi di M., ciò che accade, in positivo, quando un lavoro psicoterapico procede bene: si assiste infatti allora al trasformarsi dei ricordi del paziente delle immagini che egli fornisce delle situazioni e delle figure importanti della sua storia. In questi momenti evolutivi è la storia stessa del paziente che comincia, "aprés coup", a trasformarsi, sulla spinta della relazione attuale che ha messo in funzione aspetti del mondo interno, aree mentali, qualità di oggetti interni, dapprima obliterati, che ora sono in grado di risignificare la vecchia "storia" all’interno della quale giacevano schiacciati (Barale, 1985).

 

4 c. … e alcune considerazioni

E’ curioso che noi psichiatri ad impostazione psicodinamica, che siamo assai rapidi a tacciare di meccanicismo e naturalismo la fissazione nosografica in speci delle forme di sofferenza mentale, manteniamo talvolta una concezione chosiste e meccanicistica della storia e dell’inconscio. Eppure, strumenti per riflettere sulla questione sono a portata di mano. Ad esempio la classica nozione freudiana di Nächtralgickeit, l’aprés coup lacaniano, che ci segnala i complessi percorsi del costituirsi del senso degli eventi lungo un tempo della vita mentale che non procede affatto per sequenze lineari cronologiche; o, se si volesse sconfinare dal nostro specifico, la tematica così presente nella riflessione filosofica contemporanea (per lo meno a partire dalla seconda "Considerazione inattuale" di F. Nietzsche), dalla separazione radicale tra evento e senso, tra fatto storico e sua esperienza individuale; e, nell'immediatezza stessa dell'esperienza, tra opacità del presente e orizzonte di memoria.

Ma facendo uno sforzo di riflessione su questi temi incontreremmo anche tutti i limiti di una psicogenesi intesa in senso causalistico ed etiologico. Per le stesse ragioni, ogni ipotesi psicogenetista può con grande disinvoltura auto-convalidarsi, reperendo con molta facilità negli infiniti percorsi delle tante storie possibili i nessi che la confermano.

Considerazione questa, che dovrebbe rinforzare il fastidio per quella perversione applicativa della psicoanalisi alla psichiatria che consiste nel sovrapporre alle enigmatiche vicende della psicosi alcuni schemi psicodinamici esplicativi buoni per tutti gli usi.

La separazione tra evento e senso può essere colmata solo assai parzialmente e provvisoriamente dalle nostre ricostruzioni "aprés coup". E una delle differenze tra l'esistenza "normale" e quella psicotica è che in quest'ultima è assai più difficile fare questa operazione. E questo, forse, è un modo possibile di rileggere Jaspers. La nostra intenzione non è affatto, ovviamente, quella di mettere in discussione una delle poche convinzioni consolidate a disposizione degli psichiatri: l'importanza della storia. Ciò che vogliamo dire è che se il nostro lavoro è un faticoso tentativo di ristabilire dei percorsi di continuità nel tessuto disperso delle storie psicotiche e del loro senso, diventa proprio per questo importante essere in risonanza con le zone di radicale discontinuità attraverso cui questo lavoro procede e che la crisi ci segnala, senza credere di poter dissolvere con facilità "i noccioli che interrompono la continuità del tempo e in cui la storia si riannoda" (E. Levinas, 1976).

Ricordavamo all'inizio, con Lantéri-Laura, come la psicopatologia si sia sempre trovata a disagio col discontinuo e abbia sempre cercato di dissolverne il problema ascrivendolo all'esogeno o ad una cronicità misconosciuta e silenziosa, ad una continuità con la struttura e con la storia che si tratta semplicemente di mettere in luce con un'indagine più accurata. Vale a dire ha cercato di capire il discontinuo a partire dal continuo e, avendo a disposizione l'idea di storia che le derivava dalla tradizione positivistica, ha reciso di fatto ogni dialettica tra continuo e discontinuo. Un po' appunto come nella fisica dell'ottocento, in cui, prima di Maxwell, vigeva l'assioma della continuità che imponeva di trattare le discontinuità come se fossero solo apparenti, riducendole a variazioni quantitative rilevabili con un'indagine più accurata.

Ma la variazione quantitativa scivola, come ricordano i manuali di filosofia nel capitolo su Hegel, "sulla superficie esterna dell'essere". Così come sull'esterno dell'esperienza psicotica scivolano, come ricordava recentemente Henny (1987), le versioni banalizzate dell'origine dell'esperienza psicotica in termini di doppio legame, o di impressione sociale, o di caduta dal desiderio della madre e così via. La psicosi non si lascia facilmente ridurre a pura variazione quantitativa rispetto ad esperienze del resto universalmente diffuse. "C'è sempre qualcosa in più, in meno e di differente ad un tempo" (P. Aulagnier). Abbiamo l'impressione che le nostre conoscenze siano troppo approssimative e che siamo ancora troppo imprigionati da categorie e stereotipi culturali inadeguati per poter riuscire a pensare le crisi psicotiche in quanto tali. Probabilmente dovremmo tirare in ballo punti di vista su cui si è ancora troppo poco riflettuto, tra gli psichiatri. Ma, sul piano degli assetti emozionali del nostro lavoro, questo sì, dimenticarci che le crisi sono crisi e ridurle alla loro continuità magari più superficiale col contesto relazionale e con la "Storia" significa appunto saturare troppo velocemente quello spazio di separazione tra evento e senso che si carica, nell'esperienza psicotica, di aspetti che non possono non continuare a stupirci e anche un po' a sgomentarci, magari moderatamente. Se questo non avviene, se abbiamo l'impressione, magari riferendoci alla psicoanalisi, di avere a disposizione gli strumenti che ci consentono di capire con evidenza la trama relazionale in atto (come se la psicoanalisi fosse una sorta di TAC dell'anima a funzionamento immediato e non un lungo ed oscuro esercizio di contenimento emozionale) è molto probabile che siano in funzione, dentro di noi, delle collusioni con aspetti scissionali dell'esperienza psicotica, che possono farci individuare in questo o quell'aspetto o figura del campo relazionale o della storia passata o presente del paziente il nucleo (o addirittura la "causa") della crisi. Ed è molto probabile che in quel momento stiamo saturando proiettivamente, con le nostre teorie e coi nostri modelli, quello spazio sconvolto di senso, invece di "apprendere dall'esperienza".

 

CONCLUSIONI

Dunque la crisi ci appare, al termine di questo percorso di riflessione, come un'esperienza radicalmente ambigua e vertiginosamente complicata nei suoi rapporti con la struttura e la storia. Essa richiede attitudini e capacità di ricezione e risposta altrettanto complesse e apparentemente contraddittorie. Certamente nella crisi si esprime una lacerazione che permette la riemergenza, nella organizzazione intrapsichica e nei sistemi interpersonali, di aree emozionali scisse, negate e sottratte alla storia. Ma questa riemergenza è essa stessa ambigua, e la crisi non ha affatto, di per sé, un valore evolutivo. Anzi, un rischio molto presente è che abbia un effetto sempre più destrutturante sui livelli di funzionamento mentale, rinserri sempre più l'organizzazione narcisistica e coarti sempre più la dialettica conscio-inconscio, processo primario-processo secondario. Può forse diventarlo, un momento evolutivo. Ma questo può essere il risultato di un complesso e lungo lavoro, sul paziente e sul contesto della crisi, che implica tuttavia un momento ineliminabile di accoglimento, di contenimento autentico dell'angoscia, di riduzione dell'intensità drammatica delle emozioni circolanti (che di per sé impedisce ogni reinvestimento); che richiede capacità sia di contestualizzazione e percezione degli elementi di continuità con struttura, storia, scenario, sia di apertura autentica verso gli aspetti di discontinuità che la crisi segnala; nonché ovviamente di introduzione, nell'atteggiamento mentale e nelle strutture operative con cui ci attrezziamo ad affrontare la crisi, di una "propensione alla pensabilità" (che è tutto il contrario di un atteggiamento interpretante); propensione che può passare anche, se è il caso, per la ricontrattazione della domanda, o anche l'enucleazione delle componenti "mafiose", se ci sono, che tendono ad occludere , attraverso la sollecitazione all' "urgenza", tutta la ricchezza che l'interazione di crisi, come ogni incontro umano, può avere; ma con tutte le avvertenze, che abbiamo suggerito a non scivolare in cliché ideologici.

Forse abbiamo complicato un po' le cose. E forse scoperchiando il vaso "crisi" i frammenti di riflessione che fuoriescono rischiano di vorticare troppo discontinui tra loro se non li raffreddiamo un po'. E del resto, scriveva Racamier, la differenza tra i nostri pensieri e quelli deliranti è forse che noi riusciamo a pensare meno intensamente e quindi un po' di più. Ma poi non è forse l'impossibilità di tollerare l'ambivalenza e la discontinuità, la fantasia di ridurre tutte le ambivalenze e tutte le discontinuità, una delle radici emozionali della psicosi?

Come dice Castoriadis "pensare non è uscire dalla caverna di Platone, né rimpiazzare l'incertezza delle ombre con i contorni netti delle cose stesse…E' entrare nel labirinto mentre invece avremmo voluto starcene, come dice il poeta, stesi tra i fiori direttamente di fronte al cielo". Magari il cielo narcisistico delle nostre teorie, dei nostri linguaggi e dei nostri sistemi, così autoriflettenti, in cui tutto è previsto e spiegato, e che un confronto autentico con la crisi psicotica tende a mettere davvero "in crisi".

Solo passando attraverso questo tragitto di complicazione (che è innanzitutto un tragitto e un problema emozionale) potremmo sperare di uscire dal "labirinto crisi" non con ali di piume e cera; o di trovare, in fondo al vaso di Pandora, una speranza non maniacale. Se siamo davvero capaci di questo complicato tragitto, a contatto con le nostre emozioni drammatiche e i percorsi caotici dei nostri pazienti, allora il vaso di Pandora può tornare forse ad essere, come scrive E. Bloch (1955) "il mondo incompiuto, lo spazio che si apre (con enigmatiche scintille, cifre, intenzioni simboliche) di un futuro (magari in maniera infinitesimale) da compiere".

 

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