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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

Esiti psicopatologici del trauma e dell'abuso: ricerche empiriche e modelli eziopatogenetici

Giorgio Caviglia, Raffaella Perrella, Marco La Marra, Sara Bisogno


Riassunto

Numerose ricerche empiriche dimostrano come esperienze traumatiche di abuso o maltrattamento infantile siano frequentemente associate a patologie accomunate da deficit nella modulazione delle emozioni e dell’integrazione. La sofferenza emotiva indotta da avvenimenti traumatici non è, però, necessariamente legata alla dissociazione nei bambini, se questi avvenimenti si verificano all’esterno del contesto delle relazioni familiari. Il conflitto si manifesta, attraverso un comportamento disorganizzato, quando il bambino, subendo abusi e maltrattamenti dalle figure genitoriali, adotta strategie incoerenti e disfunzionali, espressione di rappresentazioni contraddittorie e non integrate del Sé e della figura di attaccamento. Gli studi longitudinali esposti dimostrano come la teoria dell’attaccamento offra una chiave interpretativa della relazione tra trauma e psicopatologia, dimostrando l’importanza delle relazioni di attaccamento, come fattore di rischio o protezione nella costruzione del sé laddove il maltrattamento, nelle sue diverse espressioni, rappresenta un trauma evolutivo.
Parole chiave Trauma - abuso – attaccamento disorganizzato – dissociazione.


Introduzione
Prove empiriche sempre più numerose confermano l’evidenza clinica di come esperienze traumatiche di abuso o maltrattamento infantile siano importanti fattori di rischio, non solo per lo sviluppo di disturbi psicopatologici in età adulta, ma anche di gravi alterazioni comportamentali in età infantile. Bambini vittime di queste esperienze traumatiche, infatti, sviluppano una serie di comportamenti problematici e sembrano mettere in atto meccanismi difensivi estremamente primitivi. Alcune ricerche, in particolare, hanno mostrato come i bambini vittime di abuso sessuale manifestino maggiore ritiro ed evitamento sociale, mentre quelli abusati fisicamente tendano ad essere più aggressivi verso gli altri, al contrario dei bambini trascurati, che invece tendono ad essere più passivi (Martin, 1976, Yates, 1981, Lynch, Roberts, 1982, cit. in Crittenden, 1994).
Conseguenze particolarmente evidenti in età prescolare e scolare, sono sentimenti di paura, incubi notturni, tratti ansiosi e quadri sintomatici riconducibili ad un Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD) (Piperno et al., 1998; Piccolo, 1998); nell’adolescenza, invece, sono frequenti i tentativi di suicidio e le tendenze all’abuso di sostanze e di alcool (Spaccarelli, 1994).
Questi dati sono però estremamente parziali se si tiene conto che gli effetti maggiori di tali precoci esperienze traumatiche, probabilmente, si collocano nelle fasi successive dello sviluppo, ovvero nel periodo compreso tra l’adolescenza e la prima età adulta (Stefanini et al., 1998). Numerose ricerche empiriche hanno, infatti, mostrato come nei soggetti adulti sia possibile individuare, frequentemente associate all’abuso infantile, patologie accomunate da deficit nella modulazione delle emozioni e dell’integrazione in generale, come ad esempio i Disturbi dell’Alimentazione (Vanderlinder, Vandereycken, 1997), il Disturbo Borderline di Personalità (Briere, Zaidi, 1989; Wagner, Linehan, 1997), il PTSD (Piccolo, 1998), i Disturbi Dissociativi (Van der Kolk, 2002), i Disturbi dell’Umore (Francia-Martinez et al., 2003, Saunders, et al. 1992), i comportamenti autodistruttivi e autolesionistici (Saunders et al., 1992; Zoroglu et al., 2003), l’abuso di sostanze (Fellitti et al., 1998) e i disturbi di personalità in generale (Stalker, Davies, 1995). In particolare, ci sono molti elementi che portano a supporre che l’abuso infantile intrafamiliare, specie se prolungato, predisponga all’uso della dissociazione come strategia difensiva nelle successive situazioni stressanti della vita e/o come strategia di strutturazione della personalità. Ciò sembra essere particolarmente vero nel caso di esperienze di abuso sessuale intrafamiliare protratte negli anni, con età di esordio molto bassa, contrariamente a quello extrafamiliare che non risulta chiaramente associato all’uso di meccanismi dissociativi. Sembra, cioè, che la sofferenza emotiva indotta da avvenimenti traumatici non sia legata alla dissociazione delle funzioni di memoria nei bambini, se questi avvenimenti si verificano all’esterno del contesto delle relazioni familiari. In altri termini, solo l’esposizione cronica al trauma intrafamiliare, quale può accadere nella relazione con un genitore che ripetutamente infligge abusi, può condurre all’uso delle difese dissociative. Un’altra spiegazione è quella esposta da Horowitz (1986) secondo cui il significato del trauma, piuttosto che l’intensità o la frequenza, ne impedisce l'integrazione all’interno delle strutture di memoria cosciente. “L’essenza del trauma psicologico è la perdita di fiducia nell’ordine e nella continuità della vita” e questa perdita di fiducia si verifica “quando si perde il senso di avere un posto sicuro dove ritirarsi, all’interno o al di fuori di se stessi, per affrontare le emozioni terrificanti” (Van der Kolk, 1987, p. 31, cit. in Liotti, 1999). Ne consegue che se il trauma psicologico implica la rottura delle strutture di significato, allora un avvenimento può essere considerato traumatico solo in quanto porta con sé: “La rottura improvvisa e incontrollabile dei legami affiliativi” (Van der Kolk, 1987, p. XII cit. in Liotti, 1999). Se questa ipotesi è corretta, allora è possibile spiegare la mancata dissociazione dei bambini in risposta a traumi extrafamiliari.
A tal proposito, Van der Kolk (1987; 1996) preferisce parlare di atmosfera traumatica per indicare l’effetto pervasivo che l’abuso cronico, o la trascuratezza familiare, hanno sui regolatori biologici e psicologici, in quanto viene a mancare quel sostegno esterno, rappresentato appunto dai familiari, che costituisce la condizione necessaria affinché il bambino possa imparare a gestire gli stati affettivi interni e le risposte comportamentali per far fronte agli stressor esterni.
Ne consegue, quindi, che l’esito di un evento non è legato ad esso in quanto tale, ma al modo in cui viene mentalizzato e la possibilità che il bambino ha di elaborare tale evento non può prescindere dalla qualità della relazione di attaccamento, dai modelli operativi che la caratterizzano e, in generale, dal sostegno dell’ambiente esterno (Cassibba, van IJzendoorn, 2005; Heinicke et al., 1999; Heinicke et al., 2000).

1. La Teoria dell’Attaccamento
La teoria dell’attaccamento cerca di fornire un contributo alla comprensione della psicopatologia evolutiva, chiarendo in che modo le prime relazioni di attaccamento del bambino con le figure significative ne influenzino lo sviluppo, sia sano che patologico. Queste relazioni hanno, infatti, un’importanza fondamentale, non solo per la sopravvivenza fisica e psichica del bambino, ma anche perché vengono interiorizzate e vanno a costituire le strutture fondanti la personalità, le strategie difensive, la regolazione affettiva definite Internal Working Models (Modelli Operativi Interni, MOI). In particolare, attraverso il costrutto dell’Attaccamento Disorganizzato (“D”) (Main, Hesse, 1990) - sviluppato dal bambino come conseguenza di una relazione con un genitore che ha a sua volta, un attaccamento classificato all’Adult Attachment Interview (AAI) come U o CC o HH (vedi dopo) - questa teoria vuole organizzare i dati di ricerca empirica che vedono il bambino traumatizzato o da situazioni esterne estreme (quali eventi lievi, moderati, gravi, estremi e catastrofici) o da esperienze relazionali abusive continuative.
Fino ad oggi, la ricerca sugli effetti dell'abuso in età evolutiva svolta nell'ambito della teoria dell'attaccamento è stata principalmente focalizzata sull'esplorazione, mediante la Strange Situation Procedure (Ainsworth, Wittig, 1969), dei pattern comportamentali correlati all'attaccamento in bambini vittime di maltrattamenti. Esiste ormai un notevole numero di studi che testimonia l'elevatissima prevalenza nei bambini maltrattati di classificazioni “non sicure”; in particolare, in questi soggetti sembrano particolarmente frequenti configurazioni di tipo disorganizzato/disorientato.
Secondo l’ottica della teoria dell’attaccamento, infatti, gli adulti maltrattanti risultano essere anche adulti spaventati/spaventanti, che probabilmente non sono riusciti a elaborare perdite o traumi, e in conseguenza di ciò i loro contenuti mentali risultano contraddittori e non integrati (Lyons-Ruth e Jacobvitz, 1999). Quest’ultimo dato è stato confermato da diversi studi (Main, Hesse, 1990; Ainsworth, Eichberg, 1995) i quali hanno mostrato come la disorganizzazione dell’attaccamento infantile sia generalmente collegata alla categoria “non risolta” (U) dell’Adult Attachment Interview (George et al., 1984).
Quando il bambino è esposto a esperienze traumatiche, di abuso, maltrattamento o trascuratezza, soprattutto se perpetrate da una figura di attaccamento, egli si trova a dover affrontare una situazione paradossale e irrisolvibile: la figura di attaccamento è, infatti, essa stessa fonte di pericolo. Ne consegue che il bambino dovrebbe fuggire dalla figura di attaccamento, perché fonte di pericolo, e contemporaneamente avvicinarla come rifugio sicuro. Il conflitto che ne deriva non è dunque risolvibile a livello comportamentale e il bambino, non riuscendo ad adottare una strategia coerente nei confronti della propria figura di attaccamento, mostra un comportamento disorganizzato, espressione di rappresentazioni contraddittorie e non integrate del Sé e della figura di attaccamento. Queste rappresentazioni molteplici e incoerenti di Sé-con-l’altro, formano quelli che Bowlby ha definito “modelli multipli di attaccamento”. Si tratta, cioè, di modelli implicitamente contraddittori o incompatibili del medesimo aspetto della realtà: “modelli multipli di qualcosa che dovrebbe avere un modello unitario” (Main, 1991).

2. Trauma e Attaccamento Disorganizzato
La teoria dell’attaccamento può, quindi, offrire una chiave interpretativa della relazione tra trauma e psicopatologia. Questa relazione è però piuttosto complessa (Caviglia, 2003; Dazzi, Speranza 2005). Non si può parlare infatti di una causalità semplice che da esperienze traumatiche porti all’emergere di sintomi o disturbi in età adolescenziale e adulta. D'altro canto, alcuni studi mettono in evidenza come non sempre eventi traumatici siano seguiti da una evoluzione psicopatologica.
L'esito dell'esposizione ad un trauma è, infatti, connesso certamente alla “gravità” ed alle caratteristiche del trauma in sé, ma anche ad altre variabili, quali, innanzitutto, le caratteristiche temperamentali del bambino e in generale il sostegno offerto dall’ambiente esterno, quindi, la modalità della relazione di attaccamento e i relativi modelli operativi che la caratterizzano (Plomin et al., 2001; Chess e Thomas, 1996). Ad oggi, diverse ricerche hanno mostrato come le esperienze di incuria e di abuso, nelle loro molteplici sfaccettature, possono produrre patterns di attaccamento altamente disfunzionali, che a loro volta accrescono in maniera significativa la probabilità che un disturbo si verifichi. Si evidenzia così l’importanza delle prime esperienze relazionali infantili come possibile fattore di rischio o protezione per lo sviluppo di un disturbo psicopatologico e la trasmissione intergenerazionale dei modelli di attaccamento disfunzionali.
Numerosi studi mostrano come la sicurezza dell’attaccamento costituisca un fattore di protezione nei confronti della psicopatologia (Fonagy, 2001). Al contrario, invece, l’attaccamento insicuro-evitante (A) e quello insicuro-resistente (C), comportano invece un deficit sia nel sistema di regolazione delle emozioni, che nello sviluppo di una teoria della mente, ma, nonostante ciò, non sembrano capaci di per sé di provocare disturbi psicopatologici (Caviglia, 2005). Come scrivono Dazzi e Speranza (2005), i modelli di attaccamento insicuro non costituiscono di per sé indici di psicopatologia, ma: “Possono rappresentare contesti disfunzionali che nel corso del tempo favoriscono l’emergere di comportamenti disturbati” (Dazzi e Speranza, op. cit., p.19). Sono, invece, sempre più numerosi gli studi clinici ed epidemiologici che suggeriscono come la disorganizzazione dell’attaccamento nel primo anno di vita possa costituire un fattore di rischio per alcuni disturbi psicopatologici, soprattutto se associato a successivi eventi traumatici, assetti genetici abnormi o tratti temperamentali sfavorevoli (Liotti, 2001) e, proprio per questo, sembra avere il più forte significato predittivo per il successivo sviluppo di una psicopatologia (Carlson, 1998; Lyons-Ruth, 1996; Lyons-Ruth, Alpern, Repacholi, 1993, Ogawa, 1997). In particolare, le recenti ricerche sull’attaccamento disorganizzato evidenziano come la costruzione di modelli operativi interni molteplici, reciprocamente incompatibili e separati (dissociati) del sé e della figura di accudimento, possa interferire con le funzioni integrative di memoria, coscienza e identità (Liotti, 1992a, 1995; Main, 1995; Main, Morgan, 1996) e condurre in età adulta a uno specifico gruppo di disturbi, in particolare a disturbi dissociativi o implicanti la dissociazione (cfr. Caviglia, 2005 e in particolare il paragrafo 5.3).
In merito all’origine traumatica dei Disturbi Dissociativi, secondo cui i traumi psicologici subíti nell’infanzia sono i più importanti antecedenti dei disturbi dissociativi dell’adulto, Liotti (1999) ha ipotizzato la possibilità di sviluppare tali disturbi nell'età adulta, nell'evoluzione di bambini con esperienze di maltrattamento e abuso, valutati a 12-18 mesi alla Strange Situation con un attaccamento disorganizzato-disorientato “D”.
A tal scopo, prima di passare in rassegna diverse ricerche empiriche, è interessante notare le somiglianze fenomeniche fra la dissociazione clinica (come definita nella nosografia psichiatrica attuale), il comportamento di attaccamento infantile disorganizzato osservato nella Strange Situation e alcune caratteristiche dei trascritti dell’AAI, classificati U (unresolved), CC (cannot classify) e HH (hostile/helpless). Esempi di queste analogie sono le espressioni simili alla trance o di stordimento, manifestazione simultanea o consecutiva di sistemi comportamentali contraddittori, e cambiamenti disorientati, disorientanti e improvvisi nella postura e nei pattern di movimento. In realtà, la presenza di queste somiglianze fenomeniche sembra sia sottesa da uno stabile processo mentale dissociativo (Liotti, 2006). L’ipotesi è suffragata da numerose ricerche, alcune delle quali longitudinali.
Un primo studio longitudinale relativo alla sintomatologia dissociativa in un campione non clinico di 168 giovani adulti (il campione longitudinale del Minnesota), i cui pattern di attaccamento erano stati valutati mediante la Strange Situation Procedure durante il loro secondo anno di vita (Ogawa et al., 1997), ha mostrato come il sottogruppo che presentava un attaccamento disorganizzato, riportasse livelli di dissociazione significativamente più alti rispetto agli altri sottogruppi che presentavano altri pattern di attaccamento.
Altre osservazioni relative a questo stesso campione sono state analizzate da Carlson (1998), il quale ha riscontrato come l’attaccamento disorganizzato (valutato sempre nel secondo anno di vita) fosse associato a punteggi più elevati di dissociazione alla Child Behavior Checklist, tanto nel periodo della scuola elementare, che della scuola media. Notò, inoltre, come i soggetti con tale pattern di attaccamento, valutati longitudinalmente all’età di 19 anni, riferissero maggiori esperienze dissociative alla Dissociative Experience Scale (DES). Tre adolescenti di questo campione, infine, svilupparono un disturbo dissociativo clinicamente evidente.
Uno studio trasversale di adolescenti con disturbi dissociativi fornisce ulteriore sostegno ai dati dei due studi longitudinali appena descritti. In questo studio (West et al., 2001), un campione di 69 adolescenti in trattamento psicoterapeutico, la cui AAI era stata codificata U o CC, venne confrontato con un gruppo di controllo di 64 adolescenti, anch’essi in trattamento psicoterapeutico, la cui AAI aveva ricevuto codifiche diverse da quello disorganizzato. I sintomi dissociativi (valutati con una scala derivata dal Youth self-Report) erano significativamente più frequenti nel gruppo “disorganizzato”.
Altri dati di ricerca, raccolti in campioni non clinici, che sostengono l’ipotesi di una correlazione fra disorganizzazione dell’attaccamento e processi dissociativi, sono stati forniti da Hesse e van IJzendoorn (1999): soggetti che, durante l’AAI, descrivono memorie traumatiche relative all’attaccamento in modo da rilevarne la mancata integrazione, hanno anche punteggi più elevati degli altri soggetti alla Scala di Tellegen, che misura la propensione ad assorbirsi in stati dissociativi di coscienza.
Anche gli studi italiani evidenziano come gravi perdite ed altri eventi traumatici verificatisi nella vita delle madri nei due anni precedenti o successivi alla nascita dei pazienti, costituiscano un significativo fattore di rischio per lo sviluppo di Disturbi Dissociativi in età adulta (Liotti et al., 1991; Liotti et al., 2000), dato lo stato mentale “non risolto”della madre.
La correlazione esistente, quindi, tra la disorganizzazione dell’attaccamento nel bambino e la mancata elaborazione di lutti o traumi del genitore, è stata confermata da un gran numero di ricerche. Tuttavia la presenza di traumi e perdite nella vita delle madri nel periodo prossimo alla nascita dei pazienti è anche un importante fattore di rischio per il disturbo borderline di personalità (Caviglia, 2005).
Ciò suggerisce che la disorganizzazione precoce dell’attaccamento sia un fattore di rischio non solo per i disturbi dissociativi in senso stretto, ma anche per altri disturbi, come appunto il disturbo borderline di personalità.

3. Conclusioni
Riassumendo: l’attaccamento sicuro (B), protegge (come hanno protetto i genitori che l’hanno trasmesso); i due attaccamenti insicuri (A, C), sono zoppi, limitati e limitanti; la componente “D” del sistema dell’attaccamento, è sempre potenzialmente pericolosa; è, in sè, un rischio che si aggiunge ai rischi di scompenso della vita. Il bambino attraversa la vita con un peso, invece che con un aiuto; con un debito, invece che con un piccolo credito. Il sistema dell’attaccamento che contiene emozioni, informazioni, emozioni, immagini e vissuti collegati al trauma e allo spavento disorganizzante, rimane in stand by, e si riattiva di fronte ad eventi o a significati che, a loro volta, lo riattivano.
Esiste una solida base empirica per ritenere che l’attaccamento disorganizzato nei primi anni di vita e gli stati mentali U, CC e HH in età adulta possano considerarsi esempi di processi dissociativi di natura non dissimile da quelli che sottendono i disturbi e i sintomi dissociativi veri e propri, nonché quelli presenti in altri disturbi clinici (quali DBP e DCA). Il forte legame statistico che connette l’attaccamento disorganizzato del bambino agli stati mentali U, CC e HH del genitore che lo accudisce (per rassegne, vedi Hesse et al., 2003; Lyons-Ruth, Jacobvitz, 1999; Solomon, George, 1999), non può essere spiegato solo con le influenze genetiche, che pure, come è stato recentemente dimostrato (Lakatos et al., 2000), possono facilitare la disorganizzazione. Infatti, è noto dalla ricerca di base che bambini con attaccamento disorganizzato verso un genitore possono sviluppare un pattern di attaccamento organizzato e coerente verso l’altro genitore, o verso un diverso caregiver. Più specificamente, esistono diversi studi empirici (Lyons-Ruth, Jacobvitz, 1999) a sostegno dell’affermazione che le influenze genetiche e altre variabili individuali, giocano un ruolo secondario nella disorganizzazione dell’attaccamento. Quest’ultima, in altre parole, riflette una realtà intersoggettiva più che essere una proprietà della mente individuale del bambino. Se ciò è vero, allora, non solo le esperienze traumatiche e le eventuali influenze genetiche, ma anche particolari forme di relazione interpersonale, e quindi di esperienza intersoggettiva, possono essere considerate fattori potenziali di dissociazione. Diverse ricerche hanno mostrato come gli stati mentali U e HH dei genitori possano indurre reazioni dissociative nel bambino, anche se la condotta del genitore non è esplicitamente maltrattante.
A tale proposito, Schore ha proposto di chiamare “traumi relazionali precoci” tutte le interazioni che conducono alla disorganizzazione dell’attaccamento, anche quando il genitore non è francamente maltrattante. Il trauma relazionale precoce, secondo l’ipotesi di Schore (2003), sembra esercitare un’influenza negativa sull’organizzazione cerebrale del bambino piccolo: il sistema cerebrale (dell’emisfero non dominante) che connette i circuiti emozionali limbici alla neocorteccia attraverso la corteccia orbitofrontale si svilupperebbe in modo non ottimale come conseguenza della disorganizzazione dell’attaccamento. Questa potrebbe essere la base neuropsicologica dell’aumentata vulnerabilità alla dissociazione, di fronte a emozioni violente e dolorose, che caratterizza lo sviluppo dei bambini con attaccamento disorganizzato.
È probabile che il potere di facilitare risposte dissociative, causato dall’attaccamento disorganizzato nella prima infanzia, rimanga a livello subclinico durante l’adolescenza e l’età adulta (Liotti, 1992b; Ogawa et al., 1997) e possa riattivarsi di fronte ad esperienze traumatiche anche di lieve entità. Tutti i risultati delle ricerche e degli studi finora condotti, nel loro insieme, non disconfermano l’ipotesi che l’attaccamento disorganizzato infantile sia una componente importante di un percorso di sviluppo che può portare ad aspetti dissociativi durante la fase adolescenziale o nella vita adulta.
Il legame fra trauma e dissociazione non deve essere inteso solamente come una difesa da emozioni dolorose, ma anche come una riattualizzazione di strutture di significato molteplici e incoerenti che rappresentano il sé e sé-con-l’altro.
Possiamo, dunque, concettualizzare l’abuso nelle relazioni di attaccamento, come fattore traumatico nella costruzione del sé laddove il maltrattamento, nelle sue diverse espressioni (carenza di cure, maltrattamento psicologico /fisico,abuso sessuale), rappresenta un trauma evolutivo. Al centro di questo concetto di trauma, risulta la dialettica fra il bisogno del bambino di ricevere un aiuto dall'esterno e l’incapacità dell'ambiente di rispondervi empaticamente, in quanto l'immaturità del bambino impedisce l'integrazione metacognitiva del comportamento traumatizzante della figura abusante. Per controbilanciare un evento esterno traumatico è necessario un caregiver sensibile e “mentalizzante” (Meins et al., 1998; Meins et al., 2002; Bateman e Fonagy, 2004) che sostenga il bambino e lo aiuti nel suo bisogno di integrare, internalizzare, elaborare e differenziare le stesse esperienze traumatiche. Una relazione disfunzionale che non rispetti l’asimmetria dei ruoli e delle capacità adulto-bambino, diventa invece, di per sè, elemento traumatico che prevarica le esigenze e le capacità del bambino e il suo bisogno di protezione e contenimento.
In sintesi: 1. Bisogna distinguere trauma esterno, di diverse entità, e intrafamiliare; puntuale o continuo (che diventa una “storia traumatica”); e bisogna vedere l’intersecarsi dei due, ai diversi livelli di ognuno. Come fossero delle “serie complementari”; 2. Bisogna vedere la famiglia come luogo che può essere falsamente protettivo e nascostamente traumatico, oltre il livello visibile dell’abuso; 3. Insieme ad ogni bambino traumatizzato c’è sempre un adulto traumatizzato; 4. Le memorie del trauma e dell’abuso rimangono dissociate e si costituiscono come stato mentale sempre rischioso che a contatto con un trauma ulteriore, si riattiva ; 5. Lo stato mentale traumatico dissociato avvolge il bambino, confondendolo su ciò che è stato e ciò che non è stato, fra fatti accaduti e vissuti emotivi (Levi, 1993), spingendolo verso un desiderio/bisogno di riviverlo e verso una paura/orrore di riviverlo; fra amnesia e ipermnesia, omissione e intrusività.


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Giorgio Caviglia, Professore Associato di Psicologia Dinamica, Facoltà di Psicologia, Dipartimento di Psicologia, Seconda Università degli Studi di Napoli

Raffaella Perrella, Dottore di Ricerca in Scienze della Mente, Facoltà di Psicologia, Dipartimento di Psicologia, Seconda Università degli Studi di Napoli

Marco La Marra, Dottorando di Ricerca in Neuroscienze, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Dipartimento di Medicina Sperimentale, Seconda Università degli Studi di Napoli

Sara Bisogno, Laureata in Psicologia, Facoltà di Psicologia, Dipartimento di Psicologia, Seconda Università degli Studi di Napoli


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