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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

Neologismi e psicopatologia

Michele Ceresola


1. Introduzione
La neoformazione di parole è legata alla normale evoluzione di ogni lingua esistente che, per non morire, è costretta a rinnovarsi ed evolvere verso nuove forme. La parola neologismo richiede una definizione precisa; a tal proposito due tra i più consultati vocabolari della lingua italiana riportano quanto segue:

“Vocabolo o locuzione di recente creazione, o presi in prestito da poco tempo da un’altra lingua | Ogni nuova accezione di una parola già usata” (Zingarelli,1997);

“Termine o costrutto di recente introduzione nella lingua,motivato da nuove
esigenze tecniche o di costume” (Devoto-Oli, 1983).

Il Dizionario di psicologia di Galimberti(1994) riserva la seguente spiegazione al termine:

“Conio di nuove parole per esprimere in modo adeguato nuove nozioni. Di rilevanza psicologica è il neologismo che caratterizza il linguaggio schizofrenico, il quale, attraverso la combinazione di parole che fanno riferimento a cose eterogenee, è adottato per esprimere, con una simbologia personale ed esclusiva,l’inafferrabilità di esperienze altrimenti inesprimibili”.

La parola neologismo può quindi essere utilizzata indifferentemente sia nel caso del linguaggio normale, sia di quello schizofrenico, visto che in entrambi i casi il denominatore comune è rappresentato dalla insufficienza del vocabolario a disposizione per esprimere un determinato concetto o una situazione particolare.
Come si vedrà nel corso del mio lavoro, parecchi autori hanno rilevato la presenza di punti in comune nell’attività di coniazione (normale e patologica) di termini. Professionisti e specialisti abbisognano, infatti, di neoformazioni tecniche che hanno “una chiara etimologia e un preciso significato di riferimento a nuovi concetti, teorie, meccanismi, sostanze, etc” (Piro, 1967). La stesso fenomeno può presentarsi anche nel caso di schizofrenici deliranti che tentano di denominare invenzioni particolari, proprie letture degli eventi del mondo o particolari marchingegni costruiti ed utilizzati dai propri persecutori per tormentarli. A parità di cause collegate ad esigenze linguistiche, però, si insedia tra i due tipi di neologismi una profonda spaccatura dovuta al carattere altamente privato, idiosincratico e spesso criptico del termine adottato dallo schizofrenico. Come afferma Pennisi(1998) commentando gli studi svolti dai primi alienisti che si occuparono di questo argomento:

“Il dibattito scaturito dall’attività neolinguistica […] evidenziava uno scadimento della qualità lessicale che non arrivava, tuttavia, ad abolire il potere semantico delle parole.[…] Ciò che colpiva negativamente era invece l’esclusiva funzionalizzazione delle nuove parole ad un nucleo delirante unitario e pervasivo. È forse questo che provocava la sensazione di un impoverimento del discorso psicotico”.

Dunque è possibile ritrovare nell’esperienza psicotica la causa di tale mancata diramazione e messa in comune dei neotermini all’interno della comunità:

(lo schizofrenico) “produce il suo linguaggio in modo autonomo e sganciato da qualsiasi comunità sociale e linguistica che possa condividerlo ed assumerlo come proprio.[…] Il linguaggio dello schizofrenico è incomprensibile in quanto sistema semiotico prodotto autonomamente e non socializzato, non perché privo della sua logica e delle sue regole.[…]Scoprendo la logica e le regole del linguaggio schizofrenico, così come di un qualsiasi altro idioletto [=linguaggio parlato da una sola persona], e quindi riducendo lo scollamento che si è prodotto tra linguaggio socializzato e linguaggio personale, si può arrivare alla comprensione di quest’ultimo” (Villari-D’Onofrio, 1982).

Riguardo alla comprensibilità dei neologismi e del linguaggio in generale dello schizofrenico si incontrano molte difficoltà ad entrare in contatto e soprattutto a muoversi con dimestichezza tra le frasi e le parole di questi pazienti ma, qualora esista una forte volontà di riuscirvi e soprattutto la gravità della patologia non impedisca l’approccio al paziente, non è impossibile riuscire nell'intento.
A proposito della possibilità di comprendere i discorsi prodotti dai pazienti schizofrenici (questione affrontata da molti autori) credo che le parole di Rizzo(1961) possano risultare particolarmente chiare:

“Dal punto di vista fenomenologico-esistenziale, il linguaggio schizofrenico è l’espressione della nuova e particolare condizione in cui si trova il malato, ma esso, anche se su un piano diverso da quello normale, non è al di fuori della realtà. Nonostante la malattia che lo ha coartato, il malato è sempre nel mondo, in una relazione continua, e la sua comunicazione anche se patologica, esprime […] la maniera con cui egli si manifesta nel mondo[…]. È compito dello psichiatra trovare la chiave per intendere il linguaggio del malato, per conoscere […] almeno una parte della personalissima esperienza del soggetto”.

Riprendendo da Tanzi (1889) l’espressione metaforica della chiave come strumento di apertura ed accesso al delirio schizofrenico (nel suo caso la chiave era data dal neologismo), passerò ora alla presentazione di una breve rassegna storica dei principali contributi sul tema neologismi nella schizofrenia.

2. Da Snell a Jaspers
Il 1852 è una data fondamentale nella storia della psicopatologia del linguaggio poiché Snell si occupa per primo dei neologismi; egli ritiene che l’origine di essi sia dovuta ad allucinazioni uditive e alla sperimentazione di stati emotivi talmente diversi dal solito da non trovare un adeguato correlato nel vocabolario comune. Anche la soggettività gioca un ruolo fondamentale nella creazione dei neologismi: i pazienti, ponendo in primo piano la propria persona in rapporto al resto del mondo, impiegano termini che sembrano loro corretti, anche se incomprensibili per il resto dell’umanità. È per la medesima ragione che essi pensano che mondo intero possa “sentire” il processo della loro vita interiore e debba dunque comprendere le loro nuove espressioni. Tali espressioni neologiche, nel caso specifico dei soggetti deliranti, rimangono immutate nel tempo ed accessibili ad una indagine.
Nel 1857 Brosius evidenzia che l’origine delle neoformazioni è molto complessa. Sinteticamente egli distingue tra cause di ordine intellettuale-rappresentativo e “sensorio-affettivo”.
Nel 1888 Bartels, dall’analisi di tre pazienti, conclude che la genesi dei neologismi è esclusivamente allucinatoria uditiva.
L’anno seguente Tanzi è il primo italiano che tratta questa tematica: le sue conclusioni saranno destinate a rimanere tra le più proficue e feconde, oltre che un punto di riferimento anche per gli autori stranieri. Tra le questioni di cui si occupa nel suo lavoro, centrali sono il tentativo di distinguere i neologismi dell’alienato da quelli normali, il concetto di logolatria (atteggiamento magico e superstizioso verso il linguaggio: “culto pel verbo”) oltre ad una classificazione dei neologismi in classi correlate con le varie tipologie di delirio. Tanzi sostiene che l’atto del neologizzare sia di per sé patologico riportando degli esempi di coniazione di termini da parte di soggetti normali (appellativi che ci si scambia tra innamorati, “frasario carezzevole” tra mamma e bambino, nomi che si danno agli strumenti personali di lavoro ecc…) che ne fanno un uso prettamente personale e non diffondibile, e quindi avvicinabile alla sfera di quelli degli alienati. In tutti questi casi, però, bisogna evidenziare che l’utilizzo del neologismo è ponderato ed in rapporto alla situazione e al momento in cui ci si trova: l’influsso del contesto e della collettività è presente, anche se indirettamente.
Nel 1892 Seglas introduce la distinzione tra neologismi attivi e passivi che tuttora rimane valida e corretta. I neologismi attivi sono termini:

“creati con intenzione e corrispondono a un’idea più o meno netta […] nella mente dell’individuo. Essi sono il prodotto di associazioni sistematiche multiple, coordinate in una certa direzione, che si condensano dopo un’elaborazione riflettuta, in una parola nuova […]. Questa parola da quel momento in poi fissa il pensiero del malato.”

I neologismi passivi, invece, sono il “risultato del semplice automatismo psicologico […] si formano attraverso associazioni di assonanze o di rappresentazioni”, sono variabili e asistematici, vista la loro genesi ludica o automatica.
Nel 1900 De Sanctis e Longarini presentano uno studio su pazienti “neurastenici”. Dopo aver riportato le principali modalità di formazione dei neologismi, inseriscono all’interno della schiera dei neologisti anche i nevrastenici; questo è un elemento di forte novità, in quanto il conio di nuove parole in ambito psicopatologico era una caratteristica riservata esclusivamente alle gravi forme di alienazione. Secondo i due autori questi soggetti utilizzerebbero i neologismi per descrivere alterate condizioni fisiopatologiche della persona.
Due anni più tardi De Sanctis pubblica un lavoro relativo al linguaggio di una famiglia di “psicastenici” e presenta le possibili origini dei neologismi all’interno di essa.
Lo psichiatra italiano Levi Bianchini pubblica nel 1903 un articolo dedicato ai neologismi e alla scrittura nella schizofrenia paranoide: oltre alla descrizione dei caratteri salienti dei due argomenti, egli è interessato al tentativo di accumunare la paranoia con la demenza paranoide, trovando una netta corrispondenza tra le due patologie riguardo alla produzione di neologismi.
Nel 1910 Maeder, attraverso lo studio di uno schizofrenico paranoide, riesce a tradurre i neologismi utilizzati dal suo paziente, giungendo alla comprensione del quadro delirante. Maeder è convinto che l’affettività giochi un ruolo preponderante nella coniazione di neotermini, i quali rappresenterebbero il risultato di uno sforzo per compensare una esistenza piatta e parca di soddisfazioni: solo grazie alla creazione di una nuova lingua il paziente riesce, illusoriamente, a riscattarsi dal suo passato. Sempre nel 1910 Kraepelin propone l’ipotesi di un abbassamento del livello della coscienza che permetterebbe di spiegare le analogie, riscontrate in un suo lavoro ventennale, tra linguaggio schizofrenico ed onirico. L’assopimento che interessa l’intero cervello comprometterebbe maggiormente l’area propria dell’afasia sensoriale (lobo temporale). Con questo studio si inaugura quel filone di ricerca volto a individuare similitudini tra afasia e disturbi linguistici della schizofrenia.
Lo stesso Kraepelin, nell’ottava edizione del suo trattato di psichiatria (1913), introdurrà il termine schizofasia che indica il linguaggio incomprensibile degli schizofrenici. I disturbi del linguaggio sono causati da un’alterazione dei rapporti tra pensiero ed espressione verbale.
Il contributo di E. Bleuler (1911) riguardo ai neologismi è piuttosto parco, visto che egli si limita a riportare idee già espresse da altri autori; tuttavia Pennisi fa notare come l’introduzione storica del termine schizofrenia abbia avuto notevoli conseguenze nell’ambito degli studi sui disturbi del linguaggio nelle psicosi:

“Con l’introduzione del termine, infatti, si esaurisce la fase specialistica della psicopatologia del linguaggio […] passano in secondo piano gli aspetti bizzarri dell’attività neolinguistica degli alienati […] comincia a far intravedere il luogo di fusione tra linguaggio e cognitività, quindi tra alterazione linguistica e alterazione cognitiva.” (Pennisi, 1998)

L’opera di Preisig del 1911 ha la peculiarità di essere riservata alle “caratteristiche modali del linguaggio psicotico” (Piro, 1969). L’approccio linguistico dell’autore mette in luce come vi sia una analogia tra le neoformazioni degli schizofrenici e le cause che portano una lingua ad evolversi. Egli sottolinea il contributo offerto dai linguisti riguardo all’evoluzione della lingua normale, evidenziando come la comparsa di un neologismo sia un fenomeno normale e comunemente diffuso, tanto che i linguisti distinguono tra neologismi “di parole” (apparizione di una parola nuova) e neologismi “di significato” (attribuzione di un senso nuovo ad una parola già esistente). Preisig individua, inoltre, ben 11 possibili cause all’origine della coniazione di termini.
Jaspers nel 1913 si occupa della genesi dei neologismi nella sua monumentale opera Psicopatologia Generale:

1. “Vengono formate intenzionalmente parole nuove per indicare sensazioni o cose per le quali il linguaggio non ha parole. […]
2. Avvengono senza intenzione, specialmente nella fase acuta, formazioni di nuove parole, che poi sono usate secondariamente come indicazioni, e si trasferiscono nello stato cronico. […]
3. I neologismi sono dati ai malati come contenuti allucinatori. I malati, in questo come nel caso precedente, sono spesso meravigliati delle parole strane, a loro ignote. […]
4. Si hanno produzioni di suoni articolati, alle quali probabilmente gli stessi malati non collegano alcun senso. […] ”.

Pennisi (1998) sottolinea come l’intervento di Jaspers sia di rilevanza fondamentale, soprattutto per quanto riguarda la contrapposizione della sua concezione filosofica del linguaggio alla neurolinguistica ottocentesca, dal momento che egli si oppone in particolare a quel principio dell’isomorfismo tra forme del linguaggio e procedure del pensiero.
Jaspers sente la necessità di separare pazienti con danni cerebrali da altri le cui manifestazioni linguistiche sono:

“il risultato di una vita psichica anormale.[…] Non secondariamente nel linguaggio, ma primariamente come linguaggio, appare nell’opera intellettuale una modificazione dell’individuo e della sua esperienza”( Jaspers, 1913).

“E’ con Jaspers, quindi – scrive Pennisi (1998) - che per la prima volta l’identificazione linguaggio- pensiero slitta e si trasforma nella coincidenza tra linguaggio ed esistenza, destinato a diventare uno dei temi di riflessione più originali sviluppati dalla psichiatria fenomenologica o “antropoanalisi”.” (Pennisi, 1998)

3. Da Freud a Maurel
Nel 1917 Freud, nella elaborazione del concetto di rappresentazione di cosa e di parola, sottolinea la loro distinzione topica fondamentale a accenna alla condizione della schizofrenia in cui accade che entrambi i tipi di rappresentazione vengano trattati secondo le leggi del processo primario così come accade anche nel sogno. Nonostante ciò esiste una differenza tra lavoro onirico e schizofrenia:

“in quest’ultima le parole stesse in cui era espresso il pensiero preconscio diventano oggetto di elaborazione ad opera del processo primario; nel sogno, invece, il processo primario non opera sulle parole, bensì sulle rappresentazioni di cose a cui le parole sono state ricondotte. Nel sogno si verifica una regressione topica, nella schizofrenia no. Nel sogno lo scambio tra investimenti (prec) di parole e investimenti (inc) di cose è libero, mentre è tipico della schizofrenia che tale scambio sia bloccato”.

L’intervento di Galant (1920) è prettamente nosografico: egli distingue infatti i neologismi di schizofrenici catatonici, ebefrenici, paranoidi e epilettici. Se per i pazienti catatonici il neologismo è il risultato dell’attività verbo–motoria e non psichica, nel caso degli schizofrenici ebefrenici l’origine delle neoformazioni è data da un’intensa elaborazione mentale che li porta ad utilizzarle in maniera fissa ed immutabile. Gli schizofrenici paranoidi, invece, creano neologismi che sono collegabili a preoccupazioni originatesi nella vita passata del soggetto. Gli epilettici forgiano termini involontariamente, a causa dell’indebolimento mnesico, del piacere di creare rime, della tendenza al simbolismo.
Nel 1922 Quercy presenta alla Società Medico Psicologica Francese il suo contributo sul linguaggio automatico. La sua relazione si fonda sullo studio di una paziente non psicotica, bensì nevrotica, che proferisce frasi, spesso incomprensibili, ricche di lamenti e gemiti. Per Quercy si tratta di una raccolta di neologismi passivi e “amorfi”. L’atteggiamento della paziente verso le proprie produzioni verbali può essere di tre tipi:
1. attività volontaria ed intenzionale: il soggetto afferma che i neologismi sono un’opera personale;
2. imposizione delle neoformazioni che vengono suggerite da una voce esterna;
3. “il soggetto assiste da spettatore inerte […] al gioco bizzarro del suo apparato fonatorio, egli è il primo a dichiarare che i suoi neologismi non hanno senso e si affretta ad ammettere che sono il risultato dell’attività patologica del suo sistema nervoso”.
Binswanger ha dato uno dei maggiori impulsi alla psicopatologia del linguaggio ed indirettamente anche allo studio delle neoformazioni verbali degli psicotici. I suoi contributi si articolano in due fasi: quella della riflessione fenomenologica e quella in cui appare notevole l’influsso del pensiero di Heidegger.
In un suo saggio intitolato Sulla fenomenologia (1923) è possibile cogliere sin dalle prime pagine come sia forte la consapevolezza del legame presente tra linguaggio ed esistenza, soprattutto nel caso in cui si verifichi un cambiamento della visione del mondo da parte di un individuo:

“La peculiarità di questo stile fenomenologico di cogliere i fenomeni psicopatologici sta nel fatto di non considerare mai il fenomeno isolato; il fenomeno avviene sempre nello sfondo di un io, di una persona. Nel particolare fenomeno si manifesta l’insieme della persona, e attraverso il fenomeno noi vediamo la persona.”

Nella seconda fase l’approccio di Binswanger muta, alla luce della volontà di identificare i caratteri fondamentali dell’esistenza psicotica; come scrive Pennisi(1998):

“la vasta fenomenologia linguistica degli stati schizofrenici […] non appare più come una specialità sintomatologica, un deragliamento dalle norme o, addirittura, un’abolizione indiscriminata di qualsiasi regola. Al contrario essa è la manifestazione visibile di un’attività che reagisce alla catastrofe immanente minacciando la capacità di tenere assieme tutta la complessità del mondo.[…] la necessità dello schizofrenico di darsi dei confini, di richiudere il proprio mondo in un ambito privato è la conseguenza dell’atteggiamento esistenziale di chi sempre, in tutte le psicosi, si vede aggredito dall’illimitatezza”.

Nel 1925 Cenac, nella sua tesi in medicina dedicata alla formazione di neolinguaggi tra gli psicotici, introduce una distinzione che diverrà storica nel campo della psicopatologia del linguaggio: quella tra glossomania e glossolalia. La prima, riferita alla creazione di neolingue da parte dei maniaci, si distingue per sua la natura essenzialmente automatica e ludica. La glossolalia, che è invece caratteristica tra gli schizofrenici, comporta che l’autismo proprio di questi soggetti li spinga a creare un linguaggio completamente nuovo e personale con funzione compensatoria.
Il 1927 è l’anno in cui A. Schneider, recuperando l’ipotesi avanzata per la prima volta da Kraepelin (1910) di un possibile nesso tra afasia e disturbi del linguaggio nelle psicosi, propone una coincidenza tra le due patologie anche dal punto di vista anatomo-clinico. Egli distingue la schizofasia dei soggetti paranoidi (substrato anatomico nel lobo temporale) equivalente alla afasia sensoriale, da quella dei catatonici (substrato anatomico nel lobo frontale) analoga alla afasia motoria.
L’articolo di Teulié del 1931 si inserisce all’interno del dibattito relativo alla questione della coerenza e comprensibilità del linguaggio degli schizofrenici. Egli nota come sia possibile parlare, nei casi in cui la patologia del paziente non sia troppo avanzata, di pseudo-incoerenza più che di incoerenza pura, visto che il malato è consapevole di quello che dice: l’incomprensibilità è da attribuire all’ascoltatore e non a colui che esprime le proprie idee deliranti.
Passa poi ad elencare tre diverse possibilità di disturbi del linguaggio tra i pazienti:
1. assenza di turbe del linguaggio = è tipica delle fasi iniziali della malattia, con il passare degli anni è infatti raro che il linguaggio non sia disturbato;
2. neologismi e linguaggi neologici = i casi in cui si incontrano sono rari e caratterizzati da una lenta evoluzione, essi sarebbero “clinicamente più vicini alla paranoia che alla demenza precoce”;
3. schizofasia = linguaggio caratteristico degli schizofrenici caratterizzato dall’uso di linguaggi incomprensibili per l’ascoltatore, anche se essi risultano dalla giustapposizione di parole della lingua abituale e di rari neologismi.
Nel 1933 Bryan pubblica i risultati di uno studio effettuato su 40 casi clinici che presentano neologismi nel loro linguaggio. Sia l’origine che la costruzione dei neologismi presentano della analogie tra psicotici e non.In particolare le cause individuate sono: l’inadeguatezza del vocabolario corrente per comunicare particolari esperienze vissute, la tendenza al simbolismo e la ristrettezza e povertà dei rapporti sociali.
Pfersdorrf redige nel 1935 un interessante articolo relativo al confronto tra le manifestazioni linguistiche di afasici e schizofrenici. Egli riesce acutamente a carpire le differenze fondamentali tra le parole neoformate delle due patologie studiate e parte delle sue considerazioni sono tuttora valide.
Pfersdorff infatti, pur riconoscendo delle analogie linguistiche tra le due patologie pone però un vincolo alla somiglianza tra le produzioni dei due tipi di pazienti:

“presso l’organico la parola parafasica è priva di senso, mentre nello schizofrenico […] le parole neoformate hanno spesso un senso, una significazione &Mac220;&Mac220; ad usum proprium &Mac221;&Mac221;. […] Gli schizofrenici danno spesso spiegazioni delle parole neoformate, che servono a denominare gli apparati di influenza fisica, o i persecutori che li maneggiano, o molti altri elementi del delirio. Si può rilevare , tra le stesse produzioni schizofreniche, che prima avevamo definito senza senso, un valore simbolico delle parole neoformate”.

Il pensiero di Pfersdorff conserva ancora oggi la sua forza e attualità

“Il neologismo psicotico non è un “errore” ma un “bisogno”: non di natura fisiologica, come negli afasici, ma di natura ontologica. Serve, cioè, a materializzare una costruzione intellettuale, spesso rigorosamente dettagliata, strettamente funzionale alla sopravvivenza del sistema delirante” (Pennisi, 1998).

Bobon è sicuramente l’autore che ha meglio studiato e conosciuto il fenomeno della formazione di neologismi. I suoi principali contributi (1943-1952-1962-1964) rappresentano delle pietre miliari sull’argomento. In particolare Psychopatologie de l’Expression (1962), che risulta suddiviso in due parti fondamentali: la prima riguarda l’espressione verbale (linguaggio parlato/linguaggio scritto), mentre la seconda tratta dell’espressione plastica (mimica-disegno-pittura). Occupandosi dei meccanismi di formazione dei neologismi individua tra gli altri il neologismo, inteso come creazione linguistica totalmente nuova, collegabile al “bisogno di denominazione: ad un significato nuovo risponde un nuovo significante”. In questo caso i neologismi servono per dare un nome alle sensazioni di trasformazione corporea che la persona avverte, ma che non trovano un corrispettivo nel vocabolario comune. Riguardo alla “impotenza” dei dizionari, il passo che segue, tratto da Agostini(1996), relativo alla sua esperienza con una paziente schizofrenica, appare calzante:

“Ricordo che un giorno, era sera ed ero stanco, reagii esasperato all’ultimo dei neologismi sfornati, le disglande: animali acquatici, mi aveva chiarito per gentile concessione, che albergavano nella sua pancia. «D’ora in poi terrò un dizionario nello studio e così le dimostrerò che le disglande non esistono!», le dissi con ingenua convinzione. Lei mi guarda un attimo con quello sguardo compassionevole con cui tanti pazienti hanno avuto il buon cuore di ricordarmi che l’intelligenza umana (specie la mia) è limitata, e ribatte con la massima serietà: «per forza, se sono nella mia pancia, come vuole che siano nel dizionario?»”.

Oltre alla peculiarità della risposta marchiata dal pensiero concreto, qui importa sottolineare come gli stati di alterazione somatica o le trasformazioni subite siano a tal punto idiosincratiche e caratteristiche da non ammettere la presenza di un equivalente verbale nel linguaggio (vocabolario) comune e diffuso.
Il 1956 è un anno importante poiché Rosolato, allievo di Lacan, nell’applicazione degli schemi della linguistica di Jacobson e Ullman, ricorda quanto sia importante l’approccio da tenere verso il paziente:

“abbordare un malato dal punto di vista semantico presuppone la speranza di una comprensibilità del suo linguaggio, di una possibilità di oltrepassare, grazie ad una tecnica, l’incomprensibile, o di non incontrare affatto l’incoerente, per definizione inintelligibile”.

Nel suo saggio intitolato Semantica e alterazione del linguaggio l’autore ritiene che il neologismo serva a tentare di tradurre in parole dei vissuti ineffabili, dei pensieri inconsueti o delle formule magiche.
Nel suo articolo pubblicato nel 1960 Maurel si occupa del concetto di glossolalia (lingua totalmente nuova creata da parte di pazienti psicotici). Egli struttura il suo saggio sia sul versante teorico sia su quello clinico: grazie alla osservazione prolungata di una paziente che presenta questa turba linguistica, Maurel giunge ad una rivisitazione ed aggiornamento teorico sull’argomento e propone una classificazione dei neologismi prodotti dividendoli in quattro gruppi:
1. neologismi per soppressione di lettere o sillabe (vocaboli abbreviati)
2. neologismi per modificazione o sostituzione di lettere (parole
mutate)
3. neologismi deliranti (termini che sono centrali nelle delirio)paralogismi (espressioni corrette dotate di un senso nuovo).

4. Sviluppi recenti
l 1964 la rivista di letteratura Il Verri dedica un’ampia monografia alla psicopatologia dell’espressione. I saggi raccolti sono di autori molto noti in questo ramo della psicopatologia; tra essi i contributi che contengono spunti e considerazioni molto interessanti sul linguaggio schizofrenico sono quelli di Bobon, Callieri e Frighi, Pirella e Piro.
Galli, nel 1967, pubblica un articolo riguardante la storia di una paziente schizofasica; egli tratta ampiamente il caso clinico e giunge alla comprensione dei neologismi e del delirio della donna, proponendo una discussione clinica e psicopatologica relativa al vissuto dei pazienti. Egli infatti considera: “I neologismi, i paralogismi, le parole privilegiate […] non sono che questo impegnarsi in un mondo nuovo, […] sul quale pesa la significazione assoluta della minaccia.” L’autore riprende testualmente le parole di Binswanger per specificare come la sua paziente si senta pervasa dal terrore: essa “sperimenta un modello d’esperienza assolutamente nuovo per rapporto all’esperienza naturale” in cui si assiste alla “perdita di confidenza di un mondo familiare, amico”. La modalità di reazione della paziente alla “disgregazione morbosa, quella della dissociazione semantica appare il tentativo più organizzato e radicale” di includere nella propria esistenza l’esperienza “dell’ineffabile (cioè dell’indicibile, dell’inconoscibile).”
Sempre nel 1967 Sergio Piro pubblica Il linguaggio schizofrenico, che rappresenta lo studio più imponente e accurato sull’argomento. Il suo studio, prevalentemente orientato a livello semantico, inizia nel 1952 e continua tuttora; ne è un esempio, oltre alla redazione di vari articoli, la pubblicazione del testo Parole di follia nel 1992. Nella sua vasta e ricca teoria riguardante il linguaggio schizofrenico, designata teoria della dissociazione semantica, l’autore inserisce la sezione denominata distorsione semantica in cui si può assistere ad una traslazione dei “campi di significazione” con conseguente uso di neologismi e paralogismi. Piro definisce così questa forma di dissociazione semantica:

“condizione semantica particolare, imperniata sulla traslazione del significato da un segno ad un altro (paralogismo) o sulla formazione di un nuovo segno per un dato significato (neologismo) o sulla deformazione fonetica che trasferisce il significato dal primitivo segno al nuovo segno che ha subito una deformazione fonetica. In questi casi il significato non è andato perso, ma al segno verbale iniziale si è sostituito un segno nuovo: la relazione segnica si è deformata, spostata”.

Le cause di tale “traslazione” sembrano essere sia la perdita di forma espressiva di un dato segno linguistico che non è più in grado di esprimere il significato desiderato in modo corretto e specifico, sia l’eccessivo allontanamento di un segno da suo significato originario a causa di un iniziale “allargamento della trama di referenza”, definito da Piro come aumento dell’alone semantico. Piro inoltre sostiene che nella distorsione semantica sia presente :

“una componente creativa, uno sforzo espressivo, una necessità di riafferrare la concretezza segnica […] la creatività e la espressività schizofrenica, legate a una personalità trasformata, naufragata, autistica, ma ricca ancora di spinte comunicative e tendente ancora afferrare dei rapporti esistenziali”.

Lantéri-Laura e Del Pistoia nel 1968 scrivono per la rivista Evolution Psychiatrique un articolo intitolato I neologismi semantici. L’intento degli autori, reso ancor più efficace dallo studio di due casi clinici, è quello di mettere in risalto l’importanza della linguistica strutturalista di Saussure per interpretare e comprendere meglio i neologismi semantici. Questo tipo di neologismo ha la peculiarità di non implicare la variazione fonetica di un termine già esistente, ma di avere una “area semantica” o significato alterati. Tale separazione del livello fonologico da quello semantico applicata allo studio dei neologismi ha il vantaggio di non limitare “la clinica del linguaggio” ai più evidenti casi di alterazione fonetica, ma di riconoscere l’importanza e la validità esplicativa delle alterazioni dell’area semantica.
Nel 1969 lo psichiatra americano Forrest redige un articolo dedicato interamente ai neologismi. Il suo contributo è suddiviso in tre parti: nella prima egli discute il caso clinico di un suo paziente che ha creato ben 90 neologismi, nella seconda parte tratta il fenomeno dal punto di vista linguistico, nella terza propone una lettura psicodinamica delle neoformazioni. Il suo lavoro è particolarmente interessante proprio per il fatto che in esso convogliano tre approcci: descrittivo, psicolinguistico e psicodinamico.
Egli distingue, inoltre, l’uso dei neologismi in tre gruppi a seconda che si valuti l’uso cognitivo, affettivo o persuasivo di essi da parte del paziente:
1. uso descrittivo-cognitivo: l’assetto cognitivo dello schizofrenico contrassegnato da “confusione, discontinuità e oblio”, mette il soggetto nella condizione di avere un forte bisogno di nuovi termini;
2. uso espressivo-affettivo: Forrest sostiene che il neologismo risulta particolarmente utile quando il paziente provi un intenso stato di terrore o spavento, infatti, in questo caso la condizione spiacevole avrebbe almeno un nome e potrebbe essere meno intensa di una anonima:“l’etichetta verbale è rassicurante poiché può essere rinominata in ogni momento e modificata a livello linguistico”;
3. uso persuasivo-conativo: in questo caso la creazione di neologismi è di natura compensatoria nel senso che essi, apparendo “pomposi e grandiosi”, dovrebbero persuadere l’ascoltatore (ma soprattutto il loro creatore) di essere il prodotto dell’attività di una persona speciale e notevole.
Nel 1984 Werner e Kaplan, nell'ambito della teoria sulla formazione del simbolo, si occupano della comunicazione nella schizofrenia proponendo interessanti conclusioni anche sul processo di formazione dei neologismi. Nella patologia schizofrenica gli oggetti della quotidianità “perdono i loro contorni, il loro carattere inerte, la loro staticità, la costanza e la stabilità”, portando il malato a sperimentare degli stati in cui egli non avverte più la distanza tra sé e le cose che lo circondano. Scompaiono le “proprietà convenzionali, comuni, pragmatico-funzionali” delle cose circostanti, condizione, questa, che getta il paziente in confusione e disorientamento. E’ proprio dall’alterazione dei rapporti tra schizofrenico e mondo circostante che consegue una metamorfosi “fondamentale” dei suoi rapporti con il linguaggio. Appare evidente come questa esperienza di trasformazione della propria esistenza e dei rapporti con la realtà comune sia marcata indelebilmente da una corrispondente metamorfosi sul piano linguistico. E’ proprio questo stato di inadeguatezza, che il malato prova confrontandosi da una parte con i suoi significati personali, così alterati e “profondamente radicati nella sua esistenza personale” e dall’altra con una serie di termini ed espressioni convenzionali e condivise e ri-conosciute dalla gran parte delle persone, che lo induce a creare neologismi. Egli trovandosi in questa condizione di disagio“riversa le sue esperienze diffuse nei veicoli convenzionali, oppure, in casi più estremi, ri-forma e ri-modella il materiale linguistico fino a quando emerge una forma nuova che possa trasmettere i significati da lui sentiti”.
Nel libro Linguaggio e schizofrenia (1990) Wróbel, pur accennando soltanto ai neologismi, mette in risalto come la patologia schizofrenica comporti dei disordini linguistici soprattutto a livello della componente pragmatica e semantica. Nel suo testo, di stampo prettamente linguistico, l’autore sottolinea quanto risulti errata e “destinata a fallire” un’analisi del linguaggio degli schizofrenici che utilizzi la “nostra” logica. Wróbel non ha intenzione di considerare le manifestazioni linguistiche degli schizofrenici come una forma distorta o sbagliata del nostro linguaggio, bensì di valutarle come appartenenti ad sistema linguistico separato. Il cambiamento del linguaggio di questi pazienti sarebbe dunque dovuto ad un “allargamento” del loro mondo:

“ L’impressione del carattere caotico delle espressioni schizofreniche scaturisce dalla diversità tra le esperienze psicotiche e le limitazioni nella logica del linguaggio ordinario, che non è in grado di esprimere la ricchezza di un mondo schizofrenico.[…] neologismi, particolari, sono il risultato di sforzi per accordare un “vecchio” linguaggio ad un nuovo mondo ”.

Nel 1994 Rieber e Vetter curano un articolo riguardante l’antica questione del rapporto tra linguaggio e pensiero; secondo gli autori il limite che più ha inciso negativamente negli studi sulla psicopatologia del linguaggio è stato quello della mancanza di competenze linguistiche necessarie da parte dei clinici. L’assenza di un bagaglio tecnico, anche minimo, in ambito linguistico ha portato molti studiosi ad interessarsi a certi fenomeni tralasciando, ad esempio, l’importanza del contesto in cui venivano svolte le ricerche. Una interessante considerazione di Forrest (1969), può chiarire ulteriormente quanto appena detto:

“alle persone schizofreniche di solito è chiesto di dimostrare le loro abilità ad astrarre usando i simboli convenzionali di una società dalla quale essi sono stati allontanati e divenuti estranei per incapacità o rinuncia. Sebbene i significati convenzionali possono essere mantenuti così che il paziente operi normalmente sui test del vocabolario, le funzioni delle parole possono essere completamente distorte idiosincraticamente”.

Il linguista Pennisi, nel 1998, tenta di chiarire la condizione delle conoscenze attuali sul linguaggio psicotico. L’autore sente fortemente che il disagio psichico di questi soggetti, e di conseguenza le loro manifestazioni linguistiche, non possono essere ridotti entro le mura della “modellistica cognitivista e neocibernetica”.Pennisi, in un lavoro molto vasto e ben curato, analizza gli scritti e il materiale originali di pazienti psicotici (reperiti dagli archivi di diversi ex istituti manicomiali) confrontando:“in una prospettiva storica, teorica ed empirica, il discorso psicotico con le strutture linguistiche delle patologie cerebrali -afasia, agnosia, autismo- o con quelle esibite dai soggetti normali”.
Il contributo di Cutting (1999) sui disturbi del linguaggio rappresenta una summa delle conclusioni raggiunte in campo sperimentale negli ultimi 100 anni; i dati raccolti sono associati ad un particolare tipo di devianza linguistica ( fonemica, sintattica, semantica, pragmatica):

“nella schizofrenia […] il livello pragmatico viene investito per primo dall’onda d’urto del disturbo; il livello semantico non è quasi per niente interessato e quello fonemico non è per nulla compromesso.[…] In breve, la struttura dell’edificio linguistico non è solamente intatta, ma iper-funzionante”.

Le argomentazioni proposte dallo psichiatra inglese possono essere affiancate alle parole del linguista italiano Lo Piparo (1998) che afferma:

“Paranoia, schizofrenia e autismo, diversamente dalle altre patologie mentali, lasciano inalterate le capacità linguistiche dei soggetti che ne sono colpiti: fonologia, morfologia, sintassi e lessico della lingua che il malato parla e scrive non trasgrediscono nessuna delle regole che governano la competenza linguistica del “normale” […]. I soggetti malati parlano e scrivono la nostra stessa lingua ma il mondo di cui parlano e scrivono ci risulta estraneo e incomprensibile. La lingua, la medesima lingua, da tramite comunicativo tra loro e noi […] sembra trasformarsi, in un muro divisorio”.

A conclusione di questa vasta rassegna storica dei contributi sui neologismi, che copre un lasso di tempo di circa 150 anni, desidero riportare le lucide parole dello psichiatra italiano Beneduce che possono servire da bussola oltre che da punto di partenza nell’approccio alle persone malate prima che alle loro turbe linguistiche:

“nel rovesciamento degli abituali significati si perde molto di più di un orizzonte semantico: si mette in discussione lo spazio stesso del soggetto, dei suoi rapporti con gli altri, dell’Io che ritrova di colpo ad essere null’altro che il mobile e solitario confine di un’esperienza.[…] La perdita di senso è anche l’incapacità ad infondere intenzionalità nelle proprie azioni, e, ciò che più conta, incapacità ad assumere il linguaggio di sempre, le parole di tutti, come il veicolo naturale della relazione e della reciprocità: la messa in discussione della sua efficacia, la percezione della sua estraneità, è la dolorosa ammissione della impossibilità di riconoscersi in una realtà comune e di affermare al tempo stesso la propria individualità”.(Beneduce, 1990)


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