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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

Psicopatologia: realtà di un mito

di Luciano Del Pistoia


Questo articolo è già stato pubblicato dalla rivista "ATQUE. Materiali tra Filosofia e Psicoterapia" in un numero dedicato alla psicopatologia (Ancora la Psicopatologia?, n.13,p.155-178, 1996)




Psicopatologia è parola colta - se non quasi esclusivamente specialistica - che denota le manifestazioni patologiche della psiche: umana e non solo umana. Molti ricorderanno infatti uno dei prestigiosi Colloques che Henri Ey organizzava a Bonneval! Il suo titolo era: Psichiatria animale e vi si poneva appunto la questione dell'esistenza di una psicopatologia delle bestie (A. Brion, H. Ey, 1965).
Il termine non è tuttavia univoco e presenta due accezioni distinte seppure vicine. <<Curieusement [...] psychopathologie signifie à la fois le trouble mental étudié et la science qui l'étude>> (D. Widloecher, 1994, pag. 4).
Più esplicitamente, si può dire che, in una prima accezione, psicopatologia è sinonimo di patologia mentale, indipendentemente dal fatto che tale patologia sia indicata globalmente e senza ulteriori distinzioni, come follia o che sia specificata nei termini delle malattie mentali che descrive la clinica psichiatrica. In questo ultimo senso la intendeva Kahlbaum (G. Lanteri-Laura e L. Del Pistoia, in D. Widloecher, 1994). Insomma, psicopatologia è sinonimo dell'uno o dell'altro termine, la si nomina di volta in volta in causa dipendendo solo dalle intenzioni del locutore.
In un'altra, diversa accezione, psicopatologia indica invece lo studio delle cause ma soprattutto dei modi, dei "meccanismi" dei disturbi psichici.
Essa non è più allora sinonimo di follia o di clinica ma è un discorso sulla psichiatria; ovvero in termini più colti e come dice G. Lanteri-Laura, un metalinguaggio di cui la clinica psichiatrica diventa il linguaggio oggetto (G. Lanteri-Laura e L. Del Pistoia, in D. Widloecher, 1994). Tuttavia lo studio dei meccanismi dei disturbi psichici - sia che si tratti dei "meccanismi di difesa" della psicoanalisi o dei meccanismi di ricaptazione della serotonina degli psichiatri organicisti - è solo un primo aspetto di questo secondo significato.
Per un altro verso, infatti, la psicopatologia - sempre in questa accezione - è una vera e propria ricerca di senso della pazzia: e non tanto di quel senso che si ripiega - almeno in apparenza - sulla clinica stessa, come è nei casi appena citati, ma di quel senso che si apre sull'esistere umano.
Psicopatologia allora non è solo chiedersi in quali modi e con quali processi, la mente umana arrivi al delirio, ma chiedersi che significhi vivere la vita - tutta o solo un suo breve momento - come delirante, e quale immagine rinvii - codesto specchio deformante - dell'essere-al-mondo non alienato. E' su codesta ultima accezione che mi pare interessante fare qualche considerazione, perché essa rivela il significato più profondo della psicopatologia, la scommessa che essa contiene come chiave di senso della psichiatria e sulla fondazione di essa come sapere scientifico e laico.
Contiene o - più spesso - sottintende. Non tutti i sistemi clinici infatti sanno - o son capaci di far sapere - di quale psicopatologia - e antropologia - son figli, o figliastri.

Dare a questo problema una formulazione precisa è essenziale: ne va dell'esistenza stessa della psicopatologia, della sua identità di sapere autonomo.
La formulazione che ne dette a suo tempo E. Minkowski è ancor oggi centrata nella sua sobrietà.
<<Patologia dello psicologico o psicologia del patologico?>> si chiedeva Minkowski in cerca della "essenza" della psicopatologia (E. Minkowski, 1966).
E la sua risposta era senza esitazione per la seconda opzione.
Il che voleva dire che la psicopatologia è sapere di secondo grado la cui base concreta sono le manifestazioni della pazzia quali le evidenzia e le descrive la clinica psichiatrica.
E' solo conoscendo direttamente e con la competenza dello specialista queste manifestazioni - cioè i diversi modi di delirare o di essere allucinati, le diverse alterazioni dell'umore o le diverse forme della demenza e così via - che si può passare ad una ricerca di senso di codesti disturbi, passare cioè dall'atomismo pragmatico a cui li riduce la clinica a strutture di senso dove si ritrova l'uomo pazzo. Come ripete Lanteri-Laura parafrasando Locke: <<Nihil est in psychopathologia quod non fuerit prius in clinica>> (G. Lanteri-Laura e J.G. Bouttier, 1983).
Per contro, se psicopatologia avesse il senso di una patologia dello psicologico, collocandosi così oltre il riferimento preciso e la base concreta della clinica psichiatrica, finirebbe per perdersi in disquisizioni su una generica "natura umana"; e l'unica questione a cui potrebbe rispondere sarebbe di sapere se la pazzia è connaturata all'uomo, o se è solo per lui un accidente. Questione ovviamente non illecita ma lontana dal gusto di sapere cose diverse da queste dell'epoca nostra.

Precisata così l'"essenza" di fondo della psicopatologia - e cioè, ripetiamolo: che essa è una ricerca di senso radicata nella clinica psichiatrica e non la disquisizione su una ipotetica natura umana suscettibile di perdersi nella follia come è capace di depravarsi nel peccato - cerchiamo ora di vedere a che tipo di sapere essa conduce.
Per il quale scopo, due vie ci sono aperte.
Da un lato, esaminare tutti i sistemi psicopatologici susseguitisi dall'antichità della nostra - eventualmente di altre culture - fino ad oggi; d'altro lato, cercare di cogliere, per dicotomie e opposizioni, i problemi essenziali che ogni psicopatologia si trova di fronte come interrogativi di sua pertinenza. Noi cercheremo di battere questa seconda strada.


Una dicotomia significativa: Demenziale / Affettivo

Di questi due "meccanismi" psichici che in concorrenza - o in concomitanza collaborante - hanno "spiegato" e continuano a "spiegare" la pazzia, quello "demenziale" è forse, se non il più familiare, di certo il più profondamente impresso nelle convinzioni esplicite o implicite degli psichiatri di oggi: l'idea, insomma, che la pazzia autentica è una menomazione del giudizio con pesanti ripercussioni sul comportamento. Il che fa sì che la vecchia definizione che Jean Pierre Falret (1864) dava del delirio abbia ancora corso: il delirio come errore morboso del giudizio che non si corregge né con la critica né con l'esperienza contraria (P. Pancheri in G.B. Cassano, 1993).
La psicopatologia "affettiva" rinvia invece ad un atteggiamento più elastico e possibilista sulla convinzione, che al demenzialismo l'accomuna, del delirio, cioè, come errore. Nella sua ottica, infatti, la ragione erra non perché irrimediabilmente deteriorata ma perché occasionalmente trascinata dalle passioni, o dall'umore.
E', del resto, quanto sottintende lo psichiatra di oggi quando parla di "deliroide olotimico": uno sragionare dovuto all'umor nero o all'umor gaio e che non produce un delirio vero e proprio ma qualcosa che solo gli somiglia: un'"oide", un'Ersatz di delirio (K. Jaspers, 1964; L. Bini e T. Bazzi, 1954; P. Sarteschi e C. Maggini, 1982; E. Poli, P. Cioni e C. Faravelli in G.B. Cassano, 1993).
E' interessante vedere più da vicino codesti demenzialismo e affettivismo in quanto motivi conduttori che col loro intreccio dominano e strutturano una buona parte della psicopatologia dalla fine del '700 a oggi.

La teoria del demenzialismo celebra la sua apoteosi con la dégénérescence di Morel. E' Morel che liquida la clinica delle monomanie di Esquirol, clinica che, sul piano prognostico e terapeutico, era ancora empiricamente possibilista e ottimista secondo la tradizione di Pinel.
La dégénérescence sussume in sé tutto il folclore aneddotico di essa e ne fa attributi ed estrinsecazioni di un processo unico, dal conio - e dalla conclusione - fatalmente demenziale: appunto, la degenerazione.
E' il criterio nosodromico che consente la riduzione ad un comune denominatore di forme dall'esordio e dalle apparenze disparate.
La teoria passerà alla notorietà attuale attraverso il filtro di Kraepelin (J. Postel e Cl. Quetel, 1983) perché inserita nell'ambito di una sintesi più ampia e già di impronta culturale più "moderna": Kraepelin opta per le malattie mentali mentre la dégénérescence rinvia alla psicosi unica; e inoltre, per lui, il demenzialismo non ha più il monopolio psicopatologico ma lo divide con l'affettivismo.
Tutti sanno tuttavia che fu Morel a descrivere e a battezzare il Demente precoce e ad addurlo a prova e conferma folgorante della sua teoria: un malato che compendia nel breve arco di una vita quel processo di degenerazione di solito esteso nell'arco di una saga: alla Rougon-Macquart (B.A. Morel, 1860; E. Zola, ed. 1972).
Anche per Kraepelin, il demente precoce rimane il riferimento teorico forte, pilastro e sostegno della parte demenzialista del suo sistema. Una simile funzione non può certo esercitarla il paranoico dotato in questo sistema di un rilievo ignoto a Morel, e che fino alla fine dei suoi giorni rimane lucido ragionatore; e che, come tale, fa anzi problema. L'annessione della paranoia al demenzialismo è un interessante esempio di come il sistema si costruisce e merita una digressione. Sarà regolato dall'articolo epocale di Tanzi e Riva (E. Tanzi e G. Riva, 1984-85-86).
Se infatti la paranoia interpretativa alla Sérieux e Capgras può far pensare a un "errore di giudizio" di una gravità demenziale, in altri tipi di paranoia quali la gelosia, l'invenzione, il Querulantwahnsinn - il deterioramento del giudizio non è così evidente e sembra meno una demenza che l'impuntatura ossessiva e combattiva di una mente altrimenti integra.
L'annessione demenzialista della paranoia riceve tuttavia aiuti e contributi dallo spirito del tempo, dalla piega che prende la psicopatologia scientista nello scorcio del secolo XIX. Annunciata dalla posizione di Snell, Sanders; e Westphal, viene sancita dalla geniale intuizione di Tanzi e Riva.
Snell, Sanders (G. Lanteri-Laura, L. Del Pistoia e H. Bel Habib, 1985) sostengono la natura primitivamente delirante della paranoia con un criterio di esclusione: per essere cioè un delirio fin dall'inizio "a freddo", senza annunci, o corteggi di surriscaldamento affettivo. Essa si dichiara fin dall'inizio come Verrucktheit, corrispondente cioè a quella fase della Einheitpsychose di Griesinger in cui la ragione, sfibrata dai moti dell'umore, ha raggiunto il punto di non ritorno del suo iniziale deterioramento demenziale - la paranoia può, così, essere ammessa alla demenza.
Nella Germania dell'epoca codesta affermazione andava controcorrente, urtava un modo di sentire diffuso e che l'affettivismo di Griesinger aveva strutturato a sistema.
L'argomento del Tanzi e Riva è invece di carattere positivo: ai loro occhi il paranoico appare come un demente non per i contenuti demenziali del suo delirio a freddo, ma per la forma rationis che tali contenuti organizza e che possono anche apparire plausibili. Apparentemente sana e solida, questa forma, nella sua serrata logicità, è invece minata dalla paralogia. Il sillogismo su cui si impernia è falsato nella sua impostazione, vìola in effetti le leggi fondamentali della logica.
Tutti ricordano il classico esempio scolastico del normale sillogismo di Barbara:

- Gli uomini sono mortali / Socrate è un uomo / Socrate è mortale -

e riconosceranno facilmente codesto paralogismo paranoico altrettanto classico:

- Chi tossicchia sfotte / quell'uomo ha tossicchiato / quell'uomo mi sfotte -

Paralogismo perché nella premessa maggiore manca la necessità universale che rappresenta invece la morte per tutti gli uomini. Da qui la falsità dell'edificio delirante che ne discende. Senza poi contare il "ricentramento" del mondo in chiave di "io" (mi sfotte) che il paralogismo paranoico contiene.
Codesto ragionare paralogico è omologato da Tanzi e Riva ad una "regressione atavica" che indica il ritorno della mente a modi dell'infanzia individuale (il bambino) della specie (i selvaggi di cui i bianchi europei stanno in quello scorcio di secolo spartendosi la colonizzazione e la "civilizzazione": l'anno dell'articolo di Tanzi e Riva è quello dell'occupazione italiana di Massaua).
E' questa paralogia la crepa originaria della ragione, che autorizza l'ammissione demenzialista della paranoia; sragione non grossolanamente sprovvista di ogni senso come nei deliri dichiarati e nelle demenze organiche avanzate, ma espressione di una "corticalità" povera, che l'europeo civilizzato ha nella sua evoluzione, superata per arricchimento. E' questo mancato arricchimento neuronal-corticale che, dall'ottica del bianco evoluto, può essere omologato ad un impoverimento che permette di assimilare la paranoia alla demenza, la demenza essendo - istopatologia dixit - uno spopolamento neuronale della corteccia.
Questa di Tanzi e Riva non è tuttavia l'unica versione della psicopatologia demenzialista; ne è la versione per così dire laico-darwiniana.
La già ricordata dégénérescence di Morel (1861), che del demenzialismo è forse la matrice più autentica, ne è per contro la versione biblico-cristiana.
Ma la differenza fra le due teorie è meno del livello psicopatologico che antropologico, ed è interessante farvi un accenno. Non foss'altro per mostrare il necessario risvolto antropologico di ogni psicopatologia.
Nell'ottica biblico-cristiana di Morel, la degenerazione è una spada di Damocle sospesa sul capo dell'umanità intera da quando la sua perfezione divina s'è guastata col peccato originale. Da allora, ogni essere umano è a rischio di codesta caduta regressiva, che dalla paralogia lo mena prima e lo riduce poi alla turpitudine dei suoi ciechi istinti, mentre solo l'esercizio etico della ragione può mantenerlo al livello precario e faticoso della sua umanità.
Facciamo notare en passant che codeste implicazioni antropologiche non sono quelle mere vedute astratte sull'uomo, estranee alla clinica e anzi inutili, come credono i poco, o male, informati di storia e metodologia della psichiatria; ma sono parte integrante della clinica stessa.
In questa concezione infatti è iscritto tutto il pessimismo prognostico e terapeutico della psichiatria della dégénérescence. Pessimismo che emerge in modo quasi drammatico nella monografia che Magnan dedicò ai Degenerati (V. Magnan e M. Legrain, 1895): nell'ultimo capitolo, quello della terapia, si sente il clinico - la cui vocazione è curare - scuotere le sbarre della gabbia in cui lo ha chiuso lo psicopatologo con la sua logica di ferro.
Per contro, più aperta appare la posizione darwiniana di un Tanzi, il cui pessimismo si restringe a quei cascami di umanità che soccombono allo struggle for life. Il suo assunto di fondo depone infatti per una umanità sana e, anzi, in miglioramento progressivo, di cui degenerano solo le frange deboli e marginali, incapaci di tenere la rude concorrenza insita nel modello di vita borghese. Una storia di vita diversa e meno traumatizzante avrebbe potuto risparmiar loro tale degenerazione, tutt'altro che fatale.
In altre parole, nella teoria del Tanzi, cresce in importanza il fattore relazionale e sociale della patologia e conferisce alla malattia mentale una elasticità, comunque lontana dal fatalismo pessimista della teoria di Morel.
Tuttavia, demenzialismo degenerativo e darwiniano si troveranno schierati di comune accordo sul terreno della profilassi sociale, l'unico del resto aperto ad un qualche concreto intervento per una psichiatria sprovvista di farmaci specifici e scossa dal "no-restreint" nella sua fede per l'unico strumento di cui disponeva: il manicomio.
Le motivazioni "antropologiche" sono ovviamente diverse ma gli obiettivi sono comuni; e codesti alienisti scettici o semiscettici in terapia avranno molti meriti nella lotta contro piaghe sociali come l'alcoolismo, la pellagra, lo scorbuto, la sifilide.

Se siamo d'accordo nel riconoscere in Pinel il padre fondatore della psichiatria moderna, l'affettivismo è la teoria psicopatologica inaugurale.
Del resto, essa ha il conforto dell'antica e prestigiosa tradizione umoralista e ippocratica come Pinel sottolinea - allineandovisi - nella introduzione al suo libro (Ph. Pinel, ed. 1965). E di questa ha anche lo stile del ragionamento, più duttile di quello della tradizione "solidista".
L'idea portante di questa teoria è, come abbiamo accennato, il trascinamento secondario della ragione da parte dell'affettività, nel caso specifico da parte delle passioni.
La follia - la follia autentica, produttiva - per Pinel mania e melancolia dato che idiozia e demenza sono piuttosto una messa a dimora della ragione - è uno stato passionale estremo che obnubila e distorce il retto giudizio.
Si vede subito che lo stacco netto, e anzi qualitativo, fra follia e normalità, insito nell'ottica demenzialista è estraneo a questo modo di ragionare. La follia appare qui piuttosto come una variante quantitativa dell'animo umano, anche se capace di attingere gli estremi dell'"alienazione", di una estraneazione cioè del folle dalla koinonoa umana. Ma è una estraneazione che rimane duttile, e non chiusa, per principio a quel "ritorno" al raziocinio che il pessimismo demenzialista esclude per principio.
Codesta psicopatologia "affettivista" non rimane tuttavia univoca. Nel suo percorso attraverso la psichiatria moderna va incontro a variazioni, in relazione al contesto culturale di riferimento.
Già la versione di Pinel appare con evidenza legata alla posizione filosofica di codesto autore e all'antropologia che ne costituisce parte integrante.
C'è la statua di Condillac, dietro il cittadino-malato di Pinel e c'è il rapporto chiave - costitutivo - che essa ha con la sensazione. Anche qui posizione teorica di immediato riflesso clinico. E' infatti su questo assioma che Pinel fonderà - in diritto (G. Swain, 1977) - il suo "traitement moral": il poter cioè influenzare il delirio dell'uomo attraverso gli ingredienti di cui l'uomo è composto: sensazioni, emozioni, idee.
Ed è con i suoi temi deliranti che si estrinseca codesta follia passionale. Il linguaggio vi è implicato a pieno titolo e il "gesto" di Pinel libera meno i pazzi dalle catene che la parola dal silenzio del "non ascolto" opposto al delirante. Parlare, ascoltare, i cardini della moderna psicoterapia; dialogo con una persona o, se si vuole con la parte sana di essa, alleata al terapeuta contro la sua parte folle. Come ricorderà Hegel lodando Pinel e sottolineando che il malato non è un mero contenitore della sua follia, ma ne è l'attore, lacerato da quella dialettica ragione/sragione che lo costituisce come individuo.
Guarigione come sintesi virtuale, superamento auspicato di questa lacerazione, il malato è ben il "sujet" della sua follia, come ha scoperto Glady Swain (1977); soggetto a cui la follia può essere "imputata". Ovvero: l'uomo nuovo di Pinel si fa carico della propria follia, si prende la responsabilità del conflitto fra ragione e desiderio che lo costituisce e in cui la follia è potenzialmente inscritta.
L'dea della "possessione" - che spiegava la follia dell'uomo dell'ancien régime - suona ormai come alibi ridicolo.

Nella psichiatria tedesca, per contro, il postulato del "motore affettivo" della follia avrà inflessioni correlate al tema romantico della "sensibilità", e sarà incline alla ricerca di quel fenomeno "atmosfera" - che così spesso annuncia e inaugura la follia; mentre l'indirizzo francese è come s'è visto già in Pinel, propenso a privilegiare la precisione del tema, le idee deliranti che sul magma "atmosferico" di angoscia, derealizzazione e depersonalizzazione ammiccano prima e si precisano poi e che di quel magma indistinto di "affetti" sono per così dire l'unico precipitato chiaramente afferrabile.
La differenza dei due indirizzi è quasi icasticamente espressa dalla definizione che della melancolia danno rispettivamente Griesinger da un lato, Esquirol dall'altro: "Schwermut" per il tedesco (W. Griesinger, 1865), "Délire triste" per il francese ( E. Esquirol, 1838). Ed in queste parole, c'è l'indicativo preannuncio della scelta dell'"atmosfera" o del "tema".
La descrizione che Griesinger dà della melancolia è un buon esempio di questa ricerca dell'effetto "atmosfera" ispirato alla psicopatologia affettivista.
Egli fa un elenco minuzioso delle situazioni e occasioni che danno sull'animo del malato la eco del dolore: che non son solo i dispiaceri, i lutti, le disgrazie. Anche gli eventi lieti la riuscita, la vittoria, perfino la gioia - acquistano nello Schwerhrmut melanconico l'acuto pungiglione del dolore infinito ed ineffabile.
A guardar bene però, Griesinger non descrive un'atmosfera ma elenca una serie di situazioni dolorose - descrive cioè un dolore declinato in temi narrativi: il pranzo, la toilette, la visita dei parenti... L'effetto atmosfera scaturisce semmai in un secondo momento e proprio dalla monotonia un po' pedante di codesta descrizione dal suo insistente ripetersi e dal suo capillare infiltrarsi in ogni dettaglio. Questo dolore, che ritorna puntuale ad ogni occasione, dà ad un certo momento l'impressione di una "dolorosità", di un'atmosfera di cui è impregnato non tanto l'animo di quel singolo paziente ma il mondo, anzi l'universo, intero. E i fatti, gli accadimenti dolorosi di cui si narra sembran quasi, di codesta dolorosità grumi occasionali e persistenti, le forme palpabili che essa assume nella vita e nella storia di quella persona, pur continuando a permeare di sé tutto intorno ad essa, finanche l'interlocutore e il clinico che raccoglie l'anamnesi.
Render codesta atmosfera è molto merito della capacità stilistica di Griesinger: è una specie di "tour de force" che gli consente di superare il limite obiettivo, e peraltro invalicabile del suo metodo: l'atomismo semeiologico della psichiatria clinica.
L'"atmosfera" è infatti una Ganzheit, e quel metodo non ha strumenti per descrivere la totalità. Analitico e dissecatore, invano vorrebbe ricostruire alla fine la Gestalt iniziale come somma dei frammenti in cui l'ha ridotta.
Anche Kraepelin avvertirà chiaramente codesto ostacolo e non potendo superarlo cercherà almeno di aggirarlo col tentativo di rendere la imprendibile dimensione "atmosfera" dell'umore in termini di "ritmo" della vita psichica. E' tale ritmo - egli dice - (accelerazione, rallentamento) che rivela l'alterazione malinconica o maniacale dell'umore, ben più che non la tristezza o l'euforia. Fino all'affermazione, d'apparenza paradossale che in certi casi di melancolia, l'umore può essere indifferente (E. Kraepelin). Ovvero che, nei disturbi dell'umore, non è l'umore a far testo per la diagnosi.
La ricerca di una descrizione positiva e diretta dell'effetto atmosfera rimane tuttavia un'istanza della psichiatria tedesca e non dello psichiatra francese. Anche se Delay nel 1946 lamenta questo "manque" fra le righe della frase con cui apre il suo libretto: <<C'est une notion facile à entendre mais difficile à définire, que celle de humeur>> (J. Delay, 1946). Ma ad una psichiatria propensa alla precisione del tema, la dimensione atmosfera non poteva che continuare a sfuggire.
Questa dimensione la vediamo invece apparire nella sua positiva pienezza con la nozione di Wahnstimmung di Jaspers (K. Jaspers, 1964).
Nella Wahnstimmung, come tutti sanno, non contano tanto i temi deliranti - che del resto non si sono ancora dichiarati - quanto l'atmosfera carica di attesa e di enigma, che impregna il mondo e a cui fa eco la bizzarra e sconosciuta inquietudine del malato. "Atmosfera da venerdì santo" l'ha chiamata Callieri (B. Callieri, 1982) sintetizzando in un'immagine icastica l'aneddotica descrittiva della clinica e alludendo al contempo, seppur senza esplicitarlo, al senso profondo di codesta esperienza.
Senso che io chiamerei senso del sublime.
Quel che la caratterizza infatti non son tanto emozioni forti (la paura, lo stupore, l'esaltazione) quanto quell'"aldilà" dell'emozione che ci spianta da ogni nostra referenza e certezza personale e terragna allorché l'immensità dell'evento ci "annienta". Allora non ci sentiamo più come "io che provo un'emozione", ma sentiamo solo di non esser più e, sola esiste l'emozione che ci ha presi e che, nel suo vortice ci porta via: nel gorgo del Maleström o nell'infinito delle galassie.
Per esempio: la nostra città che sussulta e crolla in preda al terremoto, la sua certa solidità di cemento e asfalto trasformata in liquida incertezza di natanti precari; oppure l'onda del maremoto alta e ampia come il fronte degli edifici degli Champs Elysées e il suo ruggito e il suo soffio disumano che annunciano la catastrofe imminente sopra di noi; o infine, il cielo che improvviso si abbassa e si apre (come mi raccontava un malato che conobbi al manicomio di Alessandria) e Dio stesso vi appare e ti chiama a sé col gesto e con la parola; tutte queste sono esperienze del sublime - come lo intendeva Kant - e travolgono la nostra finitezza creaturale e i suoi punti di repere, suscitando in noi l'improvviso senso dell'annientamento ma anche l'attonito ed esaltato slancio verso l'abisso immenso che ci risucchia.
Taglio analogo alla Wahnstimmung hanno le cosiddette psicosi oniroidi che Willy Mayer-Gross descrisse nella sua monografia (W. Mayer Gross, 1924): appunto, l'effetto "atmosfera".
Eppure Mayer-Gross non scopre nulla di nuovo ma si limita a riproporre alcune autodescrizioni fatte dai malati di crisi confusionali. Casi del genere eran noti già da tempo alla psichiatria (E. Ey, 1954) con una collocazione che oscillava fra i deliri confusi o la distimia a seconda dell'inclinazione affettivista o demenzialista dello psichiatra descrittore di volta in volta in causa.
La novità di Mayer-Gross e di Jaspers è di aver trovato "les mots pour le dire": che non vengono da una scoperta clinica ma da un salto metodologico. La loro angolatura non è più quella della osservazione scientista ma quella della comprensione fenomenologica; e l'effetto "atmosfera" può esser descritto come dimensione alterata della "coscienza intenzionante": la quale coscienza non è una "funzione psichica" ma una "apertura al mondo", cioè una Ganzheit.
Codesto sviluppo dell'"affettivismo" era possibile solo nel contesto culturale tedesco-romantico. Come può indicare l'elaborazione che i francesi hanno di queste stesse psicosi, anche a loro ovviamente ben note.
Per Magnan, diventano le "bouffées deliranti polimorfe". La loro referenza è cioè il tema delirante che si caratterizza come labile e caleidoscopico ("ipocondriaco alla sera - il malato - perseguitato al mattino, megalomane il pomeriggio" diceva Magnan) in opposizione al tema del delirio cronico, che è sistematico e progressivo in quattro fasi (inquietudine persecuzione, grandezza, demenza). Opposizione che, nel sistema di Magnan, è non solo clinico-empirica ma anche nosologico-strutturante.
D'altra parte anche nell'automatismo mentale di de Clérambault, la referenza sono i fenomeni cognitivo-sensoriali: eco furto ripetizione sonora, anticipazione del pensiero: commentari degli atti; eco della lettura, della scrittura; e così via dicendo.
La dimensione "atmosfera" di codeste psicosi non è ovviamente ignota ai due grandi clinici francesi ma non diventa per loro referenza nosologica né tanto meno psicopatologica: rimane uno sfondo che meglio fa risaltare i temi deliranti.
Sarà tuttavia un francese - Henri Ey - a riprendere la nozione di coscienza intenzionante come grande organizzatore psicopatologico (E. Ey, 1963). Nel suo sistema dell'organo-dinamismo, la patologia acuta è come tutti sanno - decifrata in termini di destrutturazione della coscienza, la patologia cronica in termini di costruzione del "moi aliéné": frutto cioè di una intenzionalità che si dispiega sia sull'"ici maintenant" che nella continuità della storia della persona, che così contestualmente si costruisce. (Altre dicotomie aiuterebbero a illustrare ulteriormente il concetto di psicopatologia e il suo funzionamento in psichiatria, due in particolare: psicosi unica/malattie mentali, e personalità/malattia; ma non attengono alla dimensione del discorso attuale che qui ha da fermarsi.)

Vediamo allora, per concludere, di dire cosa sia la psicopatologia secondo questo modo di vedere.


Sapere totale, sapere parziale

Escluso che la psicopatologia sia un sapere astratto sulla cosiddetta natura umana e asserito che è un sapere di secondo livello radicato nella conoscenza clinica della patologia mentale, c'è ora da decidere se sia un sapere totale, cioè una teoria a mire esplicative esaustive sulla patologia mentale, oppure un mosaico di saperi parziali ciascuno dei quali spiega una parte di psicopatologia; ovvero se sia un sapere scientifico o una aspirazione alla conoscenza totale paranoica (M. Rossi Monti, 1984).
Da quanto abbiamo detto, la risposta ci sembra ovvia.
"Affettivismo" e "Demenzialismo", due delle dimensioni euristiche usate da noi per inquadrare il problema, sono chiaramente angolature, punti di vista sul campo del patologico mentale e abbiamo visto che ciascuno di essi ha le sue capacità di dare a tale campo una sua struttura di senso e di incidere sulla pratica della psichiatria: prognosi, terapie, istituzioni... Il fatto stesso di questa duplicità esclude un monopolio di principio; ciò non esclude tuttavia tentativi egemonici di fatto che un punto di vista può perpetrare a danno degli altri. Nella storia della psichiatria si assiste ad una prevalenza dell'una o dell'altra teoria, come si assiste ad una loro integrazione reciproca (Nota: L'esempio tipico di integrazione è il sistema di Kraepelin dove i deliri cronici - demenza precoce paranoia parafrenie - son decifrati sul registro demenzialista, mentre la maniaco-depressiva è decifrata su quello affettivista. E con l'idea che codesta partizione non è un compromesso empirico ma l'opposizione su cui si erge e si tiene tutto il sistema in questione).
Non ci sembra quindi che possa seriamente sussistere il pericolo che Lanteri-Laura paventa - ed esorcizza con la sua ironia - di una teoria psicopatologica che possa per principio aspirare al monopolio esplicativo della patologia mentale e che, lentamente perfezionandosi nel tempo arrivi un giorno a cancellare ogni alternativa.
Questo tipo di sapere sarebbe un mito e non certo una realtà. Ciò non impedisce tuttavia il temporaneo imperio di una teoria capace di far apparire le altre come residuo pagano di genti incolte: così è stato a suo tempo per l'organo-dinamismo di Henri Ey e, per la psicoanalisi di Lacan, ed è forse oggi così per il DSM IV, tipico esempio di "teoria ateoretica".
L'idea quindi di un sapere psicopatologico assoluto, che spieghi una volta per tutte, le genesi e i meccanismi dei disturbi mentali, è frutto di un equivoco o di un abbaglio consistente nello scambiare con la verità in persona una statua romana della dea, oggi dispersa.
Ci par comunque molto azzeccata l'idea di Lanteri-Laura che vede l'insieme delle teorie psicopatologiche allo stesso modo di come il suo maestro Levi-Strauss vede le varie civiltà del pianeta: alcune all'apice del loro sviluppo, altre - a torto messe tutte una volta nel sacco del primitivismo - embrioni di eventuali civiltà future, ma anche resti decadenti di una passata grandezza.
Nella psichiatria di oggi una psicoanalisi in declino tiene ancora il campo delle nevrosi mentre un organo meccanicismo di ritorno avanza sempre più sul campo delle psicosi, con eventuale accompagnamento di "ottoni psicofarmacologici" (E. Borgna, 1993).
Ma se questo discorso ci ha ricordato un equivoco che pende sul capo della psicopatologia e che è utile dissipare, esso non ci fa tuttavia molto progredire nel capire cosa essa sia in effetti.
Invece una indicazione positiva e centrale in proposito può venire da un autore come Jaspers: e non per il contenuto della sua monumentale tesi (che, come dice Tatossian (A. Tatossian, 1979) per molti aspetti è più un punto di arrivo che di partenza) quanto per la sua essenziale indicazione di metodo.
Jaspers infatti dice chiaramente quale è il punto di vista dal quale egli si colloca per inquadrare la patologia mentale, esplicita la provenienza del suo modello; il quale modello, come tutti sanno, è quello fenomenologico - esistenziale ispirato alla filosofia di Dilthey e di Husserl e centrato sulla distinzione fra il Verstehen delle scienze dell'uomo e l' Erklären delle scienze della natura.
Non è qui il caso di entrare nel merito e chiedersi se l' Erklären di Jaspers faccia del "processo" un residuo del demenzialismo naturalista o meno; e se il suo Verstehen rimandi all'affettivismo tedesco-romantico. Interessante è invece la riflessione che questo sistema suggerisce sulla nozione di psicopatologia e la rimeditazione delle grandi e originali teorie che la incarnano: da Ey a Pinel, da Griesinger a Morel_
Ci si rende così conto di due fatti significativi, essenziali per capire cosa sia la psicopatologia.
Da un lato, appare l'estraneità del modello ispiratore in rapporto alla clinica: per Ey la fenomenologia, per Pinel la filosofia degli "idéologues," per Griesinger il romanticismo, per Morel un modello zoologico-genetico aduggiato da un'antropologia biblico-cristiana... come dire che la clinica non racchiude in sé il suo senso ma che lo riceve da altrove; e che un clinico competente in elenchi di segni clinici e solo in quelli non sarà mai uno psicopatologo; ma sarà al massimo l'inconsapevole tramite della psicopatologia che fra i segni è nascosta e che il suo maestro nell'arte di raccogliere segni gli ha tacitamente tramandato.
D'altro lato, appare l'appartenenza di tale modello ad una cultura, ad una "mentalità" dominante in quel dato periodo, e che lo psicopatologo adotta come suo punto di vista per "interpretare" il campo del patologico mentale.
Questo riviene a dire che la psicopatologia non è una teoria della psiche malata avente come oggetto la psiche in assoluto e della quale mirerebbe alla conoscenza attraverso una lenta progressione nel tempo e nella storia; ma appare invece come una interpretazione del patologico mentale nell'ottica della cultura sentita come viva e dominante in quel momento. Ovvero, la psicopatologia è l'inserimento dell'immagine della pazzia che una cultura si dà nella conoscenza empirica che della pazzia ha la clinica psichiatrica; e che, nei confronti di tale empiria, funziona come organizzatore di senso.
Un esempio in merito illuminante più dei molti altri che si potrebbero fare: quello della schizofrenia di Bleuler.
Tutti sanno che la clinica della schizofrenia è fatta dello stesso materiale sintomatologico della demenza precoce di Kraepelin, salvo il segno dell'autismo che però in Bleuler rimane poco più che un accenno; ma ugualmente tutti sanno quale diverso rimando psicopatologico abbiano codesti segni nell'una e nell'altra concezione.
Due concezioni che si rappresentano in modi molto lontani l'una dall'altra la psiche umana, il suo modo di funzionare e di produrre deliri e allucinazioni, con la dimensione pregnante dell'inconscio dell'uno che è totalmente estranea all'altro. Tanto da poter dire che benché quasi coetanei (Kraepelin è del '56, Bleuler del '57) Kraepelin rimane uomo dell'Ottocento mentre Bleuler è già uomo del Novecento.
Due concezioni diverse, due modi diversi di immaginare la follia che portano come è noto, "cliniche" molto diverse dove diversi sono le terapie, la prognosi, le istituzioni...
Questa dunque mi par la caratteristica e la funzione della psicopatologia: una messa in forma della clinica al gusto della cultura dell'epoca, secondo l'immagine della follia che quell'epoca si dà. O se si vuole, una mediazione fra tale cultura e l'empiria della clinica.
Con due caratteristiche: da un lato, la discontinuità che produce fra le teorie (ovvie conseguenze del fatto che una cultura nuova comincia con la critica e il ripudio del "vecchiume" di cui vuol liberarsi); d'altro lato, il polimorfismo del suo campo. Le teorie sconfitte non muoiono ma continuano a vivere o a sopravvivere con la più svariata fortuna: da dorate mummie universitarie ancora spacciate per vivente pensiero a sopravviventi credenze di lontane periferie. C'erano, ancora nei manicomi dei nostri anni '80 prossimi alla chiusura, degli adepti più o meno consapevoli, della vecchia dégénérescence; come c'è ancor oggi fra il volgo di tutti i ceti, chi crede, come nel medioevo, che la pazzia sia una possessione diabolica e porta dall'esorcista il parente schizofrenico.
E' certo, comunque, che la psicopatologia non sia un sapere di lusso e quasi superfluo ma l'anima stessa della clinica.
Una clinica senza asse di senso psicopatologico che la organizzi è impensabile; sarebbe, oltre, anche l'"insalata di parole" schizofrenica che, seppure a suo modo, un senso lo ha. Che il medico sia poi consapevole di tale asse di senso che lo abita e "larvatus prodet" agendo nel suo operare e nelle sue convinzioni sul suo "che è" della follia è altra cosa. Ed è spesso - se non regolarmente - su codesto equivoco della mancata consapevolezza del clinico che si costruisce la convinzione della collateralità superflua della psicopatologia rispetto alla clinica. Ma non basta ignorare la teoria per ignorarne in buona coscienza epistemica l'esistenza. E, d'altra parte, come ripete spesso Lanteri-Laura con la sua ironia, anche la negazione di qualsiasi teoria è già una teoria.
A questo punto bisognerebbe cedere alla tentazione di andare a vedere quale modello psicopatologico, quale "statua di Condillac" funziona larvatamente dentro sistemi dichiaratamente empirico-ateoretici come i DSM americani; ma s'ha da rimetter la cosa ad altro momento.
Rimaniamo per ora alla nostra conclusione che la psicopatologia non è l'astratta teoria della natura umana malata - questo sarebbe il suo mito irreale - ma è l'asse di senso umano della conoscenza clinico-empirica degli uomini pazzi. Questa è la realtà del suo mito: il mito di una donazione di senso alla realtà imprendibile della follia.


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