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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

Sintesi del saggio introduttivo
alla nuova edizione del volume di Bruno Callieri:
Quando vince l’ombra. Problemi di psicopatologia clinica
(Edizioni Universitarie Romane, Roma, 2001)

a cura di Mauro Maldonato



Presentiamo con grande piacere una sintesi del saggio introduttivo di Mauro Maldonato alla nuova edizione del volume di Bruno Callieri: Quando vince l’ombra. Problemi di psicopatologia clinica (Edizioni Universitarie Romane, Roma, 2001). Il volume, originariamente pubblicato nel 1982 e ora riproposto in forma aggiornata, costituisce una fondamentale testimonianza del valore della ricerca psicopatologica in senso clinico e fenomenologico portata avanti da Bruno Callieri da molti anni a questa parte insieme con i maggiori psicopatologi europei, a partire dagli insegnamenti di Karl Jaspers e Kurt Schneider. Meglio delle nostre parole, poche righe tratte dalle ultime pagine del libro possono trasmettere il senso di anni di lavoro dedicati ad incrociare “dati clinici, itinerari antropologici, risonanze filosofiche”:

“Scegliendo alcuni nodi essenziali dell’accadere psicopatologico - scrive Callieri - alla luce di esperienze cliniche quasi paradigmatiche, pur nella loro irriducibile peculiarità esistenziale, la Psicopatologia Clinica viene da me rimeditata e riproposta, soprattutto negli ultimi anni, in chiave di esperienza interumana, continuando però ad assumere con densa perentorietà la presenza psicotica del singolo, come minaccia immanente all’essere-uomo, come ombra che può calare su ognuno di noi: è il rischio inevitabile di ogni incontro interpersonale”.

Un ringraziamento alla sig.ra Fernanda Conti e alle Edizioni Universitarie Romane (http://www.eurom.it/ap/aphome.html) che hanno dato il loro consenso alla riproduzione del testo.

Mario Rossi Monti & Antonella Di Ceglie




Con questo volume, Callieri inaugura un viaggio nell’ombra. Un viaggio, si potrebbe dire, al termine del soggetto. Oltre soggetto e oggetto. Forse oltre la logica stessa. Non può esservi, infatti, una via logica alla Lebenswelt schizofrenica, melanconica o maniacale. Un viaggio nell’ombra, in vista di mete non garantite, lungo arcipelaghi intricati, geografie complesse: perché intricati e complessi sono i passaggi e i paesaggi che ci si aprono dinanzi appena provochiamo le dinamiche interne della psicopatologia. Un viaggio che fa appello alla passione per l’uomo più che alla pretesa di corrispondere a una qualche “verità oggettiva“. Ma, soprattutto, un viaggio che assume in pieno lo scarto sempre presente tra due uomini che si incontrano (medico e paziente) in un faccia a faccia che cancella la presunzione fatale di una conoscenza che tiene insieme soggetto e oggetto, spirito e materia. Un viaggio, il solo viaggio possibile, per un nuovo gesto e una nuova passione per la conoscenza.
Callieri inaugura il suo viaggio congedandosi preliminarmente dai paradossi originati dalla metafisica dell’identità e del suo oggetto immaginario: è qui il grande valore epistemologico del suo libro. Per aver frequentato a lungo Kurt Schneider ed aver assorbito in pieno l’insegnamento di Karl Jaspers, Callieri ha visto quanto fragile e vulnerabile sia quella convenzione che chiamiamo “io”. Sono densissime, in merito, le pagine da lui dedicate alle lacerazioni di quella soglia fluttuante (e per niente definita) che divide l’io e il mondo, il sé e l’altro da sé. Della via di transito, del procedere evolutivo dell’esperienza delirante, del mondo-limite della perplessità quale via d”ingresso al delirio, egli ha fissato fotogrammi straordinari, ritraendo - nel momento del loro apparire - i paesaggi della metamorfosi, le contrazioni e le espansioni dell’io, il capovolgimento del mondo, il frantumarsi di ciò che si vuole “unità” e “coesione” psichica. Là, nel cono d”ombra della sofferenza, Callieri ha visto come il cammino sia interdetto alle ipostasi unitarie di “soggetto” e “oggetto”. E come, al contrario, l’accesso alle cose si renda possibile quando queste categorie vengono affrontate dal loro versante oscuro, contraddittorio, molteplice: pensando, cioè, in esse e, dunque, inevitabilmente oltre esse. Quasi che l’esplorazione libera dei territori dell’umano fosse possibile solo a condizione di aggirare le “cortine di ferro” entro le quali lo scientismo psichiatrico ha confinato la conoscenza del mondo della vita.
Chiuso entro i propri rigidi paradigmi, il convenzionalismo epistemologico psichiatrico non ha saputo oltrepassare i suoi confini classici, lasciando inalterato l’assunto dell’io che comprende il mondo sulla base di fondamenti indiscutibili. Il progressivo sfaldamento dei paradigmi storici che hanno uniformato e immobilizzato le esperienze psichiche in una nomenclatura sistematica (chiarificatoria solo in apparenza), ha messo a nudo la limitatezza di una impostazione che lascia i fenomeni senza nome, le sindromi senza cura, gli uomini senza ascolto. L’oscillazione dell’attuale dibattito psichiatrico tra i concetti di categoriale e dimensionale, di items e spettro, di continuum e quantum, mostra la debolezza teorica di una sapere che non riesce a vedere oltre se stesso. All’apice della crisi e in fondo ai suoi paradigmi, resta il teatro della soggettività autocentrata (secondo la bella definizione di Aldo Giorgio Gargani) di un sapere che pretende di descrivere le pathogeografie della presenza senza dire nulla di sé stessa. Certo, con l’occhio che guarda, descrive e cataloga, la psichiatria ha costruito una nomenclatura che ha catalogato (e segregato) la molteplicità, ma questo è stato anche il gesto che l’ha perduta.
Compito della psicopatologia non è di rispecchiare le cose descrivendole, ma quello di condurre il pensiero fino ai limiti remoti dell’esistenza: anche a costo di mettere a rischio le solidarietà segrete che essa - anche in certe declinazioni antropofenomenologiche - ha intrattenuto con lo scientismo che dichiarava di avversare. Molte cose, però, stanno mutando. La dissoluzione del fantasma dell’unità-identità, il crollo del modello piramidale dell’io, l’estinguersi di una grammatica psichica che vedeva «(...) nel vuoto del soggetto la prova irrefutabile di una logica puramente riflessiva dell’interiorità» (Montaleone,1998), lasciano in eredità un paesaggio certo confuso e frammentario, ma non per questo infecondo. Il discorso psicopatologico ritorna come senso e valore in sé, possibilità di aperture inedite, piano di letture molteplici. La frantumazione dell’unità-identità-totalità (in tanti pezzi quanti sono i punti di vista delle diverse discipline: farmacologico-recettoriali, cognitivo-comportamentale, sociologico-riabilitative) richiede, ora, l’uscita dai convenzionalismi formalizzati, la capacità di gettare le ancore in acque buie e sconosciute, il coraggio di un movimento copernicano che dia dignità epistemologica (oltre che di “cura”) a quelle parti dell’esistenza in apparenza prive di senso, contraddittorie, “irrazionali”: quegli “esistenti” che la psichiatria - come scienza panottica delle passioni - ha tenuto per lungo tempo ai margini. [...]
Riproporre la visione fenomenologica applicata alla psicopatologia clinica in un tempo in cui trionfano importanti indirizzi conoscitivi e terapeutici - come, ad esempio, quelli psicoanalitico, cognitivista, sistemico-relazionale - significa sottolineare indirettamente anche i rischi insiti nell’assunzione acritica delle griglie nosografiche della psichiatria diagnostico-statistica. A rendere evidenti tali rischi non è solo la perdita - già di per sé inestimabile - di un modo singolare e irripetibile di guardare alle cose, ma anche la progressiva restrizione degli spazi di libertà del singolo clinico: che sono poi quelli della sua capacità (assolutamente non standardizzabile), di vedere, di toccare, di sentire. Ormai è a tutti chiaro che il significato dell’evidenza sensibile - cioè la verità del caso singolo attinta direttamente e semplicemente mediante i propri sensi - rileva di fatto sempre meno importanza in ambito clinico, per non dire addirittura che non è quasi più contemplata. Tutto ciò appare non solo teoricamente ingiustificato, ma anche lesivo dell’autonomia del clinico nel suo incontro con il malato. [....]
Se sono evidenti le differenze tra questa impostazione e le procedure della scienza ufficiale (su cui la stessa medicina “scientifica” si regge), non meno evidenti sono le prossimità di questo sguardo attraversante e costituente con lo sguardo del pittore, del fotografo, del narratore, del poeta. Il loro sguardo sull’oggetto (sul corpo) re(i)stituisce il mondo come essi lo vedono. Non può esservi pregiudizio nel definire artistico lo sguardo che dona se stesso al mondo, che lo mette a nudo e, al tempo stesso, lo trascende. Quello sguardo, infatti, anche quando svela a tutti un altro segreto del mondo, non ne è mai l’esatta riproduzione. Anche per queste ragioni, il movimento fenomenologico nasce come una costellazione di sguardi, una theoria di visioni. Sono visioni quelle che ogni fenomenologo, eterno e solitario viaggiatore, costituisce nel manifestarsi e nel sempre ulteriore differirsi del mondo. Come uomo diverso da tutti gli altri e sempre diverso da se stesso, egli produce sempre nuove e discordanti visioni di sé.
Ma come può questa filosofia dello sguardo che ombreggia fatti e uomini far parte del bagaglio concreto di uno psichiatra? Da sempre, il luogo elettivo - insieme logico e fisico - della clinica è l’incontro con il malato. L’incontro clinico di uno psichiatra, di uno psichiatra qualsiasi, con un altro uomo, è nei più svariati contesti un momento sempre intriso di valenze diagnostiche, terapeutiche ed etiche. Ma, prima di tutto, è un momento che apre a una dimensione conoscitiva altra, a un altro segreto del mondo. Scegliamo, qui, il termine “conoscitivo”, anziché quello scientifico, per due ragioni essenziali: perché la scienza rientra a pieno titolo nel discorso più generale della conoscenza e, inoltre, perché quest”ultimo è oggi connotato in senso fortemente riduzionistico. La differenza conoscitiva radicale della psichiatria con la medicina organicistica (per quanto avanzate siano le tecnologie strumentali e di laboratorio) risiede nel fatto che essa concentra ancora tutte le proprie valenze sull’osservazione clinica.
Cosa accade nel momento in cui questi due uomini, lo psichiatra e il malato, incontrandosi, parlano? Qual è il senso delle cose che condividono, che (si) dicono, che dicendo intenzionano e che intenzionando costituiscono? Quale linguaggio usano? Quali sono gli strumenti di validazione delle cose che essi asseriscono? Ma, più di tutto, come può costituirsi un discorso scientifico a partire dai fasci di emozioni che corrono da una parte all’altra di questo insieme? La psichiatria si interroga da oltre due secoli su questi problemi, senza esser capace di risposte definitive. é fuor di dubbio: l’orizzonte di conoscenza aperto dall’incontro tra due uomini eccede, di gran lunga, l’ambito clinico e investe sfere di natura antropologica, sociale e politica. Se, tuttavia, limitiamo il discorso all’ambito clinico, allora il territorio della psichiatria ci si schiude in tutta la sua profondità: che lo si chiami incontro, visita, colloquio, setting, seduta, intervista, gruppo o comunque lo si voglia indicare. Solo in questo particolare contesto - misura stessa della psichiatria clinica - vi è una forte dislocazione di senso sulla figura del medico. Al confronto, le altre discipline impallidiscono. Qui, l’esposizione umana dello psichiatra è inversamente proporzionale al suo equipaggiamento tecnico. La presenza di apparati o procedure schermanti non è sufficiente a proteggere o coprire l’operatore nella sua essenza umana. Al di là di ogni schema mentale e di ogni tecnica appresa, in questo contesto più di tutto vale la splendida espressione di Paul Ricoeur: diventare un recettore vivente dell’altro. [....]
La psicopatologia deve ripartire da se stessa, senza temere scandali. Anzi, facendo dello scandalo il proprio punto di forza, il proprio gesto di libertà. Questo vuol dire, innanzitutto, rimettere in questione i suoi stessi assunti cardinali di superficie e profondità. Appare non più plausibile, infatti, ridurre le interazioni dinamiche della psiche ad una ermeneutica della “superficie” e, per converso, a una retorica della “profondità”. Si tratta di pensare un”altra “profondità”, con tipologie e topologie radicalmente diverse. Una “profondità”, per così dire, trasfigurata nella superficie, che diviene, essa stessa, superficie “per profondità”. La fine di ogni paradigma unitario assegna alla psicopatologia fenomenologica un suo naturale “spazio di differenza”. Non di una differenza come scorciatoia dialettica tra due cose. O, secondo la ben nota tesi heideggeriana, come differenza ontologica tra essere e ente: un siffatto concetto di differenza annulla le opposizioni che pretende di com-prendere. é un”altra idea della differenza: una differenza, appunto, come spazio senza mediazioni e senza comunioni, senza nulla che lo sostenga, esposto, ben oltre Dietrich Bonhoeffer, al fallimento dell’io nel mondo.
In tal senso, l’affermazione di Gaetano Benedetti - «la psichiatria è rimasta incagliata nel dramma concettuale dell’unità dell’uomo» - ritorna e ci interroga da un altro versante. Con Benedetti, ci chiediamo, infatti: perché mai il pensiero psicopatologico dovrebbe ancora, dogmaticamente, assumere a proprio fondamento l’unità e la coesione della psiche? Perché mai riprodurre la bimillenaria aporia dell’unità-identità - che come ha osservato Franz Rosenzweig in Stern der Erlösung ha animato la «comunità dei filosofi dalla Ionia fino a Jena» - costituendosi ancora una volta contro la molteplicità? Perché mai soggiacere alla logica che nulla riconosce all’infuori di sé e a cui é estraneo il rapporto con l’altro? Da questo vicolo cieco non si uscirà, certo, rinnovando generici gesti intersoggettivi di “fusione costruttiva”. Anche forzando il discorso razionale fino ai suoi esiti estremi, l’altro e suoi differenti nomi resterebbero un enigma, la traccia di qualcosa di imprendibile e sovrastante. é tempo di riconoscere che nessun discorso sull’alterità (e dell’alterità) potrà mai darsi senza rimettere in questione le segrete solidarietà che, per lungo tempo, la fenomenologia classica - attraverso i concetti di Erlebnis (esperienza vissuta) e Erfahrung (fare esperienza) - ha intrattenuto con quel soggettivismo che ha dichiarato di avversare. Permanere, infatti, ancora in quel medesimo orizzonte metafisico - dove il cogito (la certezza dell’io) e l’esperienza vissuta (la forma fondamentale dell’essere-uomo) si toccano - vuol dire compromettere la possibilità stessa di un pensiero radicale. A sollecitare questa chiarezza non è solo la difficoltà teorica di ridurre l’altro e il mondo al giudizio del fenomenologo. é soprattutto l’incertezza, l’esiguità del materiale di queste convenzioni. La riduzione fenomenologica, nelle sue estreme conseguenze, se non è investimento esistenziale nel sé, se non è un”esperienza radicalmente altra da un gesto teorico di definizione della soggettività - è solo un altro atto di violenza contro l’esistente. Solo un gesto pienamente libero, può garantire l’autonomia dell’incontro. Restar incerti e indecisi su questo terreno, significa esporre l’incontro a un rischio mortale. Dalla decisione di guadagnare questa libertà, di rinunciare a governare la vita mediante altri gelidi intellettualismi, scaturiscono il percorso e il discorso dell’incontro.


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