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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

Sulla Psicopatologia:

caute riflessioni di uno psichiatra che non disdegna la psicoanalisi,
di uno psicoanalista che non disdegna la psicopatologia

di Fausto Petrella


Introduzione (a cura di Mario Rossi Monti)

Questo articolo del prof. Fausto Petrella è già stato pubblicato dalla rivista "ATQUE. Materiali tra Filosofia e Psicoterapia" in un numero dedicato alla psicopatologia (Ancora la Psicopatologia?, n.13,p.155-178, 1996). E' un lavoro che ripropongo nel tentativo di valorizzare le interazioni tra la psicopatologia fenomenologica e psicoanalisi, che vivono, come scrive Petrella, nella condizione di "separati in casa"; in esso infatti vengono discusse - dal punto di vista di "uno psichiatra che non disdegna la psicoanalisi" e di "uno psicoanalista che non disdegna la psicopatologia" - le posizioni di Gerd Huber, Gisella Gross e della Scuola di Bonn che ha elaborato, in questi ultimi anni, il modello dei sintomi base nello studio della schizofrenia.

Si ricorda che sono disponibili in Italiano i due strumenti messi a punto dalla Scuola di Bonn per la valutazione dei sintomi base: Stanghellini G., Ricca V., Quercioli L., Cabras PL. (a cura di): FBF - Questionario dei Sintomi-Base, Organizzazioni Speciali, Firenze,1991; Maggini, C., Dalle Luche, R. (a cura di): BSABS. Scala di Bonn per la valutazione dei sintomi-base. ETS, Pisa 1992.

Una discussione delle proposte avanzate dalla Scuola di Bonn si è svolta in occasione del Congresso inaugurale della Società Italiana per la Psicopatologia (Il Senso della Psicopatologia, Firenze, 23 marzo 1996). Gli Atti di quel Congresso sono stati pubblicati dalla Rivista "Psichiatria Generale e dell'Età Evolutiva", 34, 1997.

Ringrazio per il permesso di riprodurre questo articolo il prof. Petrella, il prof. Paolo Francesco Pieri (Direzione della Rivista "ATQUE") e Moretti e Vitali Editori.



Vorrei prendere l'avvio da un notevole scritto di Gerd Huber e Gisela Gross (1995), che sintetizza i criteri psicopatologici che li hanno guidati nella loro lunga ricerca su ciò che hanno chiamato "sintomi-base" della schizofrenia, per fare alcune considerazioni generali sullo stato attuale della psicopatologia.
Così facendo esprimerò sinteticamente, spero nel modo più esplicito, le mie posizioni odierne verso la psicopatologia, intesa come disciplina fondamentale per la psichiatria, ma rispetto alla quale esiste, ormai da molto tempo, una innegabile situazione di crisi.
Tenterò anche di dire in quale senso - sulla scorta di Jaspers - ritengo invece indispensabile la psicopatologia, e per quali ragioni mi appare manifesto un suo deperimento, da considerarsi negativo e preoccupante. Un certo numero di psichiatri italiani, che condivide questa preoccupazione, ha deciso di avviare recentemente su tutto il problema una sistematica discussione all'interno di una nuova associazione scientifica, la Società italiana per la psicopatologia. Questo scritto può essere considerato una tessera molto parziale di un auspicato ed esteso dibattito sulla psicopatologia.
Ma quale psicopatologia?
Anche Gross e Huber (1993) si ponevano un'identica domanda, nel loro scritto intitolato interrogativamente: <<Abbiamo ancora bisogno di una psicopatologia? E se così fosse, di quale psicopatologia?>>.
Una simile domanda è così radicale e indiscreta, da costringere a dichiarare le proprie posizioni. Se non vi fossero posizioni eterogenee e differenziate, nonché pratiche sostanzialmente dissimili da luogo a luogo, direi da istituzione a istituzione e addirittura da psichiatra a psichiatra, certo non vi sarebbe motivo per pensare un simile interrogativo. Il nesso fra le pratiche attuate e il modo di concepire l'oggetto della psichiatria è ovviamente qui della massima importanza.
Huber e Gross forniscono una risposta positiva alla loro domanda, attestata dalla loro lunga e innovativa ricerca sulla schizofrenia, nel solco della più qualificata tradizione psicopatologica di lingua tedesca. La dottrina dei sintomi-base e la interessantissima scala "soggettiva" di valutazione che propongono, rilanciano su basi originali e nuove l'istanza osservativa e l'oggettivazione di fatti significativi, che sono alcuni degli intenti principali dell'atteggiamento psicopatologico. Nel loro caso i fatti notevoli che mirano a rilevare non sono comportamenti, ma vissuti che vengono autoosservati dai pazienti stessi. È quindi una nuova dimensione che essi propongono al paziente di oggettivare in se stesso, più intima, più aderente alla lettera della comunicazione del paziente, più prossima all'esperienza aspecifica della sua vulnerabilità. Questa parola - vulnerabilità - è stata giustamente evocata dagli attenti commentatori italiani della ricerca di Huber e Gross (Ballerini e Rossi Monti, in Stanghellini, 1992), sottolineando che essa si avvicina assai più di altre a quel substrato nervoso che in qualche modo deve pur essere alterato in questi soggetti. Nello stesso tempo Huber e Gross dichiarano gli scopi della loro psicopatologia fenomenologica che si ispira direttamente a Jaspers: impiegare l'introspezione del paziente, l'empatia statica e la comprensione genetica dell'osservatore per <<produrre il movimento, la connessione e la continuità della vita psichica, non solo nello sviluppo psicopatico e nevrotico, ma anche, per quanto possibile, nelle psicosi>>.
Quando accenno a una crisi, non penso dunque a una crisi di Huber e Gross, e neppure a un mio disagio professionale eccedente. Ciascuno di noi ha un buon rapporto di continuità con i suoi padri spirituali e metodologici, e avverte di proseguire costruttivamente nella scia di una salda tradizione. E tuttavia mi sembra innegabile una difficoltà complessiva della psicopatologia e della psichiatria, intese sia come discipline scientifiche, sia come pratiche applicative, che dovrebbero riflettere un corpo di conoscenze sufficientemente solido e integrato. Esse rivelano invece al loro interno discordanze stridenti di vario genere. I riferimenti concettuali e i punti di vista comunemente attivati sono di solito troppo eterogenei per essere applicati convenientemente e concordemente a una realtà umana essa stessa troppo complessa.
Poiché la psicopatologia parla innanzitutto dello psicopatologo, sento preliminarmente il dovere di dichiarare qualche dato della mia storia professionale, non già per vanità, ma per situarmi e definire i miei punti di vista e di esperienza. La storia di ognuno è importante, ed è anche importante sapere chi è colui che parla, che tipo di psicopatologo è.
Dirò allora subito che il mio atteggiamento psichiatrico e clinico è stato sino dall'inizio fortemente influenzato dalla mia formazione psicoanalitica. La mia pratica psicoanalitica con i pazienti si è da sempre anche cimentata nella psicoterapia della schizofrenia e degli stati psicotici più gravi, talora (cioè non sempre!) con veri successi terapeutici. Proprio in quanto psicoanalista e psichiatra mi sono costantemente interrogato sui momenti di concordanza (e di discordanza) del lavoro psichiatrico sia con la psicoanalisi, sia con lo stile della ricerca fenomenologica: penso senz'altro alla fenomenologia di Jaspers, ma anche a Binswanger e a Minkowski, e in particolare ai filosofi che li hanno ispirati, tutti non medici, che hanno cercato di costruire una visione e una descrizione dell'esperienza umana, senza la preoccupazione, tipica nell'alienista, di stabilire se un definito modo d'essere e di sentire siano più o meno morbosi, siano cioè da imputare a malattie nel senso medico della parola, oppure siano declinazioni antropologiche legittime.
Ogni manifestazione umana, anche la più distorta, ha sempre molte ragioni d'essere. Il problema sta innanzi tutto nello stabilire su quale terreno porre queste ragioni. Dirò subito che non ritengo che sia il cervello, solo il cervello, il terreno da esplorare, per trovare i fondamenti di questa legittimità. Il cervello è l'organo della mente, ma l'esperienza umana, il modo d'essere di ciascuno, il suo Erlebnis, nella normalità o nella patologia lesionale più grave, non possono ridursi a espressione del cervello, comunque inteso. Anche se troviamo lesioni cerebrali, come nelle demenze, ciò che osserviamo nel comportamento e nei discorsi del demente non è mai il risultato diretto di queste lesioni. I mondi esperienziali dei pazienti vanno cioè immaginati, percepiti e compresi nella loro singolarità. Ciò richiede l'attivarsi di relazioni significative con i modi d'essere specifici d'ogni singola condizione morbosa, in connessione col proprio contesto e situazione. Solo a partire da questo sfondo diventa possibile definire la reale consistenza di una limitazione funzionale e la sua latitudine effettiva.
È per questo motivo che mi sono anche da sempre confrontato come psichiatra con la realtà microsociale della malattia mentale, così come veniva osservata non nello studio psicoanalitico, o nella riflessione fenomenologico-esistenziale o antropofenomenologica, ma in connessione con i quadri istituzionali della psichiatria, dei quali ho seguito e promosso gli sviluppi e i mutamenti, e in riferimento al gruppo familiare, al gruppo di discussione dei casi clinici nelle istituzioni e in rapporto con l'insieme sociale circostante nell'esperienza sul territorio. L'attenzione rivolta a questi aspetti non significa affatto che io sia fautore di una psichiatria e di una psicopatologia "brain-less": tutt'altro. Ciò non sarebbe possibile e neppure auspicabile, ovviamente. Anche se i maggiori rischi di fraintendimento stanno sicuramente nell'adottare oggi una psichiatria "mind-less", per usare le espressioni ricordate da Ballerini e Rossi Monti (1992).
Ho avuto infine (ma in realtà al principio) un'esperienza, protratta per alcuni anni, di assidua ricerca sull'attività nervosa superiore in varie condizioni morbose. Benché abbia abbandonato abbastanza presto questo tipo di ricerca fisiopatologica, essa mi ha permesso di confrontarmi praticamente con metodologie di indagine, che aspiravano ad essere obiettive e rigorose, applicate ai malati di mente. Ma ciò che mi apparve poco convincente e alla fine insoddisfacente in quelle mie ricerche giovanili fu proprio la cattiva conoscenza clinica di colui che veniva indagato, lo scarto che passava da un lato fra la persona esaminata, la sua insufficiente definizione clinico-sintomatologica, e dall'altro l'applicazione di queste metodologie obiettive, che rilevavano poligraficamente una serie di risposte somatiche, vegetative e comportamentali a vari tipi e sequenze di stimolazioni sensoriali e verbali. Per interrogare adeguatamente il cervello, dobbiamo porgli delle domande che non nascono dal cervello stesso, ma da comportamenti, situazioni e stati d'animo, inclusi quelli dell'esaminatore; e tutto questo richiede di essere pensato correttamente. Posso oggi solo dire che un fatto è certo: se avessi insistito e sviluppato questo tipo di ricerche, la mia stessa vita, la mia esistenza e anche il tipo di psichiatria che faccio sarebbero state molto diverse. Mi rendo anche conto che, precisando tutto questo, non ho comunque fornito alcun vero chiarimento sulla mia pratica effettiva con le psicosi.
La domanda radicale che Huber e Gross si pongono, <<Che bisogno c'è di una psicopatologia?>>, non sarebbe stata possibile ancora negli anni 50 e all'inizio degli anni 60, all'epoca cioè nella quale terminavo i miei studi medici e specialistici. La psicopatologia godeva allora di buona salute e di grande rispetto e prestigio, soprattutto in ambito accademico. E ciò perché: 1o La Psicopatologia generale di Jaspers, settima edizione, era stata tradotta in lingua italiana da Romolo Priori nel 1955. Precedentemente, chi non leggeva il tedesco poteva studiarla nella traduzione in francese di J.-P. Sartre e P. Nizan. 2o La prima traduzione della terza edizione della Psicopatologia clinica di K. Schneider fu disponibile in italiano grazie all'ottima versione di Bruno Callieri nel 1950, che curò anche due successive e diverse edizioni della medesima opera. 3o Una èlite di psichiatri si stava appassionando alla psichiatria antropo-fenomenologica soprattutto di ispirazione binswangeriana, che proponeva una visione nuova dell'esperienza dei malati. 4o Gli Études psychiatriques di E. Ey, e il loro spirito di grande correlazione interdisciplinare, all'insegna dell'osservazione clinica, vennero completati anch'essi in quegli anni. 5o Le Opere di S. Freud non erano ancora tradotte nella nostra lingua, se non molto parzialmente. 6o Era in corso a quell'epoca lo studio clinico diretto di pazienti psicotici da parte di un ristretto numero di psicoanalisti, che contraddiceva l'assunto freudiano dell'inaccessibilità alla terapia psicoanalitica delle grandi psicosi endogene. 7o Stava sviluppandosi in quegli anni la psicofarmacologia e la terapia neurolettica e antidepressiva delle psicosi. 7o Infine, una vasta letteratura, soprattutto americana, mostrava l'ibridazione in atto tra psicoanalisi e psichiatria, di cui è testimonianza il voluminoso trattato di psichiatria curato da S. Arieti.
Tuttavia mi accorsi ben presto che anche allora - dobbiamo oggi riconoscerlo - le più alte espressioni del sapere psicopatologico giacevano inoperose nei libri, inclusi quelli psicoanalitici, di dubbia utilità se non veniva attivata l'esperienza psicoanalitica, o almeno qualcosa che le assomigliasse.
Mentre le pratiche reali della psichiatria dell'epoca, delle quali è difficile gloriarsi nella stragrande maggioranza dei casi, avvenivano all'insegna di un empirismo diagnostico e operativo in genere grossolano. La psicopatologia non serviva a migliorare le cose. Molti psichiatri estraevano sbrigativamente proprio dalla psicopatologia jaspersiana alcune parole d'ordine demoralizzanti e demotivanti, come l'essenziale incomprensibilità delle psicosi endogene e del loro fondamento primario, nonché la nozione di processo. La processualità "organica", non veramente dimostrata e conosciuta, era una vera credenza, che rispondeva positivamente ai punti interrogativi che Schneider aveva posto nella sua tabella classificatoria delle malattie mentali: le psicosi endogene andavano considerate come vere malattie, anche se non ancora definite sul terreno somatologico, e non malattie "come se" o fenomeni solo apparentemente morbosi come tutto il resto.
L'enfasi su questi termini jaspersiani andava nella direzione di una facile e teoricamente accreditata giustificazione, o legittimazione, dell'atteggiamento di desistenza clinico-terapeutica verso gli psicotici, sino all'abbandono affettivo e al disinteresse per i ricoverati. Non insisterò nel descrivere dettagliatamente l'estensione e gli effetti nefasti di questo disinteresse pratico, giustificato con argomenti biologici e psicopatologici di principio. Tutto questo si intreccia con la storia delle istituzioni psichiatriche, certamente in Italia, ma anche nelle società civili europee ed extraeuropee.
Questo stato di cose ha contribuito sicuramente a gettare un discredito sulla psicopatologia e a giustificare i movimenti critici di rigetto di queste forme di sapere, soprattutto tra i giovani psichiatri, aprendo uno spazio di considerazione psicologica e sociale dei pazienti. Anche questo spazio ha mostrato tuttavia, nel corso degli anni, limiti e insufficienze d'ogni tipo. La considerazione della dimensione psico-sociale della psichiatria ha tuttavia modificato molte cose, almeno nel nostro paese e a giudizio di molti, senza comunque veramente risolvere il problema.
Ma non vorrei insistere su questo cattivo uso di Jaspers, che mi sembra soprattutto un interessantissimo fenomeno sociologico.
Se invece vogliamo, come è giusto, mettere l'accento sui meriti di K. Jaspers, si deve riconoscere alla sua Psicopatologia generale di aver sottolineato, con grande forza e con assoluta chiarezza, l'esigenza di una sistematica e incessante riflessione sui linguaggi della psichiatria, sui suoi procedimenti logici e scientifici, sul significato delle partizioni sulle quali fonda il suo sapere. Se, sollecitato da Huber e Gross, che a Jaspers si riferiscono in maniera esplicita, dovessi dire ciò che per me è ancora vivo dell'opera psichiatrica jaspersiana, mi esprimerei tuttavia in termini più limitativi e al tempo stesso più generali rispetto a loro.
Condivido profondamente l'opinione di Huber e Gross che anche nelle psicosi esiste un'ampia possibilità di comprensione, che l'elemento biografico sia importante, assai più di quanto ammettessero la psicopatologia classica e anche l'antropologia fenomenologica.
Anch'io non penso a una eterogeneità insormontabile dello schizofrenico, anche se il comprenderlo veramente, partecipando radicalmente alla sua esperienza, può essere straordinariamente difficile.
Tuttavia metterei anche Jaspers fra i fautori di questa impostazione classica. Non valorizzerei allora tanto le sue proposte ordinatrici, non il formalismo astratto delle sue descrizioni, e neppure il suo modo di intendere la nozione di Einfühlung, che Jaspers derivò da Dilthey, con la connessa comprensione statica e genetica. Mi sembra - leggendo Huber e Gross - che essi vadano oltre Jaspers stesso, più di quanto ammettano e si avvicinino veramente ai loro pazienti, anche quando hanno di mira non la loro persona, ma proprio la loro malattia. Almeno: questa vicinanza mi sembra la scommessa dei loro sintomi basali.
Mi sia qui consentita una digressione a proposito della psicopatologia jaspersiana. Lungi dall'essere una categoria, una sorta di a priori dell'umano, l'Einfühlung, l'immedesimazione, l'entropatia, si rivela un momento problematico, soprattutto di fronte alla difficoltà, all'urto contro l'ostacolo della non comprensione, che pure è un dato di fatto nell'esperienza con la psicosi. È proprio la "sfera di comunanza", il "ritrovamento dell'io nel tu", che per Dilthey stanno a fondamento dell'Einfühlung, che sembrano perduti o compromessi a un certo punto nella malattia mentale. Qui il comprendere e l'immedesimazione subiscono uno scacco, sul quale Jaspers ha a lungo ragionato. Dinanzi a quest'urto, al "muro" dell'incomprensibile, la consapevolezza del clinico dovrebbe prestare attenzione alle opzioni di fondo che si attivano nei suoi procedimenti. Occorrerebbe sapere dove, come e quando inizia ciò che ci appare come sintomo, come il sintomo viene differenziato da ciò che dobbiamo considerare esperienza ordinaria e pienamente comprensibile, date certe forme di vita in specifici contesti d'esistenza.
E poi: di cosa è sintomo il sintomo? Ricordo con fastidio certe pagine del saggio di Jaspers su van Gogh, quando il grande medico e filosofo cerca, arrancando sugli specchi, di correlare l'ultima, straordinaria fase della pittura dell'artista alla sua malattia, della quale sarebbe espressione, e quanto appaia invece più vicino all'artista e all'uomo il folle Artaud nella sua comprensione emotiva e identificativa con lui. Allo psichiatra è richiesta almeno un po' della follia di Artaud, che a van Gogh dedicò uno studio di sconvolgente acutezza, se vuole intendere qualcosa del dolore psichico e delle sue vicissitudini espressive e comportamentali.
Non sappiamo quanto Jaspers ascoltasse veramente i pazienti. Molti dei fenomeni che egli cita e descrive nella sua opera sono derivati da auto-descrizioni di folli-che-scrivono, anziché da contatti personali. E il teatro della scrittura non può essere certo assunto come l'espressione diretta di una manifestazione morbosa che ivi viene descritta e che viene presa per buona e autoevidente. Anche gli elementi autobiografici ai quali la correliamo, sono comunque da interpretare. Alcuni folli "storici", i cui discorsi Jaspers utilizzò per le sue descrizioni, hanno suscitato del resto dibattiti diagnostici e contrasti interminabili fra gli psichiatri dell'epoca, dibattiti ora caduti nell'oblio.
Sarebbe troppo lungo analizzare il procedimento col quale Jaspers contrappone il comprendere allo spiegare, l'intuizione alla causalità. Tuttavia qualche accenno va fatto. Jaspers non vuole rinchiudere la malattia mentale in schemi esplicativi, e si sforza invece di prospettarla nel quadro complessivo dell'esistenza. Chi è capace di comprensione psicologica, è in grado di partecipare ai contenuti psichici, immagini, figure, simboli, ai fenomeni espressivi e vissuti nei quali tali contenuti si estrinsecano, alle relazioni genetiche fra questi fatti vissuti e ai loro documenti oggettivi. Tuttavia, a un certo punto, ci si può urtare nel muro dell'incomprensibile.
La risposta jaspersiana è: dove non vi è coscienza non c'è nulla da comprendere. Ma occorre anche qui compiere delle faticose distinzioni. È una caratteristica della coscienza guadagnare terreno, procedendo al di là dei suoi limiti. Da questo inconscio, inteso come "inosservato", ma suscettibile di essere rischiarato dalla comprensione, va secondo Jaspers distinto l'inconscio extracosciente, che è non comprensibile in linea di principio. Di fronte ad esso la comprensione cede.
L'extracosciente è da Jaspers trattato in due differenti direzioni. Da un lato nel corpo e nei suoi meccanismi, che costituiscono un limite al comprendere della coscienza. Qui non c'è niente da rischiarare, ma solo da indagare ad opera delle scienze empiriche. Dall'altro <<l'incomprensibile sta nell'esistenza>>. Così dicendo, Jaspers intendeva, io credo, affermare che dall'esistenza procede la possibilità di comprensione dell'uomo, ma l'esistenza come tale non può essere compresa. Essa è un fondamento inesplorabile, che sta all'origine della libertà dell'uomo.

Jaspers mette in guardia dall'idea che un allargamento della comprensione si possa ottenere, ipotizzando meccanismi psichici in azione, "come se" questi fossero coscienti. La comprensione "als ob" era per lui solo un'ipotesi. Per Jaspers, Freud era un campione di questo tipo di comprensione. <<Freud si paragonava a un archeologo che da frammenti interpreta opere umane>>. <<La grande differenza - commentava Jaspers - sta solo nel fatto che l'archeologo interpreta ciò che è stato, mentre nel "comprendere come se" è molto dubbia proprio la reale esistenza di ciò che è stato compreso>>. Resta il fatto che comprendere come se meccanismi extracoscienti fossero in azione, come se esistesse una volontà inconsapevole che agisce all'insaputa del soggetto, oppure prendendosi cura del non senso apparente di certe proposizioni e comportamenti, permette di configurare i fenomeni in quel mobile confine dove si decide il limite del nostro comprendere. Solo il protratto incontro e scambio tra persone permette di vedere il muro come una difesa, che si costruisce non solo da parte del paziente, ma anche e soprattutto da parte dell'osservatore.
La discussione che Jaspers fa nella sua psicopatologia sui limiti del comprendere consegna insomma allo psichiatra un problema centrale della psicopatologia. L'ammissione lucida dell'impotenza conoscitiva trasforma il riconoscimento dei limiti in forza etica del pensatore e conferisce potere a chi sa riconoscere la limitazione, rispetto a chi la nega, al punto che Jaspers dirà orgogliosamente, enunciando questa per lui costitutiva limitatezza: <<La psicoanalisi è rimasta cieca dinanzi a tutti questi limiti. Essa voleva comprendere tutto>>. La nobile arbitrarietà di questo modo di procedere è a mio avviso evidente. Infatti niente può stabilire con sufficiente precisione i limiti tra comprensione, spiegazione e incomprensione. Ogni sguardo che si serve di mediazioni teoriche o di modelli è da lui guardato con diffidenza. È lo sguardo stesso che i massimi pensatori del nostro tempo avrebbero più acuto e profondo di altri. Di questa penetrazione, per Jaspers, erano capaci Kierkegaard e Nietzsche, ma non Freud e la psicoanalisi, che vennero visti da Jaspers come forme degradate e popolari di sapere psicologico, concezioni (metaforicamente parlando) a portata di tutte le borse, che avevano divulgato e degradato la comprensione dei grandi psicologi a formule e teorizzazioni banali. Jaspers rifiuta decisamente e con acredine l'attitudine interpretativa di Freud: egli voleva comprendere o capire tutto, senza rendersi conto che l'incomprensibile ci avvolge da ogni parte, nel nostro corpo e nella nostra esistenza.

Ciò non significa per Jaspers una rinuncia ad approfondire e rischiarare sempre più l'esperienza mediante la comprensione. Quando egli tratta, per esempio, delle forme fondamentali della comprensibilità, nascono pagine memorabili e a torto dimenticate dall'odierna psicopatologia, restando sempre sul terreno del linguaggio e di un autentico descrivere, contro ogni ipotesi empirica e postulato scientifico, per restare aderente a tensioni spirituali che ciascuno può afferrare come tali dentro di sé.
L'esempio più significativo di questo modo rischiarante, che affida a una descrizione persuasiva e aperta una comprensione profonda e indomita, che evita di "spiegare", non è secondo me offerto tanto da Jaspers, quanto da un autore come Elias Canetti. Questi, in Massa e potere (1960) ci ha dato esempi importanti di autentica e profonda descrizione comprensiva, costruendo una acutissima psicopatologia sui generis, che si serve di una descrizione interpretante.
In Jaspers le polarità entro le quali viene colta la dialettica dei contrasti spirituali restano stranamente vuote di contenuti, quando afferma per esempio: <<Sul piano fisiologico esistono la convulsione e il collasso e la salute, che non è mai né l'uno né l'altro; nell'animo esistono l'irrequietezza e la fiacchezza, la testardaggine e la mancanza di inibizione, e la volontà chiara e aperta che non cede a questi contrasti>>.
Questo genere di astrazioni rischia il vuoto e l'assolutizzazione di termini che hanno un senso preciso solo se concretamente determinati. Procedendo in questo modo, tali termini assomigliano pericolosamente a giudizi di valore, che chiudono senza possibilità di appello l'opportunità di interrogarsi ulteriormente sul senso, poniamo, della testardaggine. Essa è qualcosa di ultimo. Naturalmente può esservi anche il pericolo opposto: quello di far sparire completamente questi giudizi e unificare "testardi" e non testardi, in nome del fatto che esiste in tutti un fondo comune e inconscio, che è tale per ogni essere umano. Jaspers non corre questo rischio, perché per lui la comprensione urta contro "il carattere empirico congenito", e questo è "immodificabile e impenetrabile" come l'essenza del delirio. Così Jaspers può dire: <<Gli uomini non sono nati uguali, ma virtuosi e volgari in diverse gradazioni e in diverse dimensioni>>. Mi sembra che affermare per principio queste differenze qualitative di fondo sia gratuito e preclusivo. Si scoraggia così una ricerca personale e individualizzata sulle origini complesse di queste differenze e si esclude la possibilità di penetrare a ritroso in una chiarificazione della genesi di questi orientamenti personali. Il "muro", anziché essere rilevato dal ricercatore al termine del suo lungo andare, viene in qualche modo eretto prematuramente da lui stesso. Ma così al viandante appare subito inutile mettersi in viaggio. Siamo inoltre certi che egli si mette dalla parte dei migliori.
Sta anche in questa impostazione il divorzio e l'attrito fra psicopatologia e psicoanalisi, che ha determinato reciproche incomprensioni e, nei casi migliori, la condizione di separati in casa.
Per la psicoanalisi, e a differenza di Jaspers, il muro e l'ostacolo alla comprensione sono qualcosa che non ha nulla a che vedere con un postulato filosofico - la contropartita morbosa della comprensibilità diltheyana - o con la trasformazione di una difficoltà conoscitiva in principio di incomprensibilità. Certo di fronte all'ostacolo ci si ferma, ma occorre interrogarsi su di esso: anziché valorizzarlo, intenderlo. Così facendo la psicoanalisi ha scoperto che un certo numero di ostacoli era costituito da resistenze del paziente, attive e inconsapevoli, verso chi cercava di penetrare pericolosamente nell'intimità personale. E poi verificava resistenze presenti nello stesso ricercatore, un suo accecamento di fronte a un limite non più ontologico, ma personale, che impediva di andare oltre. E quindi come opacità del paziente a se stesso, considerata come un processo specifico di limitazione dello sguardo consapevole, dalle molteplici fonti. E ancora come un alterazione del gioco comunicativo, che poteva avere le sue origini in difetti e incapacità sia dell'emittente sia del ricevente il messaggio e a vari livelli dell'atto comunicativo. I motivi delle difficoltà sono molti.
Ma soprattutto si richiedeva un diverso impiego di energie da parte dello studioso: non bastava lo spazio-tempo della visita tradizionale, la finalizzazione diagnostica di qualche breve scambio, così come non si sarebbe mai scoperto nulla in archeologia senza lunghi e pazienti lavori di scavo. Solo così facendo, si poteva raggiungere quel limite, oltre il quale scavare non avrebbe più avuto senso, perché non c'era più nulla di significativo da trovare o perché si era giunti al fondo roccioso che costituisce un limite invalicabile. Proprio perché si è scavato, questo fondo roccioso non è più lo stesso limite al quale Jaspers si riferiva con la nozione di incomprensibilità. Egli vedeva subito questo ostacolo, gli sembrava immediatamente insensato scavare dove esistevano solo frammenti insignificanti o il fondo roccioso del corpo biologico, e preferiva assolutizzare questa difficoltà, piuttosto che praticarla.
Oggi gli psicoanalisti hanno imparato, dopo parecchi decenni di scavi, che non è né utile né opportuno soltanto scavare nelle psicosi. O perché il terreno non lo consente. O perché, anche senza scavare, il dissesto psicotico del terreno psichico permette un'archeologia di superficie; o soprattutto perché il terreno richiede argini e forme di contenimento, baluardi e sostegni, anziché trivellazioni e esplorazioni in una profondità che eventualmente deve prima essere prodotta, a partire da una frammentazione catastrofica, prima di diventare praticabile. La frammentazione può essere pensata in molti modi. C'è la frammentazione del vetro, anisotropo e senza struttura, senza senso, senza forma e senza "mondo". Ad essa corrisponde il terrore del licenciado Vidriera, del racconto di Cervantes, che si sentiva di vetro e temeva di andare in frantumi. Oppure esiste la frammentazione dell'Io, inteso come un cristallo, che spezzandosi rivela le sue linee di sfaldatura, cioè una struttura precisa, come voleva e vedeva Freud.
Occorre prestare molta attenzione al momento in cui - come Gross e Huber affermano - la psicopatologia si compromette con la nosografia, con l'idea del morboso, come è richiesto al clinico. Si tratta di momenti che attivano scelte teoriche, opzioni di carattere fondazionale, che finiscono per avere importanti ricadute su tutto il modo di considerare la psicopatologia e la prassi clinico-terapeutica con il paziente (Civita, 1996).
Proprio al fine di mantenere aperta la comprensione, le cautele nosologiche, e antinosologiche, non sono mai troppe. Forti della lezione di K. Schneider, Huber e Gross ci ricordano che le psicosi endogene sono solo convenzioni diagnostiche provvisorie, che fenomeni considerati primari o patognomonici non hanno poi tutta quella specificità che a loro tende ad attribuire l'istanza nosografica, e che una diagnosi intesa in senso stretto non è possibile. Mentre i segni della vulnerabilità si possono trovare in uno strato non apparente dello psiche-soma, in quel tratto ancora misterioso che li unisce.
Quando viene fatto al medico di evocare una processualità patologica, che induce ad attivare l'indagine sul cervello e fa spostare lo scenario osservativo dal dialogo clinico e dall'osservazione partecipe - con la sua aleatorietà, coi suoi momenti comprensivi-interpretativi, di intesa e di fraintendimento, di appaiamento, identificazione, eccetera - verso il modello di una malattia cerebrale, colta a un qualche livello del funzionamento cerebrale, noi compiamo un atto gravido di conseguenze cliniche. Esso è un atto dovuto, e tuttavia non mi so rassegnare e ritengo sostanzialmente erroneo un atteggiamento che ragiona sul malato essenzialmente in termini neurodinamici, quasi-lesionali, di fronte alle sue manifestazioni psicopatologiche. O che si limita a finalizzare la sua esperienza con il paziente all'individuazione delle specificazioni del DSM.
Le ricerche di Huber e Gross hanno contribuito a far giustizia di molte idee preconcette sul decorso della schizofrenia così come ci era stata indicata dalla tradizione di Kraepelin. Molte manifestazioni che erano state valorizzate da Bleuler e da Schneider come necessarie per la diagnosi si sono rivelate inadeguate: certi sintomi, che siamo abituati a considerare come l'espressione immobile di una processualità, sono in realtà caduchi e si trasformano con facilità in qualcosa d'altro, come sa bene chi tratta queste malattie con interventi relazionali o situazionali.
Torniamo dunque alla più profonda lezione di Jaspers, a quello che ancora positivamente ci insegna. Egli ci ha invitato a pensare profondamente a ciò che quotidianamente facciamo e a come lo pensiamo, al di là delle soluzioni e delle distinzioni che egli proponeva. A Jaspers dobbiamo la grande spinta di un tono intrepido nella percezione della serietà e complessità del compito conoscitivo in psichiatria e nella presa di distanza critica da un atteggiamento metodologicamente ignaro, poco consapevole dei suoi limiti, kraepelinianamente ipersicuro. Troppo preso dal problema pratico di fornire delle risposte concettuali e operative, troppo pronto a isolare sintomi, a ritagliare nel magma della sregolazione del pensiero, nel disordine delle passioni, delle figure caratteristiche e ricorrenti, da considerare malattie o quasi malattie.
Il maggiore significato della Psicopatologia generale mi sembra dunque consistere non tanto nelle sue proposte ordinatrici, nelle distinzioni fra comprendere e spiegare, nel suo stile descrittivo, nel suo comprendere che si imbatteva troppo facilmente nei limiti del comprendere, ecc., quanto nell'aver affermato la necessità per lo psicopatologo di un'apertura riflessiva e metodologica illimitata: l'accento va oggi posto a parere mio energicamente su questo significato generale della psicopatologia generale, che rappresenta secondo me il suo insegnamento più autentico. Un significato generale indubbiamente problematico, e che non chiamerò "perenne", per evitare un'enfasi che mi sembra contraddetta dall'oblio di queste istanze, che osserviamo in continuazione in noi stessi e certamente con maggiore facilità in tanti colleghi.
Il declino degli interrogativi psicopatologici di fondo, produce la domanda di Huber e Gross: abbiamo ancora bisogno di una psicopatologia e quale? Essa testimonia, per il fatto stesso di venire formulata, l'esistenza di un dubbio, avvalorato da un generale discredito, che arriva talora all'insofferenza, per una disciplina considerata, da parte di molti psichiatri, antiquata per motivi spesso contraddittori. Non è antiquato rispolverare Jaspers o lo stesso Freud, o addirittura Kraepelin, che a Freud era coetaneo?
Perché infatti mobilitare tanti discorsi, tante riflessioni, perché fare dei sottili distinguo, o appellarsi a descrizioni spesso fumose di vissuti ineffabili, facendo riferimento a concezioni filosofiche talvolta oscure esse stesse e di applicazione essenzialmente libresca, se poi alla fin fine si devono comunque precisare etichette diagnostiche in base alle quali prescrivere un numero relativamente limitato di farmaci, ai quali si affida la maggiore parte dell'efficacia dell'atto clinico?
Perché studiare Malinconia e mania di Binswanger, se egli stesso consigliava di prescrivere imipramina al malinconico, senza inutilmente indugiare in un tentativo di dialogo che gli sembrava infruttuoso?
Nozioni come quelle di sintomo-base e di vulnerabilità ci avvicinano veramente al substrato nervoso della malattia mentale? Può darsi di sì, e se lo fanno, lo fanno in un modo che sembra nuovo. Ma ricordiamo che la vulnerabilità è un attributo generale dell'essere umano, incluso lo psichiatra. Essa per me riguarda certamente la qualità della stoffa più o meno resistente di cui ciascuno è fatto, ma include anche i contesti di vita; anche le istituzioni sociali sono un baluardo della nostra vulnerabilità, come pure la matrice della famiglia e i dispositivi sociali che presiedono alla nostra sicurezza, i fattori complessi che amministrano la distruttività dentro e fuori di noi. Tutto questo richiede di essere dettagliatamente pensato in correlazione e pone alla psicopatologia generale e alla clinica difficili compiti metodologici e rappresentativi.
Quando Freud confrontava le incertezze della psicoanalisi a quelle dello storico e dei suoi metodi conoscitivi, pote' dire: <<Almeno lo psicoanalista vi parla di qualcosa in cui egli stesso ha avuto una funzione>>, alludendo alla partecipazione diretta alle vicende affettive del paziente, che manca allo storico che racconta fatti remoti. Vorrei tanto che si potesse estendere questa partecipazione anche allo psicopatologo e al tipo di considerazione che egli fa sull'esistenza e le caratteristiche dei suoi pazienti.
Ma, per concludere: fingiamo per un momento che gli psicofarmaci di ampia efficacia a disposizione nella personale farmacopea dello psichiatra e appartenenti alle varie classi siano a un dipresso una quindicina. La combinatoria di queste quindici differenti molecole fa già una bella varietà: le loro combinazioni possibili sono infatti 32.767.
Se ammettiamo cioè la possibilità di prescrivere quindici diversi psicofarmaci ad uno stesso paziente - cosa che sarebbe del tutto facile attuare, fatte salve rarissime e ben note incompatibilità assolute tra molecole - abbiamo l'opportunità di scegliere tra poco meno di 32.767 combinazioni possibili. Questa gamma notevole di possibilità si arricchisce di sfumature, se teniamo conto della variabile introdotta dai diversi dosaggi.
Benché si tratti di numeri elevati, essi non sarebbero comunque commisurabili all'<<immenso campo delle variazioni della vita psichica>>, né a quella ampiezza della vita (la minkowskiana "ampleur de la vie"), che sfugge alle etichette mediche.
Psicopatologi metodologicamente accorti come Kretschmer e K. Schneider hanno evitato di prospettare diagnosi in eccesso, che mimano soltanto diagnosi mediche. Come ricordano Huber e Gross, <<gli sviluppi psicoreattivi, inclusi quelli nevrotici e di personalità, sono per loro essenza non strettamente separabili dalle reazioni psichiche normali e di personalità>>. La vera malattia mentale restringerebbe considerevolmente questa ampiezza, che non andrebbe considerata come scientificamente incommensurabile.
Ma ciò non può valere anche per i soggetti sani? Se pensiamo alle storie degli uomini, alle loro esistenze che si traducono in narrazioni o racconti, le situazioni nodali di una narrazione si rivelano sottoposte a un numero sorprendente di limitazioni. Così, per esempio, sostiene Bremond (1966), quando considera le restrizioni logiche che limitano le possibilità narrative; o ancora prima W. Propp, che, analizzando le fiabe, individua in esse la combinatoria di un ristretto numero di funzioni (31, per l'esattezza).
Esisterebbe dunque un possibile compito dell'odierna psicopatologia di correlare sintomi e storie con azione psicofarmacologica, interrogando l'una serie con l'altra e viceversa? Penso che anche questa proposta sia possibile, e inviterei a non considerarla una provocazione troppo balzana.
Parliamoci dunque, cerchiamo di capire cosa stiamo facendo, quanto problematico sia ancora il nostro sapere: quanto illimitate siano le nostre capacità di correlazione, e quanto limitata invece la nostra effettiva comprensione. Quanto grande lo scarto fra i linguaggi con cui parliamo del cervello e la gamma sconcertante delle forme di vita e dei modi con cui esperiamo l'esistenza. Lo psicopatologo consapevole sa di confrontarsi con tutto questo, e attiva perciò le sue massime cautele.


Bibliografia

(Si fornisce un elenco dei principali testi consultati, anche se non sempre espressamente citati nel corso di questo lavoro)
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