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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

Il DSM e il pensare psichiatrico

di C.F. Muscatello, P.M. Simonato, P. Scudellari, A. Grossi, N. Isola


Relazione letta al convegno Crisi e Cronicità, Reggio Emilia, Sabato 2 dicembre 2000


Con il permesso della Rivista Psichiatria Generale e dell’Età Evolutiva riproduciamo il testo della relazione letta dal dr. Paolo Scudellari che è stata pubblicata sul vol.37, fascicolo 3, pp.333-342,2000 della Rivista.
Un ringraziamento particolare al Direttore, prof. Giovanni Gozzetti, e al Redattore Capo, dr. Lodovico Cappellari.

Mario Rossi Monti
Antonella Di Ceglie




Una spaccatura attraversa la psichiatria: nosologia e psicopatologia si collocano sui due fronti opposti. Assistiamo alla contrapposizione tra una nosologia, che tradizionalmente affonda le proprie radici nel modello medico-biologico, e la psicopatologia, i cui percorsi più variegati rimandano essenzialmente all'ambito della antropologia.


NOSOLOGIA, NOSOGRAFIA, PSICOPATOLOGIA

Un testo specialistico, il "Lessico di psichiatria" di C. Muller (1980), differenzia con precisione nosologia da nosografia: "la nosologia (...) comprende da un lato il riconoscimento e la descrizione delle singole malattie (nosografia) e dall'altro la loro classificazione in sottoforme o anche l'ordinamento secondo affinità di gruppo per cui si arriva a un sistema nosologico, ad un ordine sistematico (classificazione nosologica)".
Sulla stessa linea si attestano M. Rossi Monti e G. Stanghellini (1996): "la nosologia in senso lato si occupa della classificazione delle malattie. A differenza della nosografia che consiste nella descrizione delle singole malattie con finalità diagnostiche, la nosologia in senso stretto ha come oggetto la classificazione delle malattie in forme discrete e separate".
Quando parliamo di classificazione delle malattie, quindi, parliamo più propriamente di nosologia, anche se la letteratura sull'argomento tende a fare confusione tra i due termini, o perlomeno ad usarli come sinonimi.
Per quanto attiene alla possibilità di definire la psicopatologia, possiamo dire che certamente, in senso generale "con psicopatologia si indica la patologia psichica nel suo complesso ed il termine coincide quindi con l'oggetto della psichiatria" (M. Rossi Monti, G. Stanghellini, 1996).
K. Jaspers (1913) propone il concetto di psicopatologia generale e così lo definisce: «...il campo della psicopatologia si estende a tutto lo psichico che possa essere colto in concetti di valore immutabile e comunicabile (...). L’oggetto della psicopatologia è l'accadere psichico reale e cosciente. Noi vogliamo sapere che cosa provano gli esseri umani nelle loro esperienze e come le vivono, vogliamo conoscere le dimensioni delle realtà psichiche». La disciplina tratteggiata da K. Jaspers assume cioè immediatamente una torsione fenomenologica. Si tratta in altre parole di una disciplina a forte tensione antropologica che si occupa soprattutto di vissuti psicopatologici, privilegiando di questi il versante dimensionale (la continuità delle storie di vita), piuttosto che quello categoriale, orientato sulla individuazione di puntiformi entità nosografiche. In questo senso la psicopatologia esprime, in una certa misura, una vocazione meta-nosologica. Non a caso infatti gli sviluppi della psicopatologia jaspersiana culminano nell'antropoanalisi di Ludwig Binswanger.
La psicopatologia clinica, per K. Schneider (1967), «si occupa dell'abnorme psichico guardando alle unità cliniche». Introducendo il concetto di «unità clinica» Schneider intende individuare una sorta di configurazione sindromica elementare in cui il sintomo diventa un «tratto più o meno caratteristico, ma sempre di nuovo reperibile, di un quadro di stato o di decorso». Fondamentale in tal senso l'individuazione della “percezione delirante” quale tratto caratteristico e reperibile la cui presenza segnala l'avvenuto ingresso nel mondo schizofrenico.
La qualità epistemologica del pensiero di questo Schneider non è quindi molto dissimile da quella del nosologo: individuare dicotomie rigide che si prestino ad una immediata applicazione diagnostica. Tuttavia, come è stato bene messo in evidenza da A. C. Ballerini e M. Rossi Monti (1996), «dietro l'immagine classica di uno Schneider difensore delle dicotomie forti si affaccia (...) uno Schneider diverso» che vede le dicotomie come «punto di partenza di un pensiero psicopatologico che deve sapere rinunciare alla sicurezza offerta da punti di riferimento univocamente determinati».
Ci andiamo avvicinando così alla prospettiva di una “psicopatologia fenomenologica”, interessata all'esperienza vissuta e alla tensione comunicativa che ogni sintomo racchiude in sé.
Il fenomenologo opera una instancabile scommessa sul senso, il fondamento e la continuità antropologici dei fenomeni psicopatologici, e sul fatto che ciò che appare come sintomo in un modello medicalizzato di psichiatria è in realtà un “segno” che rimanda continuamente ad altro, è la traccia di un mondo marcato antropologicamente. Egli riconosce una "specificità antropologica ai cosiddetti sintomi patologici, leggendo nei sintomi dei simboli che, nel caso della psicopatologia, possono essere considerati addirittura simboli amplificati della condizione umana, essendo l'uomo un portavoce, un produttore di simboli, un trasformatore semantico" (C. F. Muscatello, 1977).
La psicopatologia fenomenologica, pur tenendo presenti le dicotomie (derivabile/inderivabile, delirio/deliroide ed altre ben note), se ne serve soltanto come di boe galleggianti che fungono da riferimento alla navigazione clinica. Essa è soprattutto sensibile alle sollecitazioni dei diversi percorsi esistenziali, declinandosi anche come fenomenologia genetica: «una fenomenologia diacronica che ricostituisca la storia della vita, e non solo la storia clinica (...) al fine di cogliere gli snodi essenziali di ciascuna esistenza» (E. Borgna, 1996).
Fare della psicopatologia significa quindi cercare la continuità nella discontinuità dei diversi agglomerati sindromici e leggere questa discontinuità nell'ottica di una "continuità narrativa" che apra alla comprensione esperienze, eventi, storie ai margini estremi dell’intelligibilità e, qualche volta, della dicibilità. A questo fine - e contrariamente a quello che fa il nosologo, che è sempre alla ricerca di casi "puri" che non hanno altra funzione che riconfermarlo nelle sue certezze - lo psicopatologo è attratto dai protocolli-limite (estremi, anomali, atipici), nei quali spesso si evidenzia la transizione da una fenomenica clinica all'altra, e la continuità nucleare dei significati esistenziali organizzatori.
Solo muovendosi in questa direzione il discorso psicopatologico potrà essere in grado di oltrepassare il dato meramente descrittivo per aprirsi alla genesi e alla storia del fenomeno clinico. «Ciò non significa comunque - come puntualizza Piaget (1970) - accordare un privilegio a questa o a quella fase considerata come prima in assoluto: significa invece ricordare l'esistenza di una costruzione sempre complessa e indefinita, e soprattutto insistere sul fatto che, per comprendere i motivi e le dinamiche, bisogna conoscere tutte le fasi, o per lo meno il massimo possibile».

Tra i due modelli, quello medico-nosografico e quello psicopatologico, il primo è attualmente vincente in termini economici e di consenso, tanto che una delle cause della crisi attuale della psicopatologia è individuata da W. Janzarik (1976) nello stato di «indifferenza, di rassegnazione e di incertezza, in un'area della ricerca che corre il rischio di scivolare in una 'terra di nessuno' scientifica a causa del fatto che i suoi principali risultati non possono essere espressi in grafici o nel linguaggio del computer».
Ma la moderna nosologia psichiatrica rappresentata dal DSM è veramente così distante dall'ambiguità e dal soggettivismo rimproverato alla psicopatologia?


IL DSM, OVVERO LA LISTA DEI DISTURBI

Cosi si dice nella prefazione alla terza edizione del DSM (APA, 1980): «l'approccio adottato dal DSM III è ateoretico per quanto concerne l'eziologia e i processi fisiopatologici, eccetto per quei disturbi per i quali ciò sia stato stabilito con precisione (...). Tale approccio può essere detto 'descrittivo' in quanto le definizioni dei disturbi generalmente consistono nelle descrizioni degli aspetti clinici dei disturbi. Tali caratteristiche sono descritte al più basso livello di inferenza necessario per descrivere gli aspetti caratteristici del disturbo. Nell'ultima edizione (APA, 1996), un po' più prudentemente, ci si limita ad affermare che «il DSM è basato sui dati empirici più di ogni altra classificazione dei disturbi mentali» (1).
Insospettisce fin dall’inizio l’umiltà di propositi esibita dal prefatore, che non fa che insistere tautologicamente sul concetto che pretende di illustrare: un approccio descrittivo si enuncia, è basato sulla descrizione e non fornisce di fatto al lettore alcuna altra connotazione significativa.
Dietro tale povertà esplicativa è comunque facile scorgere la pretesa di rappresentare la "neutralità" scientifica, col proposito di cancellare in un sol colpo tutte le teorizzazioni che hanno "infestato" il campo della psichiatria.
Tale pretesa sembra prendere le mosse da un equivoco di fondo, che risiede nel contrabbandare per semplicemente descrittivo, e quindi sottratto a qualsiasi inferenza giudicante, ciò che in realtà possiede una intrinseca ed ineliminabile qualità valutativa. Non ci sembra possibile, ad esempio, sostenere che le qualifiche di "bizzarro", "congruo", "incoerente", tanto per riportare alcuni termini che ricorrono nel DSM, non contengano di fatto un implicito giudizio, non possano cioè essere applicate se non dopo che l'osservatore ha esercitato delle inferenze.

La fuorviante pretesa di descrittività non è riferita solo agli “aspetti clinici” dei disturbi, ma la si ritrova ancora, implicita, nel concetto statistico di covariazione, che governa l’assemblaggio dei sintomi in “entità diagnostiche”.
Circa la adamantina descrittività del concetto di covariazione ci sembra sia lecito sollevare dei dubbi: è il ricercatore (sulla scorta di una teoria) a stabilire di quali sintomi interessarsi e quali trascurare e, addirittura, a decidere cosa è un sintomo e cosa non lo è. Ed è sempre il ricercatore a decidere quando arrestare il processo virtualmente infinito di proliferazione nosografica che si mette così in atto. Infatti, all'interno di un gruppo di sintomi fra loro covarianti, è possibile identificare un sottogruppo di sintomi a più elevato tasso di covarianza; ancora, all'interno di questo sottogruppo, sarà possibile individuare un sottogruppo più ristretto di covariazione elettiva, e così via. Il rischio è quello di un vertiginoso regressus ad infinitum verso la frammentazione delle categorie diagnostiche, il che sta effettivamente accadendo. Di fatto il numero delle malattie elencate dai successivi DSM è andato aumentando di edizione in edizione: il DSM I ne prevedeva 106, il DSM II 182, il DSM III 265 e la sua versione revised 292; la task force del DSM IV, che tra gli obbiettivi iniziali si era posta anche quello di semplificare e abbreviare il Manuale, ha dato alle stampe un'edizione che comprende 305 differenti disturbi (2).
Corollario di tale frammentazione, e maldestro tentativo di porvi rimedio, è il concetto di comorbidity, che finisce per sommare arbitrariamente là dove si era creduto di mettere ordine separando. Non può infatti non gettare un'ombra sulla sensatezza del sistema diagnostico il fatto osservato da Wittchen (1996) che «la comorbidity sembra essere la regola piuttosto che l'eccezione».
A nostro avviso la minuziosa capacità discriminatoria e la lussureggiante varietà clinica proposte dal Manuale non rappresentano un arricchimento degli strumenti diagnostici, ma appaiono piuttosto come artefatti di un metodo che tende a codificare come disturbi separati particelle (sotto-insiemi ) della stessa entità clinica. Ciò lascia aperto il problema di quale legame intercorra tra le diverse classi di “disturbi” che ritroviamo sommate ed appiattite su un unico piano diagnostico: e tutto ciò senza che ci sia suggerita la benché minima ipotesi circa i loro rapporti e l'articolarsi della loro compresenza.
La classificazione ha finito per tramutarsi in “lista”, ossia in elenco di entità diagnostiche disparate la cui natura e i cui legami sono del tutto sconosciuti all'osservatore, o a cui l'osservatore non può che dedicare una deliberata disattenzione. Paradossalmente il clinico è così, insidiosamente, invitato a soprassedere ad ogni tentativo di analizzare correlazioni strutturali e psicogenetiche. E' come se un internista rilevasse nello stesso paziente una cicatrice sierologica da epatite, una cirrosi epatica, una ipertensione portale e non si curasse dei rapporti che intercorrono tra queste entità diagnostiche, certamente diverse, ma non per questo meno strettamente correlate.
Se poi esaminiamo nel dettaglio i criteri diagnostici di un singolo disturbo, in particolare della schizofrenia, da sempre considerata una sorta di cartina al tornasole della bontà di una classificazione psichiatrica, ci accorgiamo, con Maj (1996), che la loro presunta ateoreticità é una chimera. Come osserva questo Autore i criteri diagnostici per tale disturbo risultano dall'assemblaggio di residui dei tre paradigmi classici della schizofrenia, ciascuno di essi non certo privo di postulati teorici “forti”: ci riferiamo, in accordo con May, ai paradigmi di E. Kraepelin, di E. Bleuler e di K. Schneider. Sembra quasi che l'ateoreticità si possa raggiungere, nelle intenzioni degli Autori del DSM, semplicemente con una sorta di "media matematica" delle più autorevoli proposte in materia

Non vogliamo con questi rilievi decretare l'inutilità della nosologia. E' infatti innegabile che sia necessario disporre di un sistema classificatorio il più possibile coerente e condiviso. Inoltre, come precisa Kendell (1977), «se non si disponesse della nosologia sarebbero impossibili tutte le comunicazioni scientifiche, e le nostre riviste professionali conterebbero solo relazioni su singoli casi, aneddoti e espressioni di opinioni personali. (...)»
Ci sembra però necessario che la nosologia psichiatrica, quella rappresentata dal DSM, abbandoni una volta per tutte la sua presunzione di scientificità super partes, e non confonda più la numerologia statistica con la capacità di individuare e di evidenziare gli autentici nuclei clinici della psichiatria. Così come si presenta nei suoi più recenti strumenti operativi essa appare piuttosto, per tutte le ragioni che abbiamo sottolineato, destinata a produrre in chi le si affida una funesta disattenzione selettiva verso i veri problemi clinici che la psichiatria ci presenta quotidianamente e che necessitano, a nostro avviso, di ben altra sensibilità metodologica.
Il DSM, riproponendo la mitologia ingenua e fuorviante della statistica come “scienza super partes”, delega impropriamente ad essa la responsabilità di porsi quale ordinatore unico, e ne viene ripagato con la moneta di una iperplasia categoriale che non ha i mezzi concettuali per gestire.
E’ qui che si ripresenta la perentoria necessità di un pensiero psicopatologico organizzatore. La presunzione di ateoreticità, che sottolinea orgogliosamente l’assenza di ogni presupposto e condizionamento psicopatologici, rappresenta appunto il più evidente limite di questo approccio, un limite capace di scoraggiare, e perfino paralizzare, il pensare psichiatrico.


BIBLIOGRAFIA.

Americana Psychiatric Association (1952) Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders - DSM-I, APA, Washington D.C.
American Psychiatric Association (1968) Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders - DSM-II, APA, Washington D.C.
American Psychiatric Association (1980) Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders - DSM-III, APA, Washington D.C.
American Psychiatric Association (1987) Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders - DSM-III - R, APA, Washington D.C.
American Psychiatric Association (1994) Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders - DSM-IV, APA, Washington D.C.
Ballerini A. C., Rossi Monti M. (1996) - Le dicotomie psicopatologiche sono una specie in estinzione?-Atti della giornata di studi fenomenologici "Il linguaggio perduto della psicopatologia", Reggio Emilia 17 febbraio 1996, Suppl. al Fasc. V della Riv. Sper. Fren., Vol. CXX
Borgna E. (1996) - Il fantasma della psicopatologia - In Ballerini A., Callieri B.: Breviario di psicopatologia; la dimensione umana della sofferenza mentale. - ed. Feltrinelli, Milano.
Jaspers K (1913)-Allgemeine Psychopathologie.-Trad. it. Roma, ed. Il Pensiero Scientifico, 1988.
Janzarik W.- (1976) Die Krise der Psychopathologie - Nervenartaz, 47.
Kendell R. E. (1977) -Il ruolo della diagnosi in psichiatria - ed. Il Pensiero Scientifico, Roma.
Maj M. - Lo stato attuale del concetto di schizofrenia.-Seminario tenuto presso la Clinica Psichiatrica Universitaria "P. Ottonello", Bologna, 27 marzo 1996.
Muller C. (a cura di) (1980) - Lessico di psichiatria; raccolta dei termini più usati in psicopatologia.- ed Piccin, Padova.
Muscatello C. F. (1977) - Argomenti di psichiatria - ed. Esculapio, Bologna.
Muscatello C.F., Bologna M. (1996) "Presentazione" a "Il linguaggio perduto della psicopatologia", Atti della Giornata di Studi Fenomenologici, Reggio Emilia, 17 febbraio 1996, Riv. Sper. Fren., Vol. CXX, Suppl. al Fasc. V, AGE Grafico-Editoriale.
Piaget J. (1970)-L'epistemologia genetica. -trad. it. Laterza, Bari, 1973.
Rossi Monti M., Stanghellini G. (1996) - Nosografia e psicopatologia: un matrimonio impossibile?- Atque, 13.
Schneider K. (1962)-Klinische Psychopathologie.-Trad. it. Firenze, ed. Città nuova (1983).
Wittchen H.V. (1996) "What is comorbidity; fact or artefact?", Brit. J. Psychiat., 168.


NOTE

(1) Nel DSM diversi sintomi vengono a costituire un disturbo quando si dimostra che hanno una tendenza a presentarsi assieme (covariazione) superiore a quella che si potrebbe riscontrare se il fenomeno fosse casuale.

(2) Residui del paradigma kraepeliniano sono presenti nel criterio funzionale della diagnosi di schizofrenia del DSM IV, che richiede che "per un periodo significativo di tempo dall'esordio del disturbo, una o più delle principali aree di funzionamento come il lavoro, le relazioni interpersonali, o la cura di sé si trovano notevolmente al di sotto del livello raggiunto prima della malattia" (APA, 1996); altri residui kraepeliniani sono presenti nel criterio cronologico, che richiede che la malattia abbia una tendenza alla cronicità: "segni continuativi del disturbo persistono da almeno 6 mesi. Questo periodo di 6 mesi deve includere almeno 1 mese di sintomi (o meno se trattati con successo) (...) della fase attiva" (APA, 1996).
Residui del paradigma bleuleriano sono reperibili negli items sintomatologici "eloquio disorganizzato, per esempio frequenti deragliamenti e incoerenza" (APA, 1996), che pare riferirsi al disturbo formale del pensiero, e "appiattimento dell'affettività" (APA, 1996), riconducibile al disturbo dell'affettività di E. Bleuler.
Residui del paradigma schneideriano, infine, si ravvisano nei criteri sintomatologici, dove si parla di allucinazioni uditive sotto forma di "due o più voci che conversano con un'altra, oppure voci che continuano a commentare i pensieri o il comportamento del soggetto" (APA, 1996).


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