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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

Psicopatologia e psicoterapia

di Eleonora D'Agostino e Mario Trevi



Questo articolo è già stato pubblicato dalla rivista "ATQUE. Materiali tra Filosofia e Psicoterapia" in un numero dedicato alla psicopatologia (Ancora la Psicopatologia?, n.13,p.155-178, 1996).


1. Psicopatologia e psicoterapia: disgiunzione e rapporto

Psicopatologia e psicoterapia appaiono - soprattutto oggi - come regioni relativamente indipendenti del sapere che si sviluppa attorno all'ambiguo termine di "psiche", disgiunte dall'appartenenza dell'una all'atteggiamento tendenzialmente neutro della descrittiva e dall'appartenenza dell'altra all'atteggiamento necessariamente coinvolto e per lo più dubbioso e sperimentale della pratica. Della prima si può cercare legittimamente un'epistemologia e una metodologia critica, della seconda si potrebbe dare, a rigore, solo una "dossologia" (scienza dell'opinione, della congettura) se la parola non fosse stata usurpata già da tempo da due significati diversi e distinti1.
Tra psicopatologia e psicoterapia si stabilisce tuttavia un legame apparentemente forte, nel senso che la prima sembrerebbe dover precedere obbligatoriamente la seconda, dettando anzi ad essa i compiti e i limiti del suo operare: solo dove sono chiari e sufficientemente distinti i campi della sofferenza psichica (delle abnormità, delle disfunzioni, delle devianze) la psicoterapia è chiamata a riparare, correggere, reintegrare, restringere infine la sofferenza fino alla sua almeno auspicabile scomparsa.
Questo legame, indubitabile nella medicina generale, a causa della sua prevalente preoccupazione per il benessere del corpo, si intorbida e si assottiglia tuttavia nell'ambito della medicina della psiche, della psichiatria, aspetto speciale della medicina generale, sia per la difficoltà della ricognizione di una chiara norma di riferimento (il benessere della psiche non è ancorato a parametri evidenti e indubitabili) sia per lo straripare della psicoterapia dal solco classico di ogni terapia rigorosamente scientifica che dal sintomo risale alla causa e da questa alla possibile restaurazione della norma fisiologica e perciò del benessere.
Il restauro della physis della psiche sembrerebbe percorrere vie incomparabilmente più complicate o complesse rispetto a quelle usuali del restauro della physis del soma, a parte il sovrapporsi parziale delle due sfere terapeutiche.
Ma c'è di più: chi volesse dedurre dalle terapie della psiche oggi in atto un quadro della sofferenza psichica (ricostruire cioè una psicopatologia ex adiuvantibus) si accorgerebbe con stupore che tale quadro risulta incomparabilmente più vasto e variegato di quello - già di per sé complesso - contemplato dalla psicopatologia tradizionalmente intesa. La psiche dell'uomo contemporaneo ricorre alle psicoterapie per un numero riguardabilissimo di disagi e di sofferenze non contemplati dalla psicopatologia.
Queste asimmetrie ci costringono a pensare: vorremmo salvare l'altissima dignità secolare della psicopatologia ma anche rispettare l'evidenza della proliferazione - non necessariamente teratologica - delle psicoterapie. Sospettiamo che in questa proliferazione si celi un problema non ancora evidente, nel migliore dei casi un'alternativa alla priorità della psicopatologia rispetto alla psicoterapia, infine il dubbio che la conoscenza della psiche sofferente abbia inizio nel coinvolgimento della terapia piuttosto che nell'osservazione tendenzialmente neutra della psicopatologia.


2. Generale e singolare: opzione o polarità dinamica

Sia nel versante psichiatrico (e pertanto anche psicopatologico) dell'osservazione dello psichico, sia nel versante psicologico (e pertanto della descrittiva del tutto avalutativa di una presunta "fisiologia" della vita psichica) non è possibile evitare un dualismo metodologico di fondo che ora si presenta come scissura e ostacolo e ora si presenta come strumento euristico di grande efficacia. Si tratta del dualismo - peraltro ovvio in tutte le scienze della cultura - di "generale" e "singolare".
Se qui si fa uso di questi termini - piuttosto degli analoghi ma non del tutto sovrapponibili "universale" e "individuale" - è perché la prima coppia di opposti, col suo esplicito richiamo a Kierkegaard e pertanto a uno dei fondatori della nostra sensibilità in materia di "psichico" e di "psicologico", evoca, con più precisione dell'altra coppia, sia la tensione antinomica (C.G. Jung, 1935, pag. 9) sia la drammaticità di quel dualismo di cui qui si tenta di parlare.
Nell'osservazione psicologica e psicopatologica sempre e inevitabilmente l'osservatore si trova scisso tra la ricerca di quelle generalità senza le quali non potrebbe dare fondamento al suo discorso almeno presuntivamente scientifico e l'esperienza di quell'evidente concretezza di dati che sembrano convergere verso la singolarità inconfrontabile e irriducibile. Non si dà scienza dell'individuale. La scienza, qualsiasi scienza, cerca quelle conformità essenziali che le permettono di distinguersi dalla narrazione, dalla confessione personale, dalla diaristica e infine dalla poesia. D'altra parte ciò che esperiamo nell'osservazione spregiudicata della psiche sana o malata ci si dà sempre come un singolo, un qualcosa che non sopporta confronti o astrazioni se non a rischio di scomparire appunto come singolo: un'entità che si sottrae tenacemente ad ogni generalizzazione.
La saggezza medica tradizionale ha cercato di chiarire questa scissione con l'opposizione di malattia e di malato: il bravo medico, si dice, cura il malato, non la malattia; perpetuando così la nobiltà di un monito e di un richiamo verso la concretezza esistenziale, l'unicità che chiede di mettere almeno provvisoriamente da parte ogni facile generalizzazione. La filosofia ha, almeno una volta nella sua storia, cercato di dirimere il nodo problematico di generale e singolare distinguendo scienze nomotetiche e scienze idiografiche (Windelband, con connotazioni diverse anche Rickert e, infine, forse Weber e Croce). Ma quella distinzione seducente si rivelò insufficiente: il nomos, la legge, il generale invade inesorabilmente ogni intento scientifico, ogni tentativo di conoscenza che non si voglia risolvere deliberatamente in esperienza "estetica" dell'oggetto considerato. Conoscendo o tentando di conoscere qualcosa al di fuori dell'immediatezza puntuale e puramente intuitiva soggiaciamo di necessità agli schemi rigidi del "generale", siamo spinti a cercare appunto generalità, somiglianze, identità, nella migliore delle ipotesi analogie e omologie. L'"idiografia" è un'esperienza estetica, non una scienza. Così sembra concludere Gadamer, che non a caso inizia la sua ricerca maggiore dall'esame dell'esperienza extrametodica dell'arte, che probabilmente altro non è che comprensione del singolo, dell'irriducibile singolarità.
Nella ricerca psicopatologica e nell'esperienza psichiatrica, tuttavia, "singolo" e "generale" non implicano necessariamente un'opzione (e pertanto un rifiuto dell'uno o dell'altro), ma piuttosto il difficile esercizio di "tenere assieme" i due opposti, senza tuttavia confonderli, bensì passando continuamente e per così dire circolarmente dalla considerazione generalizzante all'intuizione immediata del singolo, dove immediatezza significa sospensione di ogni categoria precostituita, abolizione almeno tendenziale di ogni giudizio che voglia precedere l'esperienza. L'oscillazione che ne consegue (con la sua rinuncia alla coerenza scientifica tradizionale) è innanzi tutto un atto di umiltà. Rinunciamo all'orgoglio di avere una griglia concettuale precostituita per intendere l'altro. Nello stesso tempo, rinunciamo anche - con altrettanta umiltà - all'orgoglio di non avere pregiudizi o precomprensioni. L'ermeneutica del nostro secolo ci ha abituati proprio a questo, a rinunciare cioè alla pretesa di una cognizione "pura", come se potessimo guardare all'altro con gli occhi assolutamente vergini di Adamo, l'unico che, essendo stato sottratto da un tragico destino ad ogni processo di inculturazione, può non ubbidire a schemi interpretativi derivati dalla cultura. Rinunciando all'illusione adamitica (che fu anche l'illusione empiristica e poi illuministica) accettiamo l'oscillazione tra singolo e generale o, meglio, tra intuizione immediata dell'individuale e necessaria ricerca delle generalità, l'inevitabile "generalizzazione".
Nel migliore dei casi riusciamo a comprendere che quell'oscillazione ha carattere euristico, bensì, ma solo a patto di rimanere tale, appunto una "umile" oscillazione, senza pretesa di assolutezza, senza ricorso a un metodo prefissato e in qualche modo costrittore. Ricordando, magari, che l'oscillazione di un punto geometrico tra i due vertici di un segmento di retta altro non è che la "proiezione" del movimento di un punto lungo un percorso circolare. "Circolazione", dunque, non spostamento repentino e magari ingiustificato. In quella che potremmo chiamare "circolazione extrametodica" tanto più facciamo uso di categoremi generalizzanti, tanto più sentiamo il bisogno di ricuperare quel "singolo" che i categoremi vorrebbero - disarticolato - assorbire in sé. Quanto più, viceversa, siamo affascinati dalla concretezza esistenziale del singolo, tanto più avvertiamo il pericolo di quella fascinazione e cerchiamo la grigia categoriale per poterlo "spiegare", ridurlo al già noto. Se ci atteniamo all'oscillazione euristica (che sappiamo essere in realtà una "circolazione"), rendiamo inesauribile il nostro processo di comprensione e ci salviamo dimessamente da ogni pretesa di conoscenza "certa" o assoluta. L'opposizione di generale e singolo, lungi dal costringerci a un'opzione che di per sé sarebbe arbitraria, si rivela una polarità in cui ognuno dei due opposti richiama l'altro secondo il modello della complementarità (C.G. Jung, 1935, pag. 9; M. Trevi, 1993, pagg. 93-147).


3. L'esperienza psicoterapeutica: intersoggettività e dialogo

È in questo assunto dell'oscillazione euristica tra generale e singolo che la psicopatologia evoca di necessità l'esperienza psicoterapeutica. Solo in questa infatti il singolo è autenticamente raggiungibile, ci "si dà" nella concretezza irriducibile ai categoremi generalizzanti, attraverso le modalità "extrametodiche" dell'ascolto, dell'empatia, della simpatia, del dialogo, del rispecchiamento, della ricostruzione narrativa, della costruzione ipotetica ma efficace, della catarsi e dell'insight. Potremmo semplificare - per comodità e bisogno di essenzialità - e dire che il singolo ci si dà solo nel dialogare empatico. Dove tuttavia va precisato che il dialogo è tale solo se è paritetico e, almeno tendenzialmente, mutuamente interpretativo. Solo se nessuno dei due (o più) dialoganti vuole assoggettare l'altro a una propria verità e dove l'unica verità possibile è quella che si manifesta nella forma della cauta proposta, di una congettura che si può condividere oppure scartare assieme, con identica persuasione. E dove va altresì precisato che l'empatia (vocabolo ormai usurato dall'eccessivo impiego e dagli "stiramenti" semantici cui è sottoposto) altro non è che la forma della simpatia che permette l'identificazione con l'altro sia nell'esperienza del dolore che in quella della gioia.
Non è il cosiddetto colloquio psichiatrico o diagnostico - peraltro utilissimo e indispensabile - a schiudere la possibilità della comprensione dell'altro in quanto singolo, bensì quella più o meno prolungata esperienza dialogica che usiamo chiamare psicoterapia.
E sia qui lecito ancora una volta (M. Trevi, 1992) richiamare sia il senso sia il significato corrente del termine psicoterapia. Non si tratta di proporre una delle tante etimologie fastidiose che infestano il discorso filosofico del nostro secolo e utili solo se se ne riesce a mettere in luce la natura di pure metafore. La parola "psicoterapia", peraltro, non ha neppure un secolo e mezzo di storia. Non è il suo etimo che deve essere restituito, solo il suo significato deve essere sottratto all'impallidimento dovuto a un impiego inconsapevole. Psicoterapia è terapia con strumenti psichici. Terapia peraltro prevalentemente rivolta alla psiche e alla sua sofferenza, benché non necessariamente solo ad esse. Dunque, per semplificazione o legittima estensione, terapia della psiche mediante la psiche. Nella maggior parte dei casi la "psiche" che funge da pharmakon è la stessa essenza o natura interattiva della psiche. È perciò il dialogo sorpreso nella sua efficacia rivelatrice e trasformatrice, quel "discorso" che è sempre rivolto a un singolo e che sempre a un singolo chiede assenso o dissenso, convergenza o divergenza ma, in ogni caso, ascolto e reciprocità. Lo spazio della psicoterapia, quale che possa esserne la forma, è perciò sempre osservazione, ascolto e coinvolgimento del singolo con il singolo, anche se al rapporto duale si sostituisce quello plurale, nel quale pur sempre (e spesso con maggiore difficoltà o sofferenza) il singolo è chiamato a reagire all'appello degli altri.
La psicoterapia è perciò esercizio multiforme di esperienza coinvolgente del singolo, perché solo l'esperienza coinvolgente del singolo permette l'intuizione del singolo. L'osservazione neutra e oggettivante si limita a scomporre il singolo nelle sue componenti generali, nelle simiglianze e nelle analogie che occorrono per formulare i concetti, le categorie, le classi, gli "assi" e le costanze di qualsiasi approccio descrittivo, di qualsiasi psicopatologia in quanto scienza.


4. La concretezza psicoterapeutica e il suo apporto alla ricerca psicopatologica

Certo, anche nell'arte medica in generale, la terapia fornisce continuo alimento alla descrittiva patologica. E, si potrebbe aggiungere, la terapia è sempre rivolta al singolo sofferente, a questo malato che inevitabilmente si dà all'osservazione clinica nella sua unicità, concretezza e insostituibilità. Senonché la scienza del soma, per quanto complessa e mai del tutto esplorata, ha i suoi precisi parametri esplorativi e, di tempo in tempo, mostra i suoi confini convenzionali. Se oggi la biologia molecolare ha dilatato a dismisura questi confini non per questo essi si sono vanificati in quanto tali. L'esplorazione appassionata continua in ogni settore o anfratto del soma, ma mai in alcun caso si ha l'impressione che parametri di ricerca e confini convenzionali vengano meno.
Non così per la psiche, almeno per ora. Almeno per ora resta valida l'umile saggezza del frammento 45 di Eraclito che abolisce una volta per sempre la presunzione di raggiungere i "confini dell'anima" e forse la stessa presunzione di concepirli. Nella medicina del corpo abbiamo una "fisiologia" come premessa indispensabile alla "patologia", a nessuna premessa certa e circoscritta possiamo far appello come introduzione alla psicopatologia. O meglio, se ci appelliamo alla "psicologia" come analogo della "fisiologia" e perciò come premessa legittima della psicopatologia, ebbene non ci troviamo di fronte ad una scienza dalle strutture interne ben precisate e dai confini visibili. Ci troviamo, al contrario, di fronte a una molteplicità forse limitata d'atteggiamenti o indirizzi contenenti tuttavia ciascuno molteplicità potenzialmente illimitate di prospettive. L'osservazione della psiche non si costituisce mai in una scienza formalizzata. Quell'osservazione - o studio - è viziata fin dall'origine da un paradosso invalicabile o insolubile: è sempre la psiche che osserva la psiche, e l'osservatore è coinvolto fino alla radice nell'osservato così come l'osservato tende a risolversi (sciogliersi) del tutto nell'osservatore, assumendone radicalmente le forme. La psicopatologia non può illudersi di avere una "fisiologia" certa e circoscritta come specchio normativo o semplice quadro di riferimento fondato su un'inalterabile physis.
La "psicologia" che dovrebbe anticipare e ancorare alla terra ferma dell'evidenza la psicopatologia, non è che un pelago generoso ma tempestoso di ipotesi e di modelli che talvolta si trovano nella condizione di una mutua contestazione e talvolta in quella di una dubbia alleanza. Il pathos della psiche non ha una physis con cui confrontarsi, non ha una "norma" precisa a cui riferirsi. Tutte le volte che una psicologia in quanto scienza ha preteso di ergersi a modello normativo di riferimento è stata ben presto sommersa dalla storia. Quella "psicologia", quella pretesa scienza unitaria della psiche non è tuttavia scomparsa ma ha dovuto riconoscere l'arroganza della sua presunzione di essere l'unica e, magari di poter interpretare le altre psicologie concorrenti come patologie inconsapevoli.
È bene qui affermarlo ancora una volta: la psicologia in quanto scienza (e come fondamento teorico di ogni psicoterapia) è molto più simile a una scienza della cultura - sempre consapevole della sua storicità e della sua parzialità costitutiva - che a una scienza della natura - sempre animata dalla pretesa in gran parte legittima di esaurire una volta per tutte il campo della sua esplorazione.
La distinzione tradizionale dei due gruppi di scienze è oggi largamente contestata e, nel migliore dei casi, si fa osservare che anche le scienze della natura sono assoggettate al divenire della storia, sia pure attraverso processi assai più lenti conducenti a fratture di paradigmi universalmente accettati e a ricostruzione di altri paradigmi. Ma anche se ci dovessimo accontentare di una differenza quantitativa (e non più qualitativa, dunque, come pretendevano Dilthey e i suoi seguaci) resterebbe pur sempre l'evidenza della straordinaria accelerazione delle scienze della cultura nel loro apparire sulla scena della storia e della "compresenza" delle varie forme o modalità di ciascuna di esse all'interno dei campi del sapere esplorati. Esistono o coesistono numerose sociologie o antropologie; esiste - sostanzialmente - una sola biologia o una sola zoologia o, infine, una sola anatomia, sia essa comparata o umana.
L'asimmetria che si constata tra la coppia fisiologia-patologia e la coppia psicologia-psicopatologia non può essere sottaciuta o ignorata. Essa anzi ci costringe a pensare e, alla lunga, ci procura inquietudine. Per quanto ingenua possa essere considerata questa osservazione, onestamente essa non può essere né contestata né obliata.
È ben vero, lo statuto epistemico della psicologia è complesso e forse contraddittorio. La psicologia ha e acquista sempre più il carattere di una scienza bifronte. Al suo doppio "sguardo" si mostrano i due versanti entrambi legittimi e radicalmente diversi. Il versante naturalistico della neurofisiologia, della biologia molecolare e delle neuroscienze in generale, e il versante che, in assenza di espressione migliore, potremmo chiamare dell'indeterminatezza culturale. Intendendo con questa espressione certamente ambigua sia l'appartenenza dell'uomo alla costante deriva della cultura e alla stessa pluralità delle culture sia quel margine sia pur esiguo di indeterminatezza (o possibilità di sottrarsi al determinismo radicale) abolendo il quale ogni applicazione pratica della psicologia, ogni psicoterapia appunto si vanifica e, anzi, per coerenza, dovrebbe essere radicalmente eliminata.
Poiché, per ora, non ci sentiamo di abolire o condannare come assurda la pratica della psicoterapia dobbiamo riservare una costante attenzione proprio al versante della psicologia che l'assimila a una scienza della cultura. Di conseguenza dobbiamo accettare il frantumarsi della psicologia in numerosi indirizzi relativamente autonomi e in centinaia di modelli probabili, così come dobbiamo accettare l'inesausto moltiplicarsi dei paradigmi operativi in psicoterapia. Nell'arco di un secolo l'orgoglioso asserto per cui, sì, sono possibili numerose psicoterapie ma una sola di esse ha carattere causale e pertanto essa sola può essere considerata "vera" è stato sommerso dalla proliferazione di centinaia di modelli operativi, tutti a loro modo "causali", che autorizzano altrettanti interventi psicoterapeutici, tutti a loro modo efficaci o per lo meno legittimi.
Il disagio teoretico di questa condizione storica ha tuttavia un vantaggio: quello di poter riconoscere allo "spazio" della psicoterapia, quale che ne sia il carattere o lo stile, la natura di un luogo privilegiato per l'osservazione o, meglio, l'esperienza del singolo e del suo disagio psichico. Laddove i modelli che condizionano l'osservazione e l'esperienza si moltiplicano senza posa diminuisce il pericolo di precomprensioni o pregiudizi surrettizi e limitanti. Ove un modello domina più o meno incontrastato il rischio del dissolvimento del singolo nel generale è inevitabilmente maggiore. La pratica psicoterapeutica consapevole del suo limite prospettivistico (e perciò della possibilità, al di là del suo orizzonte, di molte prospettive diverse e legittime) consente un approccio il più possibile "spregiudicato" al singolo non più irretito in un modello presuntivamente "vero" ed esclusivo.
Certo, la scienza o l'arte dell'interpretazione, l'ermeneutica, ci avverte dell'impossibilità di sottrarci radicalmente alle precomprensioni o ai pregiudizi ma infine ci consiglia non solo di renderli consci (o, meglio, di rendere noi stessi consapevoli di essi) ma anche di sforzarci di distinguere tra pregiudizi adeguati e pregiudizi inadeguati, se non, addirittura, tra pregiudizi veri e pregiudizi falsi (H.-G. Gadamer, 1960, pagg. 316-317). Se non altro l'ermeneutica ci consiglia di acquisire <<coscienza della determinazione storica>> (H.-G. Gadamer, 1960, pag. 12) e già questo ci vincola ad un atteggiamento saggiamente realistico, senza alcun pericolo, tuttavia, di cadere in uno scetticismo paralizzante.
In conclusione ci è legittimo credere che sia proprio il lavoro psicoterapeutico (là dove dunque è l'insondabile interattività dialogica della psiche che è chiamata a prendersi cura della sofferenza della psiche stessa) ad alimentare il rinnovato emergere del singolo nell'osservazione psicologica e nella considerazione psicopatologica. Se la psicopatologia si arricchisce sempre più e sempre più si affina, è in gran parte perché il multiforme lavoro psicoterapeutico riscatta continuamente il singolo dalla tirannia del generale. Non con questo che il generale possa essere ignorato o abolito, ma esso è costretto a rendere sempre più duttili le sue strutture per far posto alla ricchezza inesauribile delle forme del singolo. Per questo processo non mancano eloquenti esempi storici nel nostro secolo.


5. Esperienze e modelli nell'area psicoanalitica

Basterebbe, a tale proposito, prendere in attenta considerazione quanto, lungo l'arco di un intero secolo, è avvenuto all'interno del cosiddetto "campo freudiano". Questa espressione - generica e forse equivoca - è autorizzata sia dall'uso comune sia dalla letteratura specialistica al fine di indicare una fedeltà estremamente elastica all'originario modello freudiano e alle successive e relativamente immediate modificazioni sino a giungere a conclusioni o ipotesi che col severo - e naturalistico - impianto di Freud ben poco hanno a che fare. Resta tuttavia una deferenza quasi religiosa al padre fondatore e al suo genio innovatore così come avviene, nel corso dei secoli, in taluni movimenti filosofici che continuano a richiamarsi a una personalità innovatrice pur avendo preso talora considerevoli distanze da essa. In ogni caso la psicoanalisi ha indubbiamente arricchito sia l'osservazione psicopatologica sia i parametri delle inevitabili classificazioni cui la psicopatologia deve ricorrere, le tassonomie indispensabili di ogni scienza neutrale e descrittiva.
Ma questo arricchimento ha la sua matrice proprio nel versante pratico della psicoanalisi, nella psicoanalisi come terapia della sofferenza psichica. È in questo terreno accidentato, aleatorio e rischioso che si sono maturate le grandi rivoluzioni interne alla psicoanalisi, dall'ammissione della "pulsione di morte" all'arretramento temporale delle dinamiche conflittuali infantili, dall'autonomia dell'Io al primato delle relazioni oggettuali, dalla considerazione del transfert come patologia utile all'ammissione dell'intrinseca terapeuticità della coppia dinamica transfert-controtransfert, dalla riconsiderazione radicale del narcisismo a quella sorta di "sospetto del sospetto fondatore" cui può essere riportato il dissolvente atteggiamento ermeneutico. Da ognuno di questi scardinamenti nasce un qualche riordinamento del quadro psicopatologico o, quanto meno, una consapevolezza nuova nella continua creazione degli schemi tassonomici della patologia della psiche.
Questo, si potrà obiettare, è un processo comune a tutti i settori della medicina: è l'osservazione sempre rinnovata e per quanto possibile spregiudicata che modifica la struttura generale dell'inquadramento patologico, salvo restando il valore di ineliminabile precomprensione che quello stesso inquadramento ha rispetto all'osservazione clinica. Ma il rilievo critico non terrebbe conto del fatto che, nell'ambito della psicopatologia, l'osservazione spregiudicata che innesca la necessità del rinnovamento degli schemi precostituiti non è la comune esplorazione clinica o il neutro esame di laboratorio in cui il malato, l'organo e il reperto microscopico permangono nella loro natura di meri oggetti davanti all'osservatore, bensì è un soggetto che non solo chiede di permanere tale ma coinvolge l'osservatore decostruendo la sua stessa neutralità e infine, quel che più conta, esige di rimanere un singolo, un insostituibile, un non-commutabile.
Se, in generale, è l'osservazione clinica che modifica la patologia in quanto quadro di riferimento, nella ricerca psicopatologica quell'osservazione clinica, lungi dall'essere neutra, si radica in un coinvolgimento che altera e confonde gli statuti tradizionali del soggetto e dell'oggetto. Il terreno dell'euristica psicopatologica è quella psicoterapia che, a differenza di ogni altra terapia, esige un coinvolgimento e una reciprocità tradizionalmente sconosciuti nella comune attività clinica.
Con il che - è bene ripeterlo - non si vuole in alcun modo disconoscere l'esigenza del generale (o delle generalità categorizzanti) in psicopatologia. Lo stesso momento formale e necessariamente tassonomico della psicopatologia in quanto scienza esige la creazione e l'impiego di generalità orientatrici che nessun uomo di buon senso potrebbe disconoscere o tentare di abolire. Qui si vuole solo osservare che la matrice esperienziale (vale a dire clinica) della psicopatologia è una condizione caratterizzata dal mutuo coinvolgimento e dalla permanenza del soggetto nel suo statuto di singolo. Il discorso che approfondisce la stretta relazione tra dialogo mutuamente coinvolgente e statuto teoretico del singolo è da una parte intuitivamente evidente e dall'altra troppo dettagliato e tortuoso per essere proposto qui, sia pure nelle sue linee essenziali.
Una sola chiosa a questo paragrafo conviene aggiungere. Una psicopatologia che si risolvesse radicalmente nella descrittiva del singolo caso clinico (questo malato, non il paziente affetto da una malattia generale) è stata tentata2 ed è sempre auspicabile come guida all'intendimento comprensivo, che altro non è che l'intendimento che ha di mira il singolo pur rispettandone le generalità o le possibili analogie generalizzanti. Ma una psicopatologia di tal fatta finisce per mettere tra parentesi l'arbitrio prospettivistico dello psicopatologo: ogni "caso clinico" è una traccia narrativa dischiusa nella complessità irriducibile della sofferenza e della stessa esistenza. Il suo contenuto non è arbitrario; arbitrario, anche se comprensibile, è il punto di vista prospettico scelto una volta per tutte e dal quale la pretesa oggettività viene selezionata e ordinata, per lo più "costruita" secondo strutture legittime ma necessariamente parziali. La psicopatologia del "caso clinico" ha il carattere di un ideale orientativo di altissimo valore ed è un utile, forse indispensabile antidoto alla psicopatologia combinatoria e nominalistica fondata sull'incastro statistico dei sintomi. Ma essa finisce per parlarci più del medico che del paziente e, in ogni caso, deve fare ancora i conti con i problemi aperti (e mai del tutto risolvibili, fortunatamente) della ricerca ermeneutica, i problemi che mettono opportunamente in dubbio una troppo facile nozione di oggetto e di oggettività.


6. Quattro stili psicoterapeutici del Novecento

Se qui si scelgono, come esemplificazione parziale delle varietà degli approcci possibili, quattro "stili" psicoterapeutici tra innumerevoli altri e si pretende di descriverli brevissimamente, lo si fa ben consapevoli dell'inevitabile arbitrio della scelta e scarsamente confortati dalla notorietà dal peso storico dei loro autori. Non possiamo in alcun modo anticipare i criteri di giudizio che un futuro anche prossimo produrrà in un terreno così vario e mutevole come la psicoterapia. È possibile, forse anche molto probabile, che le nostre scelte subiscano ben presto l'irrisione del tempo. Tuttavia è almeno legittima quella prospettiva che, nella sua relatività, giustifica appunto una scelta, per arbitraria o discutibile che sia.
Se qui preferiamo parlare di "stili" è perché poco importa, in questo contesto, il rapporto della pratica psicoterapeutica con il modello teorico che lo precede o lo accompagna. C'interessano invece le discontinuità e le falle di quel rapporto e pertanto il primato della pratica rispetto alla teoria. La pratica si incentra nella concreta esperienza dell'intersoggettività, sul comune agire e patire, su quella comunanza dei bisogni e degli affetti che fonda la possibilità dell'intendere e dell'essere intesi. Di fronte a questa concretezza il modello teorico appare aleatorio anche se geniale, fragile anche se monolitico.
Freud cercò di dare dignità di scienza (o di tecnica rigorosamente fondata su una scienza) ad una pratica millenaria che solo poco prima di lui aveva ricevuto il nome di "psicoterapia". L'assunto della rimozione - cardine assolutamente centrale di quella scienza - e dell'oceano del desiderio che sottende la fragile isola della coscienza giustificava la tecnica dell'associazione libera che esplora sia il rimosso che le componenti pulsionali del rapportarsi del paziente al terapeuta. In questo rapportarsi è il segreto della terapia: esso mette in scena un dramma familiare sepolto, in cui l'odio, l'amore e soprattutto la paura sono i sentimenti o le passioni dominanti. Il dramma speculare (e sperimentale) inscenato dal rapporto paziente-terapeuta non solo libera il primo dramma della costrizione della rimozione ma individua le linee di risoluzione di quel dramma stesso, rimasto dolorosamente incompiuto o, meglio, arrestato nel punto in cui il dolore della colpa è al culmine e ha i caratteri dell'insopportabilità. Nel migliore dei casi ne indica il possibile lieto fine. La nobiltà dell'intento è indubitabile: il rischio della procedura è quello di calare il soggetto in un dramma probabile ma non necessariamente suo.
L'universalità del dramma rimane infatti un'ipotesi non sufficientemente confortata dall'esperienza. Il dramma supposto può assumere allora il carattere del mito fondatore di una religione tirannica. Si salva solo chi rivive nella sua carne quel mito fondatore: non solo extra ecclesiam nulla salus, ma anche extra fabulam nulla salus. Freud, cercando di fissare una volta per tutte la centralità di una fabula senza tempo e senza patria, ha aperto la strada alla ricerca di altre innumerevoli fabulae. Così come ha aperto la strada della relativizzazione di ogni fabula e, contemporaneamente, della scoperta della sua efficacia probabile. Freud elevò a dignità di scienza la pratica millenaria della catarsi col suo indubitabile valore salvifico e collocò la catarsi stessa all'interno di una riedizione concreta - nel rapporto vissuto tra terapeuta e paziente - delle vicende che avevano provocato quell'oblio patogeno che ora l' "analisi" tenta di rischiarare. Se la rimozione è il perno del nostro disagio non è il ricupero del rimosso che ci libera da quel disagio, bensì il rapporto col suo significato asimmetrico rispetto alla causa patogena. Così Freud diede dignità di comprensibilità e chiarezza a quel misterioso rapport che era stato per decenni al centro dell'interesse della grande psichiatria francese. Restava un dubbio: chi può renderci certi che le strutture di quel rapport siano uniche, universali e inalterabili? Il "dopo" Freud (e perciò anche l'allontanamento da Freud) segue le vie numerosissime aperte da questa domanda.
Sappiamo poco della pratica psicoterapeutica di Jaspers. Possiamo tuttavia legittimamente supporla perché la sua psicopatologia è fondata su un'osservazione "coinvolgente" che solo la psicoterapia può fornire: la "comprensione" diltheyana, tante volte ribadita da Jaspers, è tale solo se nel comprendere ne va dell'osservatore. In ogni caso Jaspers ci ha lasciato pagine memorabili sulla psicoterapia (K. Jaspers, 1959, parte VI, $ V) e sulla nobiltà di una tecnica che richiede la presenza totale dell'artefice. La posta in gioco è "l'essere umano come un tutto" (così si intitola uno dei capitoli più lunghi della Psicopatologia generale): per conseguire questa posta occorre che terapeuta e paziente si liberino dell'impedimento radicale dell'inautenticità e ritrovino assieme le strutture fondanti di un'esistenza autentica che è anche un'esistenza "possibile", vale a dire "aperta" (benché non garantita) alle sue realizzazioni legittime.
Di qui l'austero monito di Jaspers allo psicoterapeuta: l'obbligo di una completa "chiarificazione" di se stesso, ("l'orientamento" nel mondo e la "chiarificazione dell'esistenza" sono le prime e indispensabili tappe di quel "filosofare" jaspersiano che è irriducibile ad ogni "filosofia" definita e tanto meno accademica [K. Jaspers, 1956]). <<Lo psicoterapeuta che non ha fatto luce in se stesso non può neppure illuminare bene il malato>> (K. Jaspers, 1959, pag. 863). Ma di qui anche l'aristocrazia intellettuale di Jaspers, la necessità della cura della "tradizione spirituale" da parte dello psicoterapeuta. Per conseguire una visione adeguata dell'uomo occorre far propria la tradizione che ci sta alle spalle e che sempre determina quella visione. <<Un'immagine dell'uomo la si può ottenere con un'antropologia che si nutre della filosofia greca e di quella di Kierkegaard, di Kant, di Hegel e di Nietzsche>> (K. Jaspers, 1959, pag. 871). Solo con una buona dose di malinconica ironia possiamo far nostro questo monito di Jaspers, pensando alle condizioni effettive della formazione dello psicoterapeuta nel nostro tempo: a lui in realtà sono solo consegnati, di volta in volta, limitati formulari tecnici e un'unica esperienza di apertura incondizionata all'altro ma già irrigidita da un'opzione teorica. Questi scarni bagagli dovrebbero abilitarlo all'esercizio di una professione in cui il rischio minimo è proprio quello di non poter applicare agli altri né quei formulari né quell'esperienza.
Infine Jaspers psichiatra subisce il contagio dello Jaspers filosofo (vale a dire, nonostante tutto, portatore di una particolare e limitata Weltanschauung). Questa visione del mondo s'impernia sulla nozione di "scacco" immediatamente connessa a quella di coscienza e a quella di apertura al trascendimento del dato originario dell'"esser così". L'orizzonte della possibilità si schiude attorno a noi solo per dissolversi nel naufragio di ogni possibilità. È questa consapevolezza tragica che Jaspers chiede allo psicoterapeuta? Se anche così fosse, si rilegga attentamente il paragrafo della Psicopatologia generale sui "limiti della psicoterapia", anzi solo il sottoparagrafo che inizia con <<la psicoterapia si trova di fronte all'originario esser così di un uomo>>, e ci si renda conto di come Jaspers psicoterapeuta sappia "mettere assieme" la disperazione di fronte all'immodificabile e il dovere terapeutico di tentate ancora tutto, prima di rassegnarsi. Oppure sappia "tenere assieme" la rassegnazione di fronte all'immodificabile con la pazienza come "risorsa ultima" e infine con quella che egli chiama "dolcezza terapeutica" (K. Jaspers, 1959, pag. 855). Da questo altissimo stile psicoterapeutico possiamo ancora imparare molto, pur conservando tutti i diritti di un nostro eventuale "prendere le distanze" da esso.
Anche della pratica psicoterapeutica di Binswanger sappiamo poco: i quattro brevi scritti sull'argomento (L. Binswanger, 1927, 1935, 1954, 1957) che ci ha lasciato non sono sufficienti a delineare con chiarezza un metodo e, in ogni caso, andrebbero collocati nell'arco della lunga evoluzione del suo pensiero che, in una facile e grossolana semplificazione, ha come punto di partenza lo studio di Husserl e come punto d'arrivo il fascino esercitato dallo Heidegger della Daseinsanalitik. Possiamo tuttavia tentare di definire lo stile di Binswanger facendo uso proprio di una delle categorie esistenziali mediante le quali egli esplora le modalità dell'umana presenza nel mondo: la sua opera e il suo lavoro sembrano infatti rientrare nella categoria della "verticalità".
Più che alla costituzione di una nuova clinica psichiatrica e di nuove tecniche psicoterapeutiche, Binswanger si colloca in una prospettiva che trascende sia i fondamenti teorici della psichiatria e della psicopatologia tradizionali sia i fondamenti tecnici della psicoterapia. La rivoluzione binswangeriana, che tende a ritrovare il significato attuale ed esistenziale delle esperienze vissute dall'individuo e quindi nega l'osservazione isolata e frammentaria di dati osservati, rifiuta qualsiasi ricerca di principio unificante, qualsiasi "generalità" che permetta di inserire l'esperienza del singolo in una griglia di riferimenti "oggettivi". Questo atteggiamento comporta l'impossibilità di una psicopatologia fondata su basi fenomenologiche: Binswanger sembra più impegnato a costituire l'orizzonte entro cui si iscrive il quadro psicopatologico che non a trasformare i tradizionali criteri naturalistici e positivistici su cui si fonda la ricerca psichiatrica, psicopatologica e psicoterapeutica del suo tempo. La vita interiore è strettamente confinata all'interno di ogni singolo individuo e solo in questo spazio ha una sua legittimità, sfuggendo di fatto a qualsiasi concreto trascendimento verso l'altro. La stessa psicoterapia sembra definirsi attraverso uno scopo sovradeterminato e in gran parte astratto perché deve mirare <<a ricostituire la successione delle esperienze vissute e a ricostruire la trama dei contenuti racchiusi nella storia interiore di una vita>> (L. Binswanger, 1935, pag. 149), senza privilegiare, almeno in linea teorica, alcuna specifica tecnica operativa, né formulare alcun giudizio particolare.
Il valore "trascendentale" di questo atteggiamento sta nel consentire la ricerca dei primi fondamenti di un'osservazione dell'uomo - sia sano che malato - nelle sue specifiche modalità di essere al mondo e di esprimere progetti. Ma l'atteggiamento stesso non sembra trascendere il modello puramente descrittivo e, dal punto di vista operativo, non cessa di essere tributario di quegli schemi di approccio naturalistico e oggettivante dai quali la Fenomenologia aveva tentato il riscatto. Per quanto riguarda la psicopatologia, l'antropoanalisi binswangeriana sembra limitarsi ad approfondire e a chiarificare le categorie tradizionali, continuando a riferirsi alle tecniche più tradizionali della psichiatria; per quanto riguarda la psicoterapia sembra interessata a definirne il limite operativo, scindendo il compito "spirituale" dalla tecnica scelta di volta in volta, con criteri empirici, in base alla sua efficacia pratica.
Il privilegio della "verticalità" nell'opera di Binswanger non permette probabilmente la costituzione di concreti esempi di operatività psicoterapeutica. L'oblio della dimensione "orizzontale" distanzia la purezza della ricerca dal necessario coinvolgimento pratico. Non per questo la stessa esperienza di ricerca di Binswanger cessa di essere valida come riferimento nel lavoro psicoterapeutico: è la genialità delle intuizioni secondo cui la "presenza umana" viene colta o raggiunta di volta in volta nell'osservazione clinica che fornisce stimoli ineusaribili allo psicoterapeuta. Se alle categorie della descrittiva psicopatologica si sostituiscono le categorie proprie dell'essere al mondo, allora il divario tra il sano e il malato (e perciò tra lo stesso psicoterapeuta e lo stesso paziente) può venir meno. Non si tratterà più di collocare un uomo in un quadro nosografico ma di cogliere in lui il dramma di una vicissitudine comune a tutti (del rischio stesso dell'umana presenza) e, proprio per questo, d'intravedere anche le sia pur tenui possibilità di riscatto.
Jung ci ha lasciato un solo volume di scritti sulla pratica psicoterapeutica (C.G. Jung, 1921-1959), relativamente poco rispetto ai venti volumi delle Opere da lui stesso ordinate e in larga misura selezionate. In compenso si tratta del volume in cui l'imprudente o tracotante apparato teorico di ogni "psicologia del profondo" del nostro secolo arretra quasi totalmente di fronte ad un'esperienza libera, spregiudicata, aperta, talvolta persino contraddittoria dello psichico. Laddove la teoria sembra riprendere il sopravvento (C.G. Jung, 1946) essa in realtà si mostra nelle vesti ambigue ma umili della metafora, l'eterno gioco della proposta probabile, dell'invito, del cauto suggerimento.
La vera vis formativa della pratica psicoterapeutica di Jung sta nella reciprocità dell'incontro (C.G. Jung, 1921-1959, pag. 80), nella sua tendenziale pariteticità (C.G. Jung, 1921-1959, pag. 81, 83, 127, 128, 147, e passim), nell'euristica dell'errore (C.G. Jung, 1921-1959, pag. 12) e nel metodo del "non sapere" (C.G. Jung, 1921-1959, pagg. 98-99). Il che significa mettere da parte ogni modello teorico, sospendere ogni schema pregiudiziale anche se seducente, imparare dall'esperienza in atto, ricordarsi costantemente che davanti a noi c'è un individuo che chiede di essere sottratto a imbriglianti categoremi scientifici, a umilianti generalizzazioni e che, già nel suo intimo, è vittima di stereotipi collettivi e forse proprio per questo - benché non solo per questo - è ricorso al nostro aiuto. Tale sembra essere l'insegnamento psicoterapeutico del miglior Jung. Infine, all'attento ascolto dell'altro Jung aggiunge l'attenzione rispettosa a un processo di mutua trasformazione che sempre si attua tra paziente e terapeuta, talché quest'ultimo patisce l'imprevedibilità del rapporto come e forse più del primo (C.G. Jung, 1921-1959, pag. 12, 80). Proprio la presenza di questo processo è il perno di ogni psicoterapia, che è, sì, esplicitazione dell'implicito (e perciò presa di coscienza delle pulsioni e di non ben precisate "forme dell'istinto" 3) ma è soprattutto tentativo per prove ed errori di trasformare un caos di elementi collettivi in un ordine capace di ricevere e di fornire senso.
Benché Jung non abbia potuto approfittare della nuova sensibilità ermeneutica che caratterizza la seconda metà del nostro secolo (e forse, con meno evidenza, l'intero secolo), egli è consapevole della inevitabilità delle precomprensioni in ogni intendimento possibile della vita psichica, se non altro nella forma della visione del mondo e del "punto di vista" (Gesichtspunkt) dai quali ogni uomo avvertito sa di non poter prescindere. Ma a questo proposito il monito di Jung sembra essere inequivocabile: se non ci si può sottrarre alle precomprensioni ci si deve tuttavia rendere coscienti di esse. È questa presa di coscienza che schiude quell'universo pluralistico e relativistico - benché niente affatto scettico - che costituisce il fondale epistemologico di Jung e l'elemento di maggior interesse della sua divagante meditazione. Che poi egli cada fragorosamente e ripetutamente nell'ingenuità di una teoria dello psichico data una volta per tutte, di una psychologia perennis questo è ascrivibile al debito che Jung paga, al pari di Freud e forse più di questo, alla tradizione del positivismo e dello scientismo naturalistico.


7. Psicoterapia, interpretazione, dialogo

Quel che resta di questi esempi di stile psicoterapeutico, quel che è veramente valso, ha contribuito in modo indubbio al mutamento dell'immagine dell'uomo psichicamente sofferente e chiede ancora di essere assunto nell'universo della psicopatologia, che è la scienza - limitata e transeunte - di quella sofferenza.
Avviandoci alla conclusione dobbiamo tentare di semplificare al massimo il discorso. Come la psicologia anche la psicopatologia è una scienza ancipite (corpo e mente, natura e indeterminazione) e scissa dal paradosso della mutua inclusione tra osservatore e osservato. Qui si dovrà tuttavia escludere quella parte della psicopatologia che ha netti e ben configurati fondamenti organici, pur ricordando che la zona di confine tra soma e psiche è infida e indeterminata, e lo stesso confine si sposta continuamente in entrambe le direzioni. La patologia generale si fonda sul confronto con la fisiologia e s'alimenta in continuazione dell'osservazione clinica. La psicopatologia ha uno statuto abnorme ed eccezionale rispetto alla patologia generale. Essa non può guardare a una fisiologia sicura e normativa, rispetto alla quale ricercare e descrivere i quadri morbosi. Il fondamento della psicopatologia è quella scienza tanto bifronte quanto paradossale di cui si è detto e che chiamiamo, per dubbia convinzione secolare, psicologia. In essa non vigono né norme sicure né un chiaro riferimento ad una physis evidente, a una natura come certo parametro di confronto.
D'altra parte la psicopatologia si alimenta, sì, come la patologia generale, dell'osservazione clinica, per quanto possibile spregiudicata ed attenta, ma tale osservazione non è mai, in alcun caso, neutra ed asettica. È, al contrario, un'osservazione impura e compromessa, in cui l'oggetto si dà all'osservatore solo nella misura in cui ne è coinvolto e lo coinvolge. La forma più adeguata di questa osservazione coinvolgente non è il colloquio clinico, chiuso nella frettolosa esigenza di una diagnosi e perciò di necessità distanziante e reificante, bensì la psicoterapia, intesa come interazione psichica che modifica, nel suo svolgersi, sia il paziente che il terapeuta. La "cura della psiche mediante la psiche" è la vera sede naturale dell'osservazione clinica che alimenta lo studio delle anomalie e delle sofferenze della psiche. Nel mondo psichico la diagnosi non precede la cura (se non in un numero limitato di casi) ma la segue. Quando pretende di precederla lo fa a rischio di un arbitrio pericoloso e nel costante pericolo di una riduzione naturalistica, di un ricondurre la psiche a pretese oggettività, e il soggetto ad oggetto.
La psicoterapia, peraltro, è in gran parte dialogo e in parte minore interpretazione. Il primo, nella sua natura di mutua apertura, di affidamento reciproco, di ricognizione di sé attraverso l'altro e dell'altro attraverso sé, non ha confini precisi. È il contenitore indefinitamente ampliantesi di ogni esperienza autenticamente intersoggettiva. La seconda, l'interpretazione, è valida solo se stabilisce fin dall'inizio i suoi confini e se è accompagnata dalla consapevolezza che, al di là di questi, si schiude la possibilità di altre interpretazioni legittime. Tra dialogo aperto e incondizionato e interpretazione autolimitantesi esiste un legame sufficientemente evidente per non dover essere approfondito più del necessario: se l'interpretazione "si colloca" nel dialogo è autenticamente autolimitantesi; il dialogo autentico, viceversa, è mutua interpretazione.
La psicopatologia ha nella psicoterapia così intesa la sua base e il suo alimento. Di conseguenza non può mai ritenersi definita e definitiva: la matrice esperienziale della psicoterapia coincide con l'ineusaribile natura intersoggettiva dell'uomo e l'uomo è - e diventa - tale solo nell'esercizio dell'intersoggettività. D'altra parte la psicopatologia, con i suoi schemi e i suoi modelli di volta in volta sostituibili, fornisce alla psicoterapia quelle precomprensioni senza le quali qualsiasi interpretazione non potrebbe prodursi, anche se - appunto nel dialogo - ogni precomprensione deve essere messa in dubbio e distanziata almeno di quel tanto perché non soffochi l'esperienza del nuovo e dell'assolutamente incompreso. Non dobbiamo meravigliarci che le psicoterapie siano tante: nella loro molteplicità esse rimandano ai molteplici, forse infiniti approcci alla psiche. Dobbiamo meravigliarci invece che la psicopatologia sia così lenta ad approfittare di quella molteplicità.


Note
1 Dossologia come formula liturgica di lode o glorificazione e (Demo)dossologia come disciplina dei processi di formazione dell'opinione pubblica.

2 Ci si riferisce soprattutto all'opera di Ludwig Binswanger e a quella di Medard Boss.

3 Così Jung sembra, alla fine di un lungo percorso, intendere l'ambigua nozione di archetipo, dopo aver assimilato quest'ultima al concetto etologico di comportamento filogeneticamente programmato. Vedi C.G. Jung, 1954.


Bibliografia

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Jaspers, K., Filosofia (1956), voll.1 e 2, trad. it., Mursia, Milano, 1977, 1978.
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Jung, C.G., Pratica della psicoterapia, (1921-1959), trad. it., in Opere, vol. 16, Boringhieri, Torino, 1971.
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---, Psicologia del transfert (1946), trad. it., in Opere, vol.16, cit.
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Trevi, M., Il lavoro psicoterapeutico, Theoria, Roma, 1993.
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