PSYCHOMEDIA Telematic Review
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Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICOTERAPIA
Area: Emozioni e Linguaggio nelle Narrative
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Freud tra affetti e parole
di Cristina Francios e Andrea Seganti
Con le parole un uomo può rendere felice l'altro o spingerlo alla disperazione, con le parole l'insegnante trasmette il suo sapere agli allievi, con le parole l'oratore trascina con sé l'uditorio e ne determina i giudizi e desideri.Le parole suscitano affetti e sono il mezzo comune con il quale gli uomini si influenzano tra loro.Non sottovaluteremo quindi l'uso delle parole nella psicoterapia e saremo soddisfatti se ci verrà data l'occasione di ascoltare le parole che si scambiano l'analista e il suo paziente.
(Freud S.,Introduzione al1a Psicoanalisi 1915-17)
Fin da Studi sull'Isteria, scritto insieme a Breuer fra il 1892 e il 1895, Freud attribuisce agli affetti un valore centrale nella genesi delle nevrosi. Scrive a questo proposito: «trovammo infatti, in principio con nostra grandissima sorpresa che i singoli sintomi isterici scomparivano subito e in modo definitivo,quando si era riusciti a ridestare con piena chiarezza il ricordo dell'evento determinante,risvegliando insieme anche l'affetto che l'aveva accompagnato,e quando il malato descriveva l'evento nel modo più completo possibile esprimendo verbalmente il proprio affetto» (Freud,1892-95,p.178).
La stessa attenzione per il mondo affettivo caratterizza i resoconti clinici che troviamo nel libro. Nel caso di Anna O. , troviamo una descrizione illuminante: «i suoi stati d'animo avevano sempre una leggera tendenza all'esagerazione, sia nell'allegria che nella tristezza; ne derivava anche una certa lunaticità» (Freud,1892-95, p. 215).
In base a questa concezione Freud ritiene che ad ogni rappresentazione sia legata una quota affettiva, o più precisamente un «importo d'affetto», che ne costituisce la sua base energetica. L'apparato psichico secondo questa prima teoria freudiana,funziona secondo il principio della costanza; tende,infatti,a mantenere stabile il suo livello di eccitazione.
Nel caso in cui l'affetto, collegato alla rappresentazione, non possa essere «abreagito» secondo le vie consuete, si crea una situazione potenzialmente patogena. L'affetto bloccato ostacola la circolazione delle rappresentazioni , che non vengono immesse nella rete delle associazioni coscienti,e non sono più controllabili. Con la cura della parola, però può avvenire la scarica dell'affetto ; il linguaggio , al pari dell'azione avvia il riconoscimento della rappresentazione isolata dalle altre rappresentazioni coscienti.
1. Le origini della talking cure: il caso di Anna O.
Freud trasse materia per la formulazione della teoria e del metodo psicoanalitico dalle indicazioni tratte dal medico viennese Josef Breuer (1842-1925) e da quello parigino Jean-Martin Charcot (1825-1893). Parlando del suo metodo, Freud infatti, ne attribuiva la prima intuizione al dottor Breuer che tra il 1880 e il 1982, quand'egli era ancora studente, aveva in trattamento terapeutico una ragazza che presentava un quadro clinico comples. Berta Poppenheim, tale il nome della paziente coperta da uno pseudonimo che sarebbe divenuto famoso come Anna O., rappresentava un caso classico d'isteria, di fronte a cui la scienza medica del tempo non poteva non dichiarasi che impotente. Colpita da paralisi dell'arto superiore destro e degli arti inferiori,la paziente mostrava anche disturbi alla vista, all'udito, aveva difficoltà nella postura del corpo, nausea e tosse nervosa. Anche le sue capacità lessicali si erano ridotte, fino ad arrivare all'impossibilità di parlare e comprendere. Infine la paziente andava soggetta a momenti di afasia, nei quali alternava stati di confusione, di delirio, di alterazione di tutta la personalità. La paziente di Breuer vide eliminare i suoi sintomi attraverso una «cura discorsiva» che praticava in auto ipnosi, sollecitata dal medico. Ogni sera si recava a casa della ragazza e, dopo averla ipnotizzata, la faceva parlare. Sotto ipnosi, Anna parlava del doloroso periodo della sua vita in cui aveva dovuto assistere il padre gravemente malato, ricordando quei sentimenti rimasti repressi di rabbia, disgusto e paura. Breuer notò che raccontando l'episodio doloroso connesso all'insorgere di uno dei sintomi prima citati, Anna riusciva a vivere intensamente le emozioni provocate dal doloroso ricordo, e al termine di tale rievocazione il disturbo scompariva. Questa terapia, definita catartica funzionò anche con gli altri sintomi (Freud,1892-1895).
Ecco cosa ci riporta Freud a tal proposito:
Si era notato che,quando cadeva nei suoi stati di assenze, e di confusione psichica, la paziente soleva mormorare fra sé alcune parole, le quali davano l'impressione di provenire da un contesto che occupasse il suo pensiero. Fattesi dire queste parole, il medico traspose la paziente in una sorta di ipnosi, ripetendole ogni volta le stesse parole per indurla ad allacciarvi qualcosa.
L'ammalata ben presto ader’ e riprodusse cos’ dinanzi al medico le creazioni psichiche che la dominavano durante le assenze e si rivelavano in quelle parole espresse a una a una. Dopo aver raccontato un buon numero di tali fantasie, ella era come liberata e riportata alla vita psichica normale. Lo stato di benessere, che durava parecchie ore, cedeva poi il giorno dopo a una nuova assenza, che veniva eliminata nello stesso modo mediante l'espressione delle fantasie di recente formazione. (Freud, 1909, p.121).
Breuer riusciva ad attenuare i sintomi con quella che la paziente stessa definiva talking cure e che si rivelava un trattamento catartico che consentiva ciò che lei scherzosamente definiva chimney sweeping, cioè ripulitura della psiche :
Il giorno dopo che aveva dato sfogo verbale alle sue fantasie, era amabile e lieta,(...).Il suo stato psichico era una funzione del tempo trascorso dal suo ultimo sfogo verbale.Era cosi possibile mettere a punto un procedimento tecnico terapeutico che nella sua consistenza logica non lasciava nulla a desiderare. (Freud,1892-95, p.78)
Freud a questo proposito commenta:
mai nessuno, fino ad allora,aveva guarito un sintomo isterico con tali sistemi,né si era tanto avvicinato alla scoperta della sua causa.(...) le cose stavano proprio così;quasi tutti i sintomi erano insorti esattamente allo stesso modo,come residui,come precipitati (se così si può dire) di esperienze affettivamente cariche, che per tale motivo,denominammo in seguito "traumi psichici" (Freud, 1909, p.148).
Nonostante il successo terapeutico, Breuer interruppe improvvisamente il trattamento, accortosi del rapporto che andava creandosi con la paziente, spaventato dall'intensa e reciproca dipendenza affettiva che si era instaurata con Anna. Egli non colse dunque gli aspetti innovativi dell'importante metodo terapeutico, non credendo che la teoria da lui scoperta potesse essere generalizzata. Freud, al contrario, colse elementi che andavano ben oltre il singolo caso; si era infatti accorto che il blocco di Anna era determinato da un conflitto psichico tra qualcosa che avrebbe voluto essere espresso e qualcosa che ne contrastava appunto l'espressione; la sua sofferenza è da ricondurre al fatto che inconsciamente Anna si era proibita la presa di conoscenza e dunque l'esternazione di sentimenti e desideri erotici ed aggressivi inconciliabili con la sua morale, la sua cultura e la sua educazione. Pur essendo al corrente del ruolo delle pulsioni sessuali nelle nevrosi, Breuer rifiutò di riconoscere il ruolo fondamentale che esse hanno giocato in quella di Anna O, fuggendo dalla relazione affettiva con la paziente. Freud s'accorse inoltre, nella sua attività medica, che il metodo ipnotico aveva forti limiti d'applicazione. Esso infatti, per essere efficace, doveva indurre il malato in uno stato ipnotico profondo; il che era possibile solo per un numero molto ridotto di pazienti. Per cui, dice Freud, «dato che non potevo modificare a mio piacere lo stato psichico dei miei pazienti, mi disposi a lavorare sul loro stato normale», puntando ad ottenere quelle informazioni che normalmente si ottenevano nella condizione ipnotica attraverso il discorso "cosciente" del malato» (Freud 1909, p.218).
"Feci dunque così con i miei pazienti. Quando ero giunto con loro al punto in cui affermavano di non sapere altro, assicuravo loro che invece sapevano, che parlassero pure, e osai affermare che sarebbe stato esatto quel ricordo che sarebbe emerso nel momento in cui posavo la mia mano sulla loro fronte. In questo modo riuscii senza applicare l'ipnosi a sapere dai malati tutto quanto era necessario per stabilire il nesso tra le scene patogene dimenticate e i sintomi che ne erano residuati" (Freud, 1909, p.220).
E questa procedura non solo si mostrò efficace sul piano operativo, ma aprì nuove prospettive su quello teorico; infatti rivelò a Freud i meccanismi della «rimozione» e della «resistenza»:
"Avevo dunque trovato la conferma del fatto che i ricordi dimenticati non erano perduti. Erano in possesso del malato e pronti ad affiorare in associazione a ciò ch'egli già sapeva, ma una certa forza impediva loro di diventare coscienti e li costringeva a rimanere inconsci. Si poteva ammettere con certezza l'esistenza di questa forza, perché si avvertiva una tensione ad essa corrispondente quando ci si sforzava di introdurre, in contrasto con essa, i ricordi inconsci nella coscienza del malato. Si finiva per sentire la forza che teneva in piedi lo stato morboso come una resistenza del malato."
"Ora, su questa idea della resistenza ho fondato la mia concezione dei processi psichici nell'isteria. Si era rivelato necessario per il ristabilimento della salute eliminare queste resistenze, partendo dal meccanismo della guarigione era ora possibile farsi idee ben precise sullo svolgimento della malattia. Le stesse forze, che oggi come resistenza impedivano al materiale dimenticato di divenire cosciente, dovevano a suo tempo aver provocato questo oblio e aver espulso dalla coscienza i corrispondenti episodi patogeni. Chiamai questo processo da me supposto rimozione, e lo considerai confermato dall'esistenza innegabile della resistenza" (Freud, 1909).
Successivamente con i suoi scritti metapsicologici, che si collocano prevalentemente intorno al 1915, Freud elabora più compiutamente quello che verrà definito il modello pulsionale della mente (Greenberg e Mitchell, 1983). Le Pulsioni e i loro Destini sono alla base dell'osservazione clinica di Freud; in quest'ottica lo sviluppo della personalità, le relazioni dell'individuo con il mondo esterno e con il mondo interno e l'emergere della patologia sono considerati derivati delle trasformazioni pulsionali. L'esigenza centrale di Freud era quella di costruire un modello teorico universale della mente, la metapsicologia, in grado di spiegare il funzionamento dell'apparato psichico inteso come un gran serbatoio in cui sono incanalate le energie pulsionali provenienti dall'organismo. Secondo il modello freudiano, l'organizzazione del nostro modo di esperire l'ambiente esterno e l'organizzazione dell'esperienza di Sé sono regolate da spinte pulsionali innate. L'affetto, in questa più complessa sistematizzazione, costituisce ancora una volta l'aspetto energetico delle rappresentazioni psichiche delle pulsioni, destinato a rimanere in conoscibile. Tuttavia Freud sembra rendersi conto del rischio di riduzionismo ,proprio nel momento in cui considera gli affetti come derivati pulsionali.
In Pulsioni e loro destini,del 1915 osserva: «il caso dell'amore e dell'odio acquista particolare interesse per il fatto che non tollera di essere inquadrato nella nostra descrizione delle pulsioni».(p.28) Proseguendo il suo discorso sull'amore, ne vede un'espressione degli impulsi sessuali, ma nella loro totalità. Lo sforzo di cogliere la complessità dell'amore lo spinge a dipanare la trama affettiva: «l'atto di amore non è suscettibile di un solo, ma di tre contrari. Oltre all'antitesi amare-odiare, vi è quella amare-essere amati; ed inoltre l'amare e l'odiare presi insieme si contrappongono allo stato dell'indifferenza o della mancanza d'interesse».(p.28-29).
Una diversa impostazione sugli affetti emerge invece nel fondamentale scritto freudiano del 1925 Inibizione ,sintomo, angoscia. Modificando profondamente, in qualche modo addirittura capovolgendo le sue precedenti concezioni dell'angoscia , Freud la inquadra nella teoria strutturale (basata sulla tripartizione Es, Io, Super-Io), recentemente elaborata, ed introduce il concetto di angoscia segnale. « Gli stati affettivi -scrive Freud - sono incorporati nella vita psichica come sedimenti di antichissime esperienze traumatiche, e vengono ridestati quali simboli mnestici in situazioni simili»( p.243). La nozione di angoscia segnale, pur risultando senza dubbio suggestiva per gli sviluppi successivi della psicologia dell'Io, rimane pur tuttavia coerente con la teoria freudiana già delineata nei decenni precedenti: viene mantenuto, infatti, l'aspetto energetico degli affetti pur nella complessità delle sue trasformazioni. La teoria di Freud rimane fortemente incentrata attorno alle spinte pulsionali, di natura sessuale o aggressiva, e le dinamiche relazionali costituiscono l'esito delle vicissitudini pulsionali. In quest'ottica il bambino fin dai primi mesi di vita si attacca alla madre, in quanto , quest'ultima, nella sua funzione di nutrice, gratifica le sue pulsioni orali (Ammaniti, Dazzi, 1990).Risulta così chiaro, pur tenendo conto delle complesse e talora contraddittorie stratificazioni dei testi freudiani che comportano problemi interpretativi e inevitabili ambiguità, che la scelta teorica di Freud del modello pulsionale non consente un'indagine sugli affetti come esperienze psichiche sufficientemente autonome.Per questo motivo la psicoanalisi, come afferma Andrè Green (1977) non dispone di una sufficiente teoria degli affetti, considerati comunque derivati pulsionali.
2. Processo psicoanalitico come pratica dialogica
Abbiamo dunque visto come « Attraverso le libere idee improvvise come espressione di spontaneità personale e di libertà di opinione nacque la cura mediante la conversazione.», commentano Thomä e Kächele nel loro Trattato di terapia psicoanalitica. (1985,1988). Gli stessi autori, prendono in esame il modo in cui Freud, negli anni successivi, definisce sempre più chiaramente il processo psicoanalitico come una particolare forma di pratica dialogica:
"Nel trattamento analitico non si procede a nient'altro che a uno scambio di parole tra l'analizzato e il medico.Il paziente parla , racconta di esperienze passate e di impressioni presenti, si lamenta,ammette i propri desideri e impulsi emotivi.Il medico ascolta,cerca di dare un indirizzo ai processi di pensiero del paziente, lo esorta sospinge la sua attenzione verso determinate direzioni, gli fornisce alcuni chiarimenti e osserva le reazioni di comprensione o di rifiuto che in tal modo suscita nel malato".(Freud,1915-17,pp. 201 e sg.)
(...)E ancora nel 1926 Freud sosterrà che tra paziente e analista non accade nulla, se non che parlano tra loro. L'analista non usa strumenti, non esamina l'ammalato, non gli ordina medicine(...)L'analista riceve il malato in una data ora del giorno e lo lascia parlare, lo ascolta , poi gli parla a sua volta e lo fa ascoltare (p. 355). L'affermazione di Thomä e Kachele che nel trattamento psicoanalitico non avviene null'altro che non sia uno scambio di parole ha limitato inutilmente la portata terapeutica e la comprensione diagnostica della psicoanalisi.Il "nient'altro che" di Freud deve essere inteso quindi, come un invito del paziente ad esprimersi verbalmente,nel modo più completo possibile i propri pensieri e sentimenti. Ma se in realtà, secondo Thomä e Kächele, questa posizione di Freud può essere attenuata considerando come per Freud al principio non era il verbo (la parola), e nella sua teoria dello sviluppo l'Io tre origine dall'Io corporeo, lo stesso non si può dire della posizione espressa da diversi ermeneuti che trattano il linguaggio come unico oggetto di conoscenza della psicoanalisi. Secondo questa posizione, espressa segnatamente da Ricoeur (1965), la parola non viene concepita come espressione di una struttura sottostante, cioè come una parte dell'oggetto di conoscenza, ma come unico fatto di osservazione della psicoanalisi; non è la struttura psichica che genera il linguaggio ma il linguaggio che crea significati nel momento in cui viene parlato. Contro la posizione ermeneutica insorge Grunbaum (1984) che la definì una «versione troncata della psicoanalisi», per esso non è vero che «tutta la verità psicoanalitica è riassunta in fondo nella struttura narrativa dei fatti psicoanalitici» (Ricoeur, 1965) .
Nei suoi numerosi scritti Horst Kächele si rifà al rapporto tra ricerca sulla teoria psicoanalitica e ricerca clinica, sottolineando l'importanza di lavorare a una ricerca empirica e ricostruttiva per individuare i fattori del processo terapeutico che ne spiegano l'esito, posizione che si può anche cogliere dalla risposta che indirizza alla concezione ermeneutica:
"Il punto di vista in favore del quale io parlo è quello per cui il rapporto con i malati richiede una posizione scientifica, che non può essere concettualizzata solo in termini di impresa ermeneutica. Il paziente non è un testo, e il rapporto tra analista e analizzando fondamentalmente non corrisponde a quello tra lettore e la sua lettura ; la presenza, nel dialogo psicoanalitico , degli autori stessi crea una situazione interattiva. La ricerca sulla terapia psicoanalitica inizia allorquando il paziente ha lasciato l'ambiente del trattamento, e l'analista si siede alla scrivania" (Kächele,1993,p.13).
Quello che questi autori autori criticano è la pretesa di utilizzare il linguaggio come uno strumento assoluto e al di fuori della storia. Nella relazione tra paziente e analista avvengono molte cose al livello inconscio dei sentimenti e degli affetti , e solo in modo incompleto possono essere chiamate con il loro nome separate le une dalle altre. Nell'Io corporeo, nelle dimensioni preconscie e inconscie del dialogo psicoanalitico, sono racchiuse molte modalità espressive preverbali che hanno un rapporto oscuro con l'Io vivente, ma nonostante ciò co-determinano la qualità della relazione tra paziente e analista. Nell'affermare questo, questi autori autori fanno riferimento al pensiero di Wilma Bucci che considereremo nell'articolo successivo. Il dialogo pur essendo una esperienza verbale, articolata e sequenziale, presuppone l'esistenza di un'area non articolata, non verbale e in gran parte inconscia che è indispensabile per la costruzione stessa del mondo simbolico. Ed è quest'area che contribuisce in modo decisivo alla creazione di quella forma di vita in comune (Wittgenstein, 1967) che è temporalmente contemporanea al dialogo ma che teoricamente è il presupposto indispensabile a che il dialogo e la comprensione reciproca possano realmente dispiegarsi. Il dialogo quindi valorizza la conoscenza tacita e la memoria del corpo.
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