PM --> HOME PAGE --> NOVITÁ --> SEZIONI ED AREE --> INTEGRAZIONE DELLE PSICOTERAPIE

PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICOTERAPIA

Area: Integrazione delle Psicoterapie

I due approcci fondamentali all'integrazione psicoterapeutica

di Tullio Carere-Comes



La conoscenza, secondo Piaget, procede secondo due modi o fasi. Nella fase assimilativa i dati dell'esperienza vengono incorporati negli schemi mentali preesistenti, che vengono pertanto "confermati" da ogni muova esperienza. Nell'accomodamento, al contrario, gli schemi preesistenti sono modificati per tener conto dei dati dell'esperienza che non potrebbero essere assimilati senza forzature. La conoscenza procede in modo ottimale quando tra le due fasi si stabilisce un buon equilibrio, senza che nessuna delle due predomini sull'altra. Infatti un eccesso di assimilazione corrisponde all'incapacità o al rifiuto di aprirsi alle nuove esperienze precisamente per quello che hanno di nuovo. Dall'altra parte, un eccesso di accomodazione porta a un'apertura mentale non proporzionata alla capacità di elaborazione, con effetti di incoerenza e confusione. Il primo eccesso porta, in psicoterapia, alle chiusure dogmatiche e settarie, il secondo all'eclettismo spicciolo e confusionario. Anche in questo campo, come in ogni altro, è auspicabile un equilibrio tra i due poli. Una moderata prevalenza dell'uno sull'altro, tuttavia, non è di per sé un problema. Una prevalenza di assimilazione è paragonabile a un atteggiamento conservatore, come una prevalenza di accomodamento lo è a un atteggiamento progressista. Nessuno dei due è a priori migliore dell'altro, se il conservatore è illuminato e il progressista prudente.

La prevalenza del modo assimilativo o di quello accomodativo porta, nel campo dell'integrazione psicoterapeutica, ai due stili fondamentali di integrazione. Da una parte c'è il modo di coloro che hanno bisogno di mantenere un forte radicamento in una teoria, incorporando in questa parti di altre tecniche e teorie reinterpretate o riformulate secondo i concetti e il linguaggio della teoria di base: è l'integrazione assimilativa. Dall'altra parte si collocano coloro che preferiscono muoversi ecletticamente, senza preoccuparsi troppo, inizialmente, delle contraddizioni e delle incompatibilità tra un approccio e l'altro. Costoro possono restare eclettici, con tutti gli inconvenienti che questo comporta, oppure procedere in direzione integrativa. In questo caso l'integrazione non avviene, o non avviene prevalentemente, sulla base di una teoria preferita come nel modo assimilativo, ma segue piuttosto la linea di ricerca dei fattori comuni ai diversi approcci. L'integrazione, che ha in questo caso un carattere prevalentemente accomodativo, punta qui a delineare una struttura comune ai diversi metodi, che comincia a rendersi riconoscibile nel momento in cui si rinuncia a imporre al trattamento un andamento predeterminato.



Il campo dell'integrazione psicoterapeutica è attraversato da due orientamenti principali. Il primo favorisce il pluralismo, il secondo l'unità. Grazie al primo ciascuno si sente libero di esplorare il campo a modo proprio. Grazie al secondo ciascuno sente di appartenere a una comunità. Se prevalesse il primo, il campo dell'integrazione psicoterapeutica, che già non è molto integrato al suo interno, subirebbe un'ulteriore disintegrazione. Se prevalesse il secondo, l'imporsi di una visione unitaria avrebbe un effetto inibitorio su quella che è tuttora la principale risorsa del campo, cioè la convivenza di molti punti di vista.
Cercherò di mostrare che la spinta pluralista è rappresentata dall'integrazione teorica assimilativa, mentre la spinta all'unificazione del campo lo è dalla ricerca dei fattori comuni; e che entrambi gli approcci sono necessari e nessuno dei due è sufficiente, dal momento che la prevalenza dell'uno sull'altro produrrebbe effetti indesiderabili. Questa tesi va innanzitutto confrontata con l'opinione dominante secondo la quale esistono "tre modi generalmente accettati in cui i metodi e i concetti di due o più scuole di psicoterapia possono essere combinati o sintetizzati" (Stricker & Gold, 1996): approccio dei fattori comuni, integrazione teorica e eclettismo tecnico.
Innanzitutto, i tre modi possono essere ridotti a due se consideriamo che solo il primo e il secondo costituiscono ambiti sufficientemente definiti, mentre il terzo raggruppa modalità integrative più correttamente inquadrabili nei primi due. Si può osservare, infatti, che "l'eclettismo tecnico non è una pura combinatoria di tecniche eterogenee, ma è sempre un modo di curare in cui una certa particolare visione di patogenesi e terapia incorpora tecniche di diversa provenienza reinterpretandole nei propri termini teorici e finalizzandole al proprio obiettivo". A questa conclusione Alberti (1997) è pervenuto esaminando una serie di casi di presunto eclettismo tecnico (ateorico). Da questo punto di vista non sembra esistere una differenza significativa tra l'eclettismo tecnico e l'integrazione teorica, in quanto in entrambi i casi si parte da una visione definita e si procede in modo assimilativo. Non tutti i casi di eclettismo, peraltro, sono riconducibili a questo modello. Esiste sicuramente anche un tipo di eclettismo relativamente "puro", in cui non è osservabile il procedimento assimilativo a una teoria base descritto da Alberti. Questi "eclettici puri" possono restare tali, oppure procedere in direzione integrativa. In questo caso l'integrazione non avviene sulla base di una teoria preferita come nel modo assimilativo, ma segue piuttosto la linea di ricerca dei fattori comuni ai diversi approcci e ha quindi, come vedremo, un carattere prevalentemente accomodativo.
In secondo luogo, possiamo considerare le formulazioni "integrazione teorica" e "integrazione assimilativa" come praticamente intercambiabili. Infatti se da un lato nell'integrazione teorica è inevitabile procedere in modo assimilativo, dall'altro il processo assimilativo altrettanto necessariamente porta a qualche modifica in senso accomodativo della teoria di partenza per incorporare il nuovo elemento: "ogni assimilazione è accompagnata da un accomodamento" (Piaget, 1967, p. 189). L'integrazione assimilativa non coincide con l'integrazione teorica "ideale", perché per definizione l'accento è sull'assimilazione e non sull'equilibrio assimilazione-accomodamento: ma con buona approssimazione corrisponde all'integrazione teorica "reale", in cui il soggetto che opera l'integrazione non è in generale equidistante tra la propria teoria e quella estranea, avendo un investimento maggiore sulla prima che sulla seconda. Essendo la spinta all'assimilazione di regola più forte di quella all'accomodamento, si può affermare che l'integrazione assimilativa è il modo in cui l'integrazione teorica procede nella pratica.
Chiarito che l'integrazione teorica o assimilativa e l'approccio dei fattori comuni sono i due modi fondamentali dell'integrazione psicoterapeutica, cercherò di mostrare la sostanziale complementarità dei due approcci.

L'integrazione assimilativa

L'integrazione assimilativa è stata definita come "incorporazione di atteggiamenti, prospettive o tecniche da una terapia a un'altra nella consapevolezza di come il contesto modifica il significato degli elementi importati. Questo modo di integrazione favorisce un saldo radicamento in qualsiasi sistema terapeutico, ma con la disponibilità ad assimilare o incorporare prospettive o pratiche da altre scuole" (Messer, 1992). L'accento, come si ricava da questa definizione, è sul "saldo radicamento" in un terreno teorico, come è logico, dato che l'enfasi è sull'assimilazione e non sull'accomodamento. Il radicamento in un sistema teorico non deve essere visto in generale come una modalità primariamente difensiva, o come il desiderio di imporre le proprie idee ad altri. Non può esserci dubbio sul fatto che l'aderenza a un sistema teorico qualsiasi, purché sufficientemente coerente e rigoroso (come lo sono del resto tutti i sistemi terapeutici maggiori), è da preferire alla mancanza di radicamento dell'eclettismo spicciolo e improvvisato, in cui si passa da una prospettiva all'altra senza curarsi delle compatibilità e dei collegamenti tra l'una e l'altra. Per quanto l'atteggiamento assimilativo sia giustificato, e fino a un certo punto anche inevitabile, la maggiore enfasi sull'assimilazione, a scapito dell'accomodamento, comporta delle conseguenze la cui portata deve essere ben valutata.
Nel 1989 gli psicoanalisti dell'IPA si ritrovarono a Roma alla ricerca di un "terreno comune", che non fu trovato. Come fece notare Roy Shafer (1990), tutti gli psicoanalisti usano le stesse parole chiave, ma con significati diversi. E' ormai chiaro che non esiste più una psicoanalisi: ne esistono molte (Wallerstein, 1990). Perciò non esiste un singolo approccio "psicodinamico", ne esistono molti (diversi e incompatibili). Lo stesso si può dire per la terapia cognitiva, la terapia della Gestalt, e probabilmente per tutte le scuole più importanti. Questa è la realtà disintegrata del nostro campo.
Che cosa accade se introduciamo in questa realtà il principio di assimilazione? Abbiamo, per esempio, venti approcci psicodinamici differenti. Supponiamo che uno di essi sia omogeneo, cioè che tutti coloro che aderiscono a questo modello lo facciano esattamente allo stesso modo. Supponiamo ora che ciascuno di loro adotti una prospettiva assimilativa: ognuno lo farà, naturalmente, secondo i propri gusti e i propri interessi. Che cosa accadrà? Nel corso del tempo ciascuno svilupperà il proprio approccio personale. Tra questi approcci sarà inevitabile che si producano nuove incompatibilità, e alla fine il campo sarà più disintegrato di quanto non fosse all'inizio. Anche se tutti i terapeuti dichiarassero di avere assimilato teorie e tecniche cognitivo-comportamentali e Gestalt su una base psicodinamica, registreremmo ugualmente differenze sostanziali e incompatibilità tra i diversi approcci.
L'effetto congiunto della moltiplicazione dei paradigmi, e dell'assimilazione che li moltiplica ulteriormente, è che il numero delle psicoterapie diverse si avvicina al numero degli psicoterapeuti. La disintegrazione del campo non potrebbe essere maggiore. Si deve riconoscere, d'altra parte, che l'assimilazione è un movimento pro-integrativo, perché è il processo che porta ogni terapeuta a integrare nel proprio approccio elementi che hanno origine in altri metodi: ma tale integrazione avviene secondo modalità individuali e particolari, in funzione delle doti, delle capacità e dei bisogni di ogni singolo terapeuta. Abbiamo pertanto il paradosso di un movimento integrativo a livello del singolo terapeuta, cui corrisponde un movimento disintegrativo a livello del campo complessivo. Il principale vantaggio del processo di integrazione assimilativa consiste dunque nel fatto che il terapeuta cresce culturalmente e professionalmente, i suoi orizzonti si allargano, il suo strumentario tecnico-teorico si arricchisce. A fronte di questo guadagno sta tuttavia la proliferazione inarrestabile e incontrollabile delle prospettive, con l'incomunicabilità e l'effetto-Babele che ne deriva.
Nel tentativo di venire a capo di questo paradosso, paragoniamo la posizione del terapeuta di fronte alle teorie concorrenti con quella che ha nella relazione terapeutica con il paziente. Il paragone è giustificato in primo luogo perché in entrambi i casi il terapeuta si trova di fronte a posizioni diverse dalla sua, con cui in qualche modo deve fare i conti. In secondo luogo perché anche la relazione con il paziente può essere intesa nella prospettiva piagetiana di assimilazione e accomodamento, come ha fatto Wachtel (1981) in un classico articolo in cui ha proposto di sostituire la distinzione freudiana, "epistemologicamente ingenua", tra percezioni corrette e distorte (su cui si basa la distinzione tra relazioni reali e relazioni di transfert) con lo schema piagetiano. Ciò che Wachtel suggerisce di continuare a chiamare transfert è quella parte dell'esperienza di relazione nella quale l'assimilazione è nettamente dominante (poiché un'assimilazione "pura" non può esistere, se non nei casi di ideazione totalmente delirante, nessuna esperienza di transfert è totalmente arbitraria, come Gill, 1984, ha fatto notare). In altre parole, avrebbe senso continuare a chiamare transfert l'esperienza di relazione in cui una persona tiene ben fermi i propri schemi mentali e non sa o non vuole sospenderli per aprirsi all'esperienza di ciò che li contraddice. Va da sé che ugualmente transferale (o controtransferale), in questo senso, deve essere considerata la posizione del terapeuta che rimane fedele alle proprie teorie o credenze e non sa o non vuole metterle in discussione.
Perché una terapia proceda, è necessario che almeno uno dei due partner sia disposto a mettere in questione il proprio transfert o controtransfert, quindi ad ammorbidire la propria posizione assimilativa per assumere un atteggiamento più accomodativo. Lo stesso si può dire per quanto riguarda il dialogo tra due terapeuti di diverso orientamento. Questo non significa, beninteso, che l'assimilazione equivalga a un atteggiamento patologicamente difensivo, e l'accomodamento all'apertura mentale e al dialogo. L'assimilazione diventa un fatto patologico solo quando è nettamente dominante, ma lo stesso si può dire dell'accomodamento. "Idealmente, ci si potrebbe attendere di trovare un buon equilibrio tra assimilazione e accomodamento, senza che nessuno dei due predomini in modo netto" (Wacthel, 1981). Un buon equilibrio è desiderabile perché troppa assimilazione impedisce il dialogo e l'apprendimento, mentre troppo accomodamento porta all'incoerenza, alla frammentazione o all'eclettismo confusionario: in entrambi i casi si ottiene un effetto controintegrativo.
Nella dialettica tra l'affermazione individuale e l'appartenenza a una relazione, o tra la parte e il tutto, l'assimilazione rappresenta il movimento di emancipazione-differenziazione, mentre l'accomodamento rappresenta il movimento di reintegrazione in una unità superiore. Il processo si blocca - con fenomeni di irrigidimento o al contrario di frammentazione - quando uno dei due movimenti prevale al punto da impedire il dispiegarsi dell'altro. Per quanto riguarda il tema dell'integrazione psicoterapeutica, il movimento assimilativo significa libertà e pluralismo, con tendenza all'anarchia (centinaia di scuole, migliaia di correnti, ognuna con il suo gergo e le sue parole d'ordine). In altri termini, l'integrazione assimilativa porta a risultati positivi nel senso dell'arricchimento complessivo del campo e del pluralismo, ma se è lasciata a sé stessa alimenta una deriva disgregativa. Per evitare questa, occorre che sia bilanciata dal suo opposto, di cui vedremo ora le principali caratteristiche.

L'integrazione accomodativa

Per cominciare, l'accomodamento genuino deve essere chiaramente distinto dallo pseudo-accomodamento. Consideriamo, ad esempio, il caso di due coniugi che nel corso di diversi decenni si adattano sempre di più l'uno all'altro, modificandosi in funzione di ciò che ciascuno dei due si aspetta dall'altro. Tale adattamento può non essere affatto maturativo o evolutivo, e dar luogo a null'altro che un madornale falso-sé à deux. Si potrebbe dire lo stesso del processo di adattamento reciproco tra il leader carismatico e la folla, o tra l'analista e l'analizzando dopo anni di analisi. In tutti questi casi ciascuno si adatta al "sapere" dell'altro, cosciente o inconscio (teorie, modelli, schemi, fantasie). Come si distingue questo pseudo-adattamento - che di fatto è una manipolazione reciproca collusiva - dal vero adattamento alla realtà? Il vero accomodamento, a differenza dello pseudo-accomodamento, non è una negoziazione tra saperi, bensì la correzione di uno schema preesistente che segue la sospensione di ogni sapere.
Su questo principio si basa la stessa definizione di campo psicoterapeutico, che ho discusso altrove (Carere-Comes, in stampa): lo spazio relazionale generato dalla logica interna del processo terapeutico, non dalle preferenze personali o ideologiche del terapeuta e paziente. E' implicito, in questa definizione, che la costruzione di un campo terapeutico è ostacolata nella misura in cui l'uno o l'altro riesce a far prevalere le sue preferenze, individuali o di scuola, sulle esigenze del processo. Per esempio, all'inizio del trattamento paziente e terapeuta possono essere entrambi persuasi di sapere che cosa deve essere fatto. Il paziente può aspettarsi di essere liberato dal suo sintomo senza dover cambiare nulla di importante nel suo stile di vita. Il terapeuta può pretendere che il complesso di Edipo sia esplorato ed elaborato come precondizione per qualsiasi cambiamento durevole. Ma se il sintomo è il prodotto di un atteggiamento o di una credenza errata non connessi con il complesso di Edipo, sia il paziente che il terapeuta dovranno abbandonare le rispettive idee di partenza, come precondizione per qualsiasi lavoro utile.
Il presupposto di ogni processo autenticamente terapeutico non può essere la teoria del terapeuta, e ancor meno l'aspettativa del paziente, ma la capacità di sospendere entrambe, per esplorare la natura del problema e le sue possibili soluzioni. Naturalmente dei cambiamenti importanti possono essere ottenuti anche in assenza di questo presupposto, per esempio da un terapeuta che applica rigidamente un modello manualizzato. In questo caso, tuttavia, bisogna presupporre che il paziente sia stato assegnato a questo tipo di trattamento in seguito a un'indagine preliminare che ha permesso di stabilirne l'indicazione. In altri termini, si è fatta l'ipotesi che quel paziente avesse bisogno proprio di quel tipo di trattamento: ipotesi il cui valore potrà essere verificato solo al termine del trattamento previsto. Tra i diversi bisogni del paziente ne viene isolato uno, e ci si occupa solo di quello. Operazione giustificata e anzi doverosa a fini di ricerca, quando l'obiettivo è di stabilire l'efficacia di un determinato approccio su un determinato disturbo: ma irrispettosa e manipolativa se trasferita nella terapia reale, in cui l'isolamento di un singolo bisogno da un processo in cui i bisogni sono molteplici e variabili, persino all'interno della stessa seduta, è un atto arbitrario.

La definizione che abitualmente si dà di psicoterapia - "ogni metodo di trattamento dei disturbi psichici o somatici che utilizzi mezzi psicologici e, più precisamente, la relazione tra terapeuta e paziente" (Laplanche & Pontalis, 1967) - non permette di distinguere tra la psicoterapia vera e propria e i trattamenti manipolativi di ogni sorta. Questa distinzione, che è invece di importanza cruciale, sposta l'attenzione dal cambiamento al modo in cui è ottenuto: in un caso all'interno e come risultato di un processo in cui non si dà nulla per scontato, ma si indaga il significato delle domande coscienti e inconsce del paziente e in funzione di questo si mettono alla prova modalità diverse di intervento; nell'altro all'interno e per effetto di un approccio stereotipato, in cui tanto le domande del paziente quanto le risposte del terapeuta sono previste in partenza da un manuale.
Si consideri ad esempio il caso di un paziente ossessivo in cura presso un analista ortodosso che dovrà, se vorrà tener fede al metodo che dichiara di praticare, indagare sul significato del sintomo e di tutto ciò che avviene nella relazione analitica, nell'ipotesi che la delucidazione di tali significati porti alla risoluzione dei conflitti sottostanti il sintomo e quindi alla sua scomparsa. Con lo stesso paziente un terapeuta cognitivo-comportamentale suggerirebbe invece comportamenti o verbalizzazioni interne dalla cui pratica si attenderà un indebolimento fino all'estinzione del pensiero ossessivo. Nel primo caso è probabile che il paziente progredisca nella consapevolezza di sé, ma non ci aspetteremo grandi miglioramenti sintomatici; nel secondo accadrà più facilmente il contrario.
In entrambe queste pratiche il terapeuta è guidato dalla sua teoria, e non dalla domanda "di che cosa avrà veramente bisogno questa persona in questo momento?". Nei trattamenti stereotipati si dà per scontato che il paziente abbia bisogno di prendere coscienza dei suoi conflitti inconsci, o di estinguere un comportamento maladattivo, o qualsiasi altra cosa sia prevista dalla teoria di base. Nella terapia autentica, invece, non si dà per scontato nulla. Ci si chiederà: questa persona ha bisogno di liberarsi del suo sintomo per tornare a vivere come prima, o piuttosto di tenersi il suo sintomo e interrogarlo e usarlo come guida alle contraddizioni profonde che tramite il sintomo stanno chiedendo attenzione? Domande non retoriche, da porre e riproporre in continuazione, su cui indagare instancabilmente senza mai la certezza di avere avuto risposte definitive.
Occorre tenere ben presente la differenza: il vero terapeuta non è sguarnito di teorie, anzi ne conosce e padroneggia diverse, ma non ne è guidato. Ciò che è decisivo è il rapporto con la teoria, che è di identificazione, nel caso dei trattamenti stereotipati, e d'uso, nel caso della terapia reale. L'identificazione avviene necessariamente, quando il terapeuta non ha altra base su cui poggiare che la propria teoria: non può separarsene, perché gli mancherebbe il terreno sotto i piedi. Invece il terapeuta non si identifica nelle teorie, ma le usa quando servono e le mette da parte quando non servono, se dispone di un ubi consistam ateorico. E' ovvio, del resto, che la libertà dalle teorie non può che fondarsi sulla capacità di soggiornare in uno spazio ateorico: quella capacità di affidarsi a un vuoto di sapere cui Bion (1970) si riferiva con la formula F in O, fiducia nell'ignoto.

Ciò che distingue, dunque, il vero terapeuta dal manipolatore di coscienze travestito da scienziato o da sacerdote o da demagogo, è la neutralizzazione continua e inflessibile di ogni aspettativa, teoria, ideologia, per ricreare continuamente uno spazio di ascolto per quanto è possibile incondizionato e di risposta per quanto è possibile adeguata ai bisogni che in tale spazio si fanno sentire. Una volta compreso che la terapia autentica non dipende dalla teoria del terapeuta, ma al contrario dalla sua libertà da qualsiasi teoria - cioè dalla libertà di usare o non usare qualsiasi teoria - è possibile studiare le caratteristiche "metateoriche" della terapia: cioè i fattori ricorrenti in ogni terapia, quale che ne sia l'orientamento o, come si usa dire, i fattori comuni a tutte le psicoterapie. E' possibile, cioè, dissipare un equivoco: si può parlare di fattori comuni a tutte le terapie vere, mentre non ha molto senso parlare di fattori comuni ai trattamenti stereotipati. Più esattamente: è possibile, e anzi è probabile, che un trattamento stereotipato o manualizzato incorpori uno o più fattori terapeutici comuni ad altri trattamenti (anche se diversamente concettualizzati), ma è più che probabile, anzi è certo, che altri fattori saranno esclusi in partenza e per principio da un trattamento il cui formato è stabilito a priori, indipendentemente dalla dialettica dei bisogni effettivamente in gioco.
Ogni forma di psicoterapia si basa sullo sviluppo e l'affinamento di fattori terapeutici potenzialmente presenti in qualsiasi relazione tra esseri umani. Il dialogo terapeutico non è altro che la forma professionale del dialogo che ha luogo ovunque tra due persone animate dal desiderio di scoprire qualcosa attraverso il confronto onesto delle rispettive posizioni. E come non ci può essere vero dialogo se manca la volontà di mettere in gioco ogni assunto riguardante i temi in discussione (in mancanza di tale volontà non si può parlare di dialogo, ma solo di tentativo di persuasione, conversione, indottrinamento, e simili), allo stesso modo non ci può essere vero dialogo terapeutico se manca la disponibilità, da entrambe le parti, a mettere in dubbio la validità di qualsiasi assunto di base.
Non si può pretendere, d'altra parte, che un singolo terapeuta abbia sviluppato una piena padronanza e competenza di tutti i fattori terapeutici potenzialmente in gioco in una relazione interpersonale. Come abbiamo visto nella prima parte di questo lavoro, è al contrario inevitabile che un terapeuta si familiarizzi con un settore particolare del campo terapeutico, quello che maggiormente corrisponde alle sue inclinazioni e ai suoi interessi, oltre che a un certo numero di fattori imponderabili o casuali che hanno fatto sì che nel corso della formazione si iscrivesse a una scuola e non a un'altra, incontrasse certi supervisori e non altri, e simili. Se, come si è detto, un percorso di tipo assimilativo è pressocché inevitabile nella carriera di ogni psicoterapeuta, come si concilia questo dato strutturale con l'esigenza, evidenziata successivamente, di non dare nulla per scontato se si vuole instaurare una relazione autenticamente terapeutica?
Si deve osservare, innanzitutto, che una posizione di tipo assimilativo, che per definizione "favorisce un saldo radicamento in un sistema terapeutico", non difende necessariamente in modo pregiudiziale e acritico quel radicamento, opponendosi a qualsiasi modifica in senso accomodativo. Al contrario, abbiamo già rilevato che "il processo di accomodamento è il partner inevitabile dell'assimilazione" (Stricker & Gold, 1996). E' vero che un procedimento è detto assimilativo proprio perché l'assimilazione prevale sull'accomodamento: ma prevalenza non significa esclusione della necessaria controparte. Certamente uno stile assimilativo è equiparabile a una posizione sostanzialmente conservativa, ma è decisiva la differenza tra il conservatore ottuso e il conservatore illuminato, analoga a quella tra il progressista avventato e il progressista prudente. La metafora politica accenna al tema già discusso: gli eccessi in entrambe le direzioni, assimilativa o accomodativa, sono dannosi al processo. Il temperamento deciderà l'appartenenza al campo conservatore o a quello progressista, ma il processo sarà rispettato se in entrambi i casi sarà mantenuta una sufficiente tensione dialettica con il polo opposto.
Fuor di metafora: il terapeuta tendenzialmente eclettico, pronto ad allargare il suo approccio alle visioni e alle tecniche più diverse, deve imparare dal terapeuta fedele a un orientamento la prudenza e la pazienza necessarie per evitare avvicinamenti arbitrari e commistioni ingestibili. Dall'altra parte il terapeuta assimilativo dovrà cercare di illuminare il suo conservatorismo grazie anche alla luce che proviene dal campo opposto. Che peraltro, bisogna ammettere, non è accecante. Cerchiamo allora di fare, in questo settore, tutta la chiarezza che ci è per il momento possibile.

I fattori comuni

La ricerca dei principi fondamentali dell'operazione psicoterapeutica va impostata correttamente: non si tratta, come si è visto, di prendere dei campioni dei principali metodi ed analizzarli per trovare quello che hanno in comune, ma di distinguere in primo luogo la terapia vera e propria dai trattamenti stereotipati, che sono giustificati solo se applicati su pazienti selezionati, per breve tempo e a fini di ricerca. La psicoterapia è un'operazione basilarmente etica che, avendo come obiettivo il bene del paziente, deve continuamente interrogarsi su quale sia questo bene di momento in momento nelle diverse fasi del processo, senza pretendere di saperlo in partenza e senza delegare a una teoria il potere di deciderlo. In questo senso qualsiasi trattamento stereotipato è sostanzialmente non etico, cioè abusivo e manipolativo. Non sarà pertanto dall'esame di una serie di trattamenti abusivi che potrà emergere il quadro dei fattori terapeutici di base, ma solo dallo studio della psicoterapia reale, che si adatta flessibilmente di seduta in seduta ai bisogni reali del paziente, per come emergono e sono percepiti da entrambi i membri della coppia terapeutica in ogni momento. Sarà peraltro giustificato isolare l'uno o l'altro di questi fattori per studiarne analiticamente le caratteristiche e gli effetti su diversi disturbi, secondo i metodi della sperimentazione clinica randomizzata: è un altro filone di ricerca, che può validamente integrarsi con lo studio sul campo della terapia reale, ma certamente non sostituirlo.
Stabilito che esistono due tipi di ricerca - una sul campo, sulla terapia reale, l'altra "in laboratorio", cioè sui trattamenti manualizzati - sarà chiaro che la prima deve precedere e guidare la seconda, e non il contrario. Tenendo presente in particolare che la ricerca sui "fattori comuni" riguarda i fattori che sono comuni alle terapie reali e non ai trattamenti manualizzati, il fattore terapeutico per eccellenza, che si deve trovare in ogni terapia reale semplicemente perché se mancasse mancherebbe anche la terapia, è la neutralizzazione continua e sistematica di ogni convinzione e di ogni presupposto teorico e ideologico. Poiché convinzioni e presupposti si trovano tanto al livello della coscienza che a quello inconscio, e infiltrano e compenetrano ogni aspetto della relazione, i vissuti e i significati che entrambi i membri della coppia terapeutica attribuiscono a tutto ciò che avviene nella relazione debbono essere analizzati (o "monitorati") in continuazione. E poiché l'analisi dei vissuti relazionali, detta anche analisi del transfert e del controtransfert, è l'aspetto distintivo dei trattamenti di tipo psicoanalitico, si può affermare, come ha fatto Migone (1995), che la psicoterapia non può non essere psicoanalitica.
Il principio appena citato deve peraltro essere messo subito accanto al suo reciproco: la psicoterapia non può essere soltanto psicoanalitica. Per due motivi. Primo: una psicoterapia solo psicoanalitica, una "psicoanalisi pura", è una cosa che si può immaginare, e ci si può anche sforzare di realizzare, ma che nella pratica reale probabilmente non è mai esistita (Wallerstein, 1986). Secondo: se mai esistesse, non sarebbe altro che un trattamento abusivo. L'abuso consisterebbe nel vincolare una persona, oltrettutto per un lungo periodo, a un procedimento i cui presupposti e le cui regole sono rigidamente fissati in partenza, senza alcuna possibilità di modificare gli uni e le altre in funzione dei bisogni che affiorano e si esprimono nel corso del processo.
I due principi sopra enunciati si possono sintetizzare dicendo che l'analisi continua e sistematica dei vissuti relazionali è solo uno dei vertici della relazione terapeutica, anche se ne è il vertice base, quello in cui il terapeuta deve sempre ritornare per interrogarsi sul significato di tutto ciò che accade in tutto il campo relazionale. Ora che è stato definito il primo, si può procedere nell'identificazione degli altri vertici del campo, o dei modi o fattori fondamentali della psicoterapia reale.

Il vertice base del campo terapeutico è quello in cui si produce la conoscenza di tutto ciò che è essenziale conoscere in una relazione di terapia. Io lo chiamo vertice K (come knowledge) e lo pongo in relazione con il vertice opposto, che chiamo vertice O (le due lettere K e O sono state usate da Bion, 1970, per indicare rispettivamente la conoscenza e l'inconoscibile, o il fenomeno e il noumeno).
Che cosa è possibile e necessario conoscere in una relazione di terapia? Oggetti o fenomeni, a seconda che il nostro approccio sia scientifico o fenomenologico. Più esattamente: nel nostro stile di lavoro potrà prevalere l'uno o l'altro approccio, ma nessuno dei due potrà mancare in una terapia reale. Certo non l'atteggiamento fenomenologico che, come è stato chiarito, è costituivo dell'operazione psicoterapeutica: l'epoché, la sospensione di ogni preconcezione e giudizio, è fondativa della fenomenologia come della psicoterapia, tanto che si può dire che la psicoterapia è naturaliter fenomenologica. Ma anche questo principio deve essere subito completato dal suo reciproco: la psicoterapia non può essere soltanto fenomenologica. Se volessimo limitarci a un metodo rigorosamente fenomenologico, dovremmo descrivere solo ciò che appare e rinunciare a emettere ipotesi o interpretazioni su tutto ciò che non appare, ma di cui si intuisce l'esistenza nel passato o nello psichismo inconscio o in un materiale per qualsiasi ragione non disponibile. L'ambito di indagine sarebbe arbitrariamente limitato dalla decisione del terapeuta di applicare esclusivamente un approccio fenomenologico, mentre nella terapia reale, rispettosa delle esigenze del paziente, il terapeuta non può sottrarsi al dovere di emettere ipotesi o interpretazioni anche su ciò che non appare, ma potrebbe essere di importanza cruciale nella genesi del problema in esame (ad esempio, un conflitto inconscio). Nella terapia reale al modo descrittivo, che mette tra parentesi ogni presupposto, si affianca il modo esplicativo, che al contrario fa uso di ogni sorta di ipotesi e teorie.
Spesso i due modi sono stati posti in antagonismo, come se il primo fosse proprio delle scienze umane e il secondo delle scienze naturali. In realtà l'uno e l'altro sono costitutivi di entrambe. Ritroviamo del resto in questa, che è giusto definire polarità piuttosto che antagonismo, l'altra da cui abbiamo preso le mosse: la coppia assimilazione-accomodamento. Nel formulare ipotesi o interpretazioni basate su teorie derivate dal paradigma di appartenenza per poi sottoporle a verifica - procedimento tipico del metodo scientifico - ci muoviamo su una linea assimilativa, in quanto cerchiamo di ordinare l'esperienza entro gli schemi prescritti da un paradigma dato. Quando invece ci rendiamo conto che gli schemi di cui disponiamo non sono adatti ad accogliere i dati in esame senza forzature, e quindi ne sospendiamo la validità per aprirci a un'esperienza nuova, non più determinata dagli schemi precedenti ma direttamente dalla realtà, siamo su una linea accomodativa, dal momento che questa nuova esperienza ci costringerà a modificare in qualche misura gli schemi che erano stati momentaneamente sospesi.
Nei terapeuti più conservatori prevale, come abbiamo osservato, la linea assimilativa, mentre il modo accomodativo prevale in quelli più aperti. Il rischio dei primi è il dogmatismo, quello dei secondi l'eclettismo selvaggio. Nella zona intermedia, in cui c'è ampio spazio per conservatori illuminati e progressisti prudenti, ogni terapeuta potrà trovare lo stile più consono ai propri mezzi e gusti, e ogni paziente il terapeuta più rispondente alle proprie necessità.

Se la realtà fosse fatta solo di oggetti e di fenomeni - o meglio, di cose che hanno un aspetto oggettuale e uno fenomenico - il compito fondamentale del terapeuta sarebbe di conoscere meglio possibile queste cose. Ma in primo luogo la cosa conosciuta non deve essere confusa con la cosa in sé. Noi conosciamo fenomeni - vale a dire ciò che a noi appare della cosa in sé - e oggetti - ciò che il nostro apparato teorico e tecnico ritaglia nella cosa in sé. Sulla linea fenomenologica il valore della nostra conoscenza dipende dalla profondità e accuratezza della nostra epoché; sulla linea oggettuale il valore dipende dalla bontà della nostra attrezzatura teorico-tecnica. Ma nel fenomeno non appare nella sua interezza la cosa, che del resto nessun apparato concettuale potrà mai catturare integralmente. Nel migliore dei casi riusciremo a realizzare un buon equilibrio tra il modo recettivo-fenomenologico (sintetico) e quello attivo-teoretico (analitico) di conoscere. Ne deriva che le nostre conoscenze sono sempre incerte, precarie, parziali e provvisorie, sempre quindi da sottoporre a verifica e sempre a rischio di confutazione.
Tenere sempre presente la differenza tra la cosa in sé e la cosa conosciuta è utile per non scambiare la seconda per la prima, e quindi per non dare mai nulla per scontato: atteggiamento consigliabile in generale, ma indispensabile per un terapeuta. Questo porterà non solo alla correzione (accomodamento) degli schemi di base grazie a continue aperture fenomenologiche e alle brecce da queste prodotte nei sistemi teorici che altrimenti tendono a chiudersi omeostaticamente su sé stessi; ma anche a intravedere un'ulteriore apertura verso la cosa in sé, questa volta non più in senso conoscitivo, o per lo meno non nel senso in cui si conosce qualcosa di dato.
La cosa in sé che Bion indica con O non è solo una nozione negativa che richiama kantianamente ai limiti soggettivi della conoscenza: è anche la realtà in quanto matrice originaria, depositaria di tutte le potenzialità che si attualizzano nei fenomeni del mondo. Dicendo che ogni fenomeno K è una trasformazione della matrice O ci riferiamo in primo luogo a un'operazione cognitiva (ciò che della cosa in sé appare a un soggetto in seguito e grazie all'epoché), ma, oltre a questa, anche a un movimento sostanziale interno al reale, il movimento che porta alla realizzazione di un qualsiasi stato potenziale. Un fenomeno qualsiasi, ad esempio un animale o una poesia, è presente come possibilità nel grembo della natura o della cultura, possibilità che si realizza grazie a condizioni favorevoli (o sfavorevoli, nel caso di animali molesti o brutte poesie).
Possiamo concepire il reale come una dimensione gravida di infinite possibilità, alcune delle quali si realizzano per un tempo più o meno breve per poi ritornare nel grembo dell'essere; e chiamare trasformazioni di O in K, e di K in O, questo duplice movimento. Siamo certamente su un terreno filosofico, ma un terreno che un terapeuta non può permettersi di ignorare, perché moltissime condizioni patologiche possono essere comprese come forme cristallizzate in cui il soggetto è rimasto intrappolato e che non riesce più a sciogliere, o al contrario come condizioni di latenza da cui il soggetto non riesce a emergere per realizzare le potenzialità che gli sono proprie. Spetterà dunque al lavoro della terapia da un lato riconoscere quelle forme irrigidite (che possono essere intese come strutture difensive o come schemi derivati da condizionamento) e scioglierle; dall'altro lato attivare la funzione generativa o creativa di forme nuove e più appropriate alle fase evolutiva del soggetto.
Diremo pertanto che il terapeuta si colloca nel vertice K del campo della terapia in quanto opera in esso come uno scienziato (nel duplice senso, fenomenologico e teoretico), facendo della relazione un laboratorio di ricerca in cui si dedica, con la collaborazione attiva ed essenziale del paziente, a scoprire tutte le strutture psicologiche ed esistenziali in cui la vita del paziente si è per qualsiasi motivo arenata, e a sperimentare tutti i modi disponibili per rimetterla in movimento. E diremo che il terapeuta si colloca nel vertice O del campo in quanto non cerca di conoscere forme o strutture date, ma di aprire uno spazio in cui possono essere generate nuove forme o strutture.
A queste due operazioni basilari corrispondono due tipi di ascolto: orientato agli oggetti e ai fenomeni nel vertice K, all'essere nel vertice O; e due modalità differenti di pensiero e di linguaggio: semantico-concettuale nel vertice K, metaforico-simbolico nel vertice O. In parole più semplici, da una parte ci si occupa di ciò che è attuale, dall'altra di ciò che è potenziale. Ai due vertici corrispondono i due ruoli principali del terapeuta: lo scienziato e l'artista. Anche all'interno di questa polarità il terapeuta si collocherà nelle vicinanze dell'uno o dell'altro polo, o in una posizione intermedia, a seconda dell'inclinazione e delle capacità. Ci sono, e certamente ci saranno sempre, terapeuti-scienziati e terapeuti-artisti. Non c'è alcun bisogno di forzare il proprio temperamento per fare una cosa diversa da quella per cui si è portati. Ma è certamente consigliabile che chi sta in un vertice non perda di vista il vertice opposto. Infatti specialmente nel nostro tempo è inammissibile che un terapeuta, per quanto di temperamento artistico, ignori le procedure elementari dell'analisi scientifica di un problema; ma nemmeno è lecito ignorare che in certi momenti tutta la scienza di cui si dispone non serve per uscire da un'impasse, e bisogna inventare qualcosa, o affidarsi alla potenza generativa e rigenerativa del processo (della terapia o della vita). Ancora una volta, la terapia reale consente certamente che un terapeuta privilegi un approccio a un altro, a patto di non perdere la visione d'insieme che permette di correggere gli atteggiamenti troppo unilaterali.

La dialettica assimilativo-accomodativa

Ho descritto sommariamente i primi due vertici del campo psicoterapeutico, che stanno ai due estremi di un asse che lo attraversa (per una descrizione più dettagliata, v. Carere-Comes, in stampa). Il mio scopo, in questo contesto, è di mostrare che esistono e si possono descrivere alcune modalità di base che caratterizzano qualsiasi terapia reale (ma non qualsiasi trattamento stereotipato): strategie generali o regole base di una grammatica generativa di ogni procedimento psicoterapeutico reale. L'insieme di queste regole costituisce la teoria generale del campo cui tende l'approccio dei "fattori comuni" all'integrazione, da porre in contrasto dialettico con l'integrazione teorico-assimilativa. Per quanto un terapeuta possa sentirsi più a proprio agio da un lato o dall'altro di questa polarità, la mia tesi è che un terapeuta assimilativo ha bisogno di una teoria generale per evitare di chiudersi troppo nella sua teoria particolare perdendo di vista i bisogni del paziente. Una teoria generale può aiutare il terapeuta assimilativo a effettuare quei piccoli accomodamenti nel proprio stile di base che sarebbero sufficienti a gestire il caso; o viceversa a riconoscere che il caso richiede accomodamenti maggiori, con il conseguente invio del paziente a un altro terapeuta.
Ma anche il terapeuta che si definisce "integrato" senza aggettivi o appartenenze di sorta, come è il caso dello scrivente, deve riconoscere il proprio debito nei confronti dell'integrazione assimilativa. Infatti, per quanto egli prenda le distanze da tutte le teorie conosciute e si sforzi di studiare le caratteristiche del campo senza alcun bias particolare, la sua sarà pur sempre la visione di un terapeuta umano, e non dell'occhio di Dio: inevitabilmente condizionata, in quanto tale, da ogni sorta di fattori personali e culturali. Per effetto dei quali la sua teoria, quantunque si presenti come "generale", descriverà in effetti solo quella parte del campo che egli sarà riuscito a illuminare. In altre parole, per quanto un terapeuta cerchi di produrre una "metateoria", questa sarà alla fine solo una teoria come un'altra. In questa prospettiva, qualsiasi teoria che si presenti come generale sarà vista solo come un'altra teoria,alla quale il suo autore cerca di assimilare tutte le altre.
E' chiaro che se il ragionamento che precede fosse portato alle estreme conseguenze, come avviene nel costruzionismo radicale, qualsiasi speranza di giungere a una teoria generale del campo dovrebbe essere abbandonata come illusoria: nessuno potrebbe mai sperare di uscire dal proprio punto di vista, ovvero dal particolare contesto che lo obbliga a vedere le cose in un modo e non in un altro. Possiamo tuttavia ignorare questa obiezione, perché il costruzionismo radicale, come ogni forma di scetticismo, è autoinvalidante (la sua tesi, per essere vera, dovrebbe avere valore generale, cosa negata dalla premessa). L'esistenza di un campo psicoterapeutico comune, del quale ogni psicoterapeuta si ritaglia un settore particolare, è richiesta dalla stessa integrazione assimilativa: come sarebbe mai possibile per il terapeuta di una scuola incorporare elementi teorici e tecnici di un'altra e ottenere un insieme sufficientemente omogeneo, se tra i principi della prima e della seconda non esistesse una sostanziale, per quanto sotterranea, affinità? Affinità radicata, conviene ripeterlo, nel fatto che ogni psicoterapeuta, quale che sia il suo orientamento, è vincolato dalla necessità di rispondere ai fondamentali bisogni di cambiamento e crescita dell'essere umano.
Abbiamo pertanto due esigenze di cui si può vedere la complementarità. Da un lato serve una mappa delle risposte cardinali ai bisogni psicologici e esistenziali dell'essere umano, che restano fondamentalmente gli stessi in qualsiasi contesto (come, per analogia, i fattori nutritivi indispensabili restano gli stessi in qualsiasi tipo di alimentazione). Dall'altro ogni terapeuta deve sentirsi libero di sviluppare l'approccio più consono alla sua sensibilità e ai suoi mezzi. Se prevalesse la prima esigenza, e il riferimento a un sistema generale comunque definito divenisse vincolante, il rischio della trasformazione di questo in ideologia totalizzante, con la relativa coartazione della libertà individuale, sarebbe proporzionale a questa prevalenza. Se invece prevalesse la seconda, il pluralismo sarebbe garantito - come di fatto accade nella nostra epoca "postmoderna" - ma sarebbe perduto l'ancoraggio a un insieme condiviso di valori, con il conseguente stato di frammentazione e incomunicabilità che infatti caratterizza attualmente la nostra disciplina.
Se nessuna delle due esigenze prevalesse, ma tra le due si stabilisse una buona tensione dialettica, il movimento integrazionista potrebbe acquistare la fisionomia definita che ancora non possiede, non essendo ancora oggi altro che un'"area di interesse" in cui convivono idee disparate e scarsamente collegate tra di loro. Una teoria generale del campo servirebbe come riferimento per le molteplici integrazioni assimilative, e reciprocamente queste fornirebbero materiale e stimoli per la correzione e l'arricchimento continuo della teoria generale. Perché si realizzi questa condizione ottimale di equilibrio tra i due poli dell'integrazione, è necessario che nessuno dei due prevalga. A questo scopo ogni teoria che si presenti come generale, o come teoria del campo unificato, deve essere ridimensionata e frenata nelle sue pretese di egemonia dalla critica proveniente dall'altro polo, che la riconduce alla condizione di "una teoria tra le altre". E viceversa ogni teorizzazione di tipo assimilativo, che voglia starsene tranquilla nell'hortus conclusus dei propri fondamenti, deve essere disturbata dalla sollecitazione proveniente dal polo opposto a uscire da quel recinto per confrontarsi con le richieste che in quella sede non possono trovare ascolto adeguato.

Chiarito lo statuto di una teoria generale del campo psicoterapeutico - una teoria che coniuga l'ambizione di essere una metateoria con la consapevolezza di essere una teoria tra le altre, una teoria che oscilla tra l'essere "sopra" e l'essere "dentro" il campo - restano da vedere alcuni punti. L'idea che sta alla base di questa teoria è che esiste una struttura fondamentale della relazione psicoterapeutica, che tende a emergere e rendersi riconoscibile nella misura in cui il terapeuta rinuncia a incanalare la relazione lungo le linee prestabilite di un modello, permettendole di svilupparsi in funzione dei bisogni realmente in gioco. Quanto più la relazione è liberata dalla costrizione dei modelli teorici, tanto più si afferma la logica interna della relazione, cioè la logica delle esigenze reali che muovono una persona alla ricerca di una relazione terapeutica, professionale o meno.
Di questa struttura ho descritto un primo asse (l'asse verticale, se ci raffiguriamo il campo terapeutico come un quadrilatero): quello sul quale il terapeuta si muove quando cerca di mettere in luce le forme irrigidite in cui un soggetto si è arenato, e di riattivare la potenza generativa di nuove forme di esistenza. E' un asse che può essere chiamato filosofico, perché su di esso si muove il pensiero dell'Occidente sin dai suoi inizi in risposta al monito di Apollo "conosci te stesso": conosci ciò che sei diventato e ciò che, liberandoti, puoi diventare (Beierwaltes, 1991).
Il campo può essere interamente descritto da due assi ortogonali, se a quello verticale, filosofico, se ne aggiunge uno orizzontale, psicologico, sul quale la relazione terapeutica si declina in funzione dei fondamentali bisogni psicologici di attaccamento sicuro (materno) e di collaborazione responsabile (paterno). Il movimento su questo asse è stato descritto così da Marsha Linehan (1993, p. 19): "La dialettica fondamentale è la necessità di accettare i pazienti per come sono in un contesto in cui cerchiamo di insegnargli a cambiare... essa richiede aggiustamenti di momento in momento tra il modo supportivo di accoglimento e le strategie di confronto e cambiamento". In un caso ideale, un paziente con un sé ben sviluppato non avrebbe bisogno né di accettazione "materna", né di confronto "paterno", perché sarebbe pienamente capace e motivato a un lavoro esclusivamente sull'asse filosofico (uncovering) della relazione. Nella gran parte dei casi reali, invece, il paziente ha bisogno di una misura variabile di sostegno parentale (remaking), sia per essere in grado di affrontare le difficoltà del lavoro uncovering, sia per riparare le strutture del sé imperfettamente formate nel corso dello sviluppo.
Questo sistema di assi cartesiani è utilizzabile come una mappa con cui orientarsi nella relazione terapeutica, per capire momento per momento dove si trova il paziente e dove di conseguenza deve collocarsi il terapeuta per incontrare il suo bisogno prevalente o per dosare una combinazione opportuna di interventi diversi. Per un esame più approfondito di questo asse, v. Carere-Comes (http://www.psychomedia.it/pm/modther/modtec/carere1.htm). Qui voglio solo ricordare che lo sviluppo dei pattern di attaccamento sicuro e di cooperazione responsabile, fondamentale per il sé psicologico sano, avviene normalmente nell'ambito famigliare se i fattori di crescita corrispondenti - materno e paterno - sono disponibili in misura e qualità adeguata. Se invece il sé psicologico emerge dall'ambiente famigliare con una struttura più o meno difettosa, la riparazione è ancora possibile se i guasti non sono troppo gravi, a patto che i fattori di crescita mancanti siano resi disponibili in un nuovo ambiente, come è quello della relazione terapeutica.
Si possono, naturalmente, disegnare mappe diverse, con criteri differenti, come ad esempio quella "transteoretica" di Prochaska & DiClemente (1992), che considera la fase in cui il paziente si trova rispetto al cambiamento. Le diverse mappe possono essere confrontate tra di loro: per esempio nel modello precedente (Prochaska & Prochaska, 1999) in uno studio della resistenza al cambiamento, è stata trovata una correlazione tra la fase di "precontemplazione" e il motivo "non posso cambiare", tra quella di "contemplazione" e il motivo "non voglio cambiare", e infine tra le due fasi successive di "preparazione" e "azione" e i motivi "non so come" e "non so cosa cambiare". Nella mappa che ho presentato in questo articolo il motivo "non posso" è naturalmente associato al vertice materno del campo, il motivo "non voglio" al vertice paterno, e gli ultimi due motivi, "non so come" e "non so cosa", all'asse uncovering della relazione. La somiglianza è sufficientemente netta per poter affermare che le due mappe si riferiscono allo stesso territorio, anche se sono state costruite con criteri differenti.
Si potrà (e si dovrà) fare uno studio comparato delle diverse mappe finora disponibili, che descrivono aspetti diversi del campo della terapia. Si potrà in tal modo valutare l'utilità relativa delle diverse carte per diversi scopi. Sin d'ora, però, si può rilevare una diffidenza diffusa nei confronti dei tentativi di cartografia. Mentre i naviganti che vanno per mare usano tutti le stesse carte, quali che siano il naviglio e la rotta prescelti, quelli che navigano nei mondi interni vogliono usare ognuno la carta propria, o quella in uso nelle scuole in cui si sono formati, e non sembrano avvertire l'esigenza di una carta valida per tutti che faccia salvo il diritto di scegliersi rotta e naviglio, ma obblighi a definirsi rispetto ai punti cardinali che definiscono uno spazio comune.
Questo dipende, certamente, dal fatto che lo spazio in cui gli psicoterapeuti di diversi orientamenti lavorano non è ancora sentito come veramente comune. Nessuno discute sulla partizione dell'orizzonte terrestre in quattro punti cardinali. Il nord e il sud definiscono l'asse intorno al quale la terra gira, l'est e l'ovest stanno per il sorgere e il calare del sole: sono punti di riferimento naturali, e non convenzionali, per ogni viaggiatore. Ogni altra direzione può essere definita in relazione a questi quattro punti. E' possibile indicare dei punti cardinali anche nell'orizzonte psicologico-spirituale dell'uomo? E' possibile cioè indicare, nell'esistenza umana, delle linee di tendenza altrettanto chiare e ineludibili del movimento della terra intorno al suo asse e intorno al sole?
Ho cercatodi mostrare che ciò è possibile. La prima linea è determinata dal fatto indiscutibile che l'uomo è un animale tra gli animali in quanto essere dotato di anima, o psiche: il luogo di tutte le rappresentazioni, connesse ad affetti piacevoli e spiacevoli, che gli animali si fanno del mondo e di sé stessi, dove le strategie di soddisfazione dei bisogni e desideri finalizzati alla sopravvivenza e alla riproduzione sono elaborate, messe alla prova ed eseguite. La dimensione animale o psicologica è quella in cui l'uomo, come ogni altro mammifero, deve trovare il suo posto e la sua strada tra la sicurezza del grembo e la minaccia mortale di un ambiente ostile. Questa linea è stata indicata sulla carta come l'asse orizzontale che congiunge un polo materno (il bisogno di sicurezza) e un polo paterno (il bisogno di sviluppare la capacità di confrontarsi con un ambiente ostile).
La seconda linea è determinata dal fatto, ugualmente indiscutibile, che l'uomo è l'unico animale ad avere assunto stabilmente una postura verticale rispetto alla superficie terrestre. Questo riorientamento nello spazio, che segnala la conquista di una libertà relativa dalla gravitazione terrestre, è il presupposto corporeo della dimensione spirituale. Tutti gli esseri dotati di anima o psiche sanno (cioè, hanno una conoscenza procedurale o implicita), solo l'essere spirituale sa di non sapere: cioè è capace di neutralizzare tutte le pretese di conoscenza radicate nella sua anima e nell'anima di coloro che lo circondano. Superando l'ignoranza della conoscenza ordinaria, condizionata da interessi e punti di vista specifici e dai valori vigenti, l'essere spirituale cerca ciò che è vero e giusto in sé stesso, al di là di ciò che è utile per il raggiungimento di scopi vitali. Su questa linea si muove tra il polo del conoscere (che ho indicato sull'asse verticale con la lettera K) e quello dell'essere (indicato con la lettera O). Nel primo lo scopo è quello di conoscere quanto più è possibile le cose per come sono in sé stesse, fenomenologicamente e scientificamente, grazie alla neutralizzazione sistematica di tutti i presupposti e gli interessi che interferiscono nel processo conoscitivo. Nel secondo lo stesso bisogno di conoscere è sospeso a favore di un'apertura e un affidamento al processo complessivo da cui il soggetto è stato generato e dal quale può e deve essere continuamente rigenerato.

Queste due linee, con i quattro poli che congiungono, appartengono all'essenza psicologica e spirituale dell'essere umano. Come tali mi sembrano particolarmente adatte a disegnare una mappa del territorio in cui qualsiasi procedimento che abbia come obiettivo una trasformazione mentale deve muoversi. Se qualcuno disegnerà una mappa migliore, sarò felice di adottarla. Fino a quel momento mi tengo questa, e la propongo, se non altro come termine di confronto, a tutti i colleghi che valutano, come me, l'importanza di avere una mappa generale del territorio, per quanto rudimentale e imperfetta.
Ho cercato di mostrare che una mappa del genere, cioè una teoria generale della relazione terapeutica, non è assolutamente in contrasto con l'adesione a una teoria specifica, che corrisponde alla decisione di occupare e frequentare una porzione definita del territorio, e di procedere in modo assimilativo nei confronti di tutto ciò che si trova negli altri settori. O, se contrasto c'è, è da intendersi come contraddizione dialettica tra la parte e il tutto, tra pluralità e unità del campo, tra assimilazione a accomodamento. Una dialettica che non può che essere benefica per entrambi i termini dal momento che la parte, se privata del contatto vitale con il tutto, rischierebbe di chiudersi in un isolamento incapace di comunicare con chi non condivide le stesse premesse; mentre il tutto, non moderato dall'autonomia delle parti, rischierebbe di degenerare a sistema totalizzante. Di entrambi gli esiti credo che ognuno di noi possa citare molti esempi.

Bibliografia

Alberti, G.G. (1997). Il futuro delle psicoterapie come processo integrativo. Riv. Sper. Freniatria, 121, 456-477.
Beierwaltes, W. (1991). Autoconoscenza ed esperienza dell'unità. Vita e pensiero, Milano, 1995.
Bion, W.R (1970). Attenzione e interpretazione, Armando, Roma, 1973.
Carere-Comes, T. (in press). Beyond Psychotherapy: Dialectical Therapy. J Psychotherapy Integration.
Gill, M. (1984). Psychoanalysis and psychotherapy: a revision. Int. Rev. Psa., 11, 161-179.
Laplanche, J., Pontalis, J.B. (1967). Enciclopedia della psicanalisi. Laterza, Bari, 1973.
Linehan, M.M. (1993). Cognitive-behavioral treatment of borderline personality disorder. , New York: Guilford Press.
Messer, S.B. (1992). A critical examination of belief structures in integrative and eclectic psychotherapy. In In J.C. Norcross & M.R. Goldfried (Eds.), Handbook of psychotherapy integration, Basic books, New York.
Migone P. (1995). Terapia psicoanalitica. Milano: Franco Angeli.
Piaget, J. (1967). Biologia e conoscenza. Einaudi, Torino, 1983.
Prochaska, J.O., DiClemente, C.C. (1992). The transtheoretical approach. In J.C. Norcross & M.R. Goldfried (Eds.), Handbook of psychotherapy integration, Basic books, New York.
Prochaska, J.O., Prochaska, J.M. (1999). Why don't continent move? Why don't people change? Journal of Psychotherapy Integration, 9, 83-102.
Schafer, R. (1990). The search for common ground. Int. J. Psa., 71, 49-52.
Stricker, G., & Gold, J.R. (1996). Psychotherapy integration: An assimilative, psychodynamic approach. Clinical Psychology: Science and Practice, 3, 47-58.
Wachtel, P.L. (1981). Transference, schema, and assimilation: the relevance of Piaget to the psychoanalytic theory of transference, The Annual of Psychoanalysis, 8, 59-76, IUP.
Wallerstein, R.S (1990). Psychoanalysis: the common ground. Int. J. Psa., 71, 3-20.


PM --> HOME PAGE --> NOVITÁ --> SEZIONI ED AREE --> INTEGRAZIONE DELLE PSICOTERAPIE