Paolo Migone
Il 5 novembre 2021 sono stato invitato a tenere una relazione al "Centro di psicoanalisi Raymond de Saussure" di Ginevra (la sede locale della SSPsa, la Società Svizzera di Psicoanalisi) all'interno di un convegno dal titolo "Mythes et réalités du traitement psychanalytique des troubles psychotiques" ("Miti e realtà del trattamento psicoanalitico dei disturbi psicotici"). Il titolo che hanno dato alla mia relazione era "Passé et présent de la recherche clinique dans le domaine du traitement psychanalytique individuel des troubles psychotiques" ("Passato e presente della ricerca clinica nel campo del trattamento psicoanalitico individuale dei disturbi psicotici"), cioè volevano che tracciassi un po' una storia delle ricerche sulla terapia psicoanalitica delle psicosi, dalle origini fino ai tempi recenti, per mostrarne anche gli aspetti problematici, e riflettere su cosa si possa in effetti intendere oggi per terapia "psicoanalitica" delle psicosi. Ho pensato che questa mia relazione (che ho letto in inglese, con la traduzione simultanea in francese) potrebbe interessare anche ai lettori di queste mie rubriche, per cui la riporto qui sotto (pubblico anche la versione inglese). Alcuni brani sono tratti dal cap. 6 del mio libro del 1995 Terapia psicoanalitica. Come è noto, Freud (1915) affermò che la paranoia e la schizofrenia (da lui chiamate "nevrosi narcisistiche") non erano trattabili con la psicoanalisi in quanto i pazienti non potevano sviluppare un transfert sull'analista, non essendo capaci di investimento oggettuale. Ma nonostante queste indicazioni, molti suoi seguaci, sulla scia dell'entusiasmo generato dalle prospettive terapeutiche che la "nuova scienza" sembrava aprire, non esitarono ad applicare la psicoanalisi anche ai pazienti psicotici (Müller, 1963). Gli sviluppi maggiori in questa direzione si ebbero negli Stati Uniti, dove ben presto la psicoanalisi vide una notevole crescita e la "psichiatria dinamica" divenne la concezione dominante fino a circa metà degli anni 1960. Riguardo alla terapia della schizofrenia, si pensò che una delle ragioni del fallimento della terapia istituzionale e custodialistica, messa in atto in grande stile nel secolo precedente, poteva essere dovuta all'assenza di una psicoterapia individuale. Per questo motivo vi fu un fiorire di esperienze di psicoterapia della schizofrenia, spesso dietro la guida di figure carismatiche quali Harry Stack Sullivan (1924-35, 1926, etc.), Frieda Fromm-Reichmann (1950), Silvano Arieti (1955), Harold Searles (1965) e tanti altri (molto toccante è il resoconto di Joanne Greenberg [1964] della propria terapia con Frieda Fromm-Reichmann). In Svizzera, possiamo ricordare Gaetano Benedetti (1979, 1987, 1988) e Madame Marguerite Sechehaye (1947, 1950) - fu ispirato al "caso Renée" della Sechehaye (1950) il film di Nelo Risi del 1968 Diario di una schizofrenica, in cui si racconta l'apparente guarigione di una giovane schizofrenica tramite la tecnica della "realizzazione simbolica" (Sechehaye, 1947). Anche in Inghilterra vi furono importanti terapeuti della schizofrenia, ad esempio il kleiniano Herbert A. Rosenfeld (1965), e da una prospettiva più fenomenologico-esistenziale che psicoanalitica divennero noti gli esperimenti di Ronald Laing (1955). Non va poi dimenticato Carl Gustav Jung, il vero pioniere della terapia della schizofrenia, che già dal 1903 cercò di trattare la schizofrenia con la psicoanalisi (Freud studiò il caso Schreber nel 1910, ma non vide mai il paziente, si servì del suo diario per approfondire, tra le altre cose, il tema della paranoia). Anche se più tardi vi fu chi sollevò seri dubbi diagnostici sui casi trattati (North & Cadoret, 1981), nella letteratura non mancarono resoconti di impressionanti guarigioni del quadro schizofrenico prodotti da una terapia psicoanalitica individuale. Così, mentre nel secolo precedente si riteneva che la risposta alla terapia della schizofrenia potesse consistere nell'approntare un buon numero di efficienti manicomi, eventualmente situati fuori dalle città, l'opinione delle generazioni seguenti fu che la risposta alla schizofrenia poteva essere quella di formare un buon numero di terapeuti preparati, analizzati, e altamente motivati a seguire i pazienti schizofrenici (Gunderson & Mosher, 1975). Ma, come sappiamo, anche questa era della psichiatria dinamica, caratterizzata da una fiducia nella terapia psicoanalitica della schizofrenia, declinò, innanzitutto a causa della scoperta dei farmaci antipsicotici avvenuta negli anni 1950, che permisero una rapida politica di dimissioni in molti ospedali e che spostarono sensibilmente il rapporto costi/benefici costringendo le amministrazioni pubbliche a cambiare direzione: la somministrazione degli psicofarmaci era estremamente meno costosa del pluriennale e complesso training degli psicoterapeuti della schizofrenia. Contemporaneamente, stava cambiando l'intera ideologia della psichiatria nordamericana (e in seguito anche europea) per andare in una direzione più biologica e allontanarsi dall'orientamento psicodinamico che aveva caratterizzato all'incirca i primi settant'anni del XX secolo (pochissimi sono gli psicoanalisti americani che oggi si dedicano ancora alla terapia della schizofrenia, uno è Michael Robbins, 1993, 2019). Tutte queste grosse trasformazioni ebbero un potente impatto negativo sulla psicoterapia della schizofrenia. Ma esse non furono le sole a incidere sull'entusiasmo di quei coraggiosi psicoanalisti che ancora tentavano la terapia individuale con gli schizofrenici: anche alcuni studi empirici gettarono ombre sulla reale efficacia di questo metodo di cura. Vediamoli brevemente.
Alcuni primi studi sperimentali Negli anni 1960 furono fatti due studi (May, 1968; Grinspoon, Ewalt & Shader, 1967, 1972) che dimostrarono che nella migliore delle ipotesi la psicoterapia aveva un'efficacia limitata sulla schizofrenia. Questi studi furono influenti, ma se si vanno a guardare le metodologie usate, si rimane colpiti dalla loro ingenuità: May ad esempio voleva dimostrare l'efficacia di una psicoterapia di sei mesi praticata da specializzandi in psichiatria su schizofrenici ospedalizzati; Grinspoon, Ewalt & Shader volevano dimostrare che la psicoterapia individuale era più efficace dei neurolettici in schizofrenici cronici ricoverati. In realtà furono fatti altri due studi, meno influenti, ma che riportarono risultati più ottimisti: Rogers et al. (1967) trovarono qualche risultato dalla psicoterapia di schizofrenici cronici anche se fatta da terapeuti poco esperti, ma i risultati comparivano solo dopo un anno e mezzo circa; O'Brien et al. (1972; vedi anche Mintz, O'Brien & Luborsky, 1976) paragonarono terapia individuale e di gruppo, non trovando grosse differenze, con la implicazione della importanza della terapia di gruppo in quando più cost-effective; Karon & VandenBos (1981) fecero uno studio a Detroit su un gruppo relativamente piccolo di schizofrenici, facendo molta attenzione a selezionare supervisori e terapeuti esperti (il fatto che in vari studi precedenti fossero stati usati terapeuti inesperti aveva sollevato molte critiche), e trovarono che una terapia psicoanalitica intensiva condotta da terapeuti esperti aveva effetti positivi se paragonata ai farmaci e al normale milieu ospedaliero; nel gruppo trattato con la psicoterapia vi erano meno disturbi del pensiero e maggior adattamento, inoltre la psicoterapia risultò anche più cost-effective perché, a causa del minor numero di ospedalizzazioni, era costata il 20% in meno nei primi 20 mesi e il 43% in meno durante i due anni di follow-up. Secondo Karon, che fu influenzato da John N. Rosen (1902-1993), uno psichiatra che negli anni 1950-70 aveva raggiunto una certa popolarità per una tecnica per la schizofrenia chiamata "analisi diretta", "il trattamento di scelta per la schizofrenia è la psicoterapia, che può essere efficace per i pazienti schizofrenici così come lo è per i nevrotici, con la differenza che per la schizofrenia il processo può essere molto più lungo". Comunque, come hanno osservato Gunderson et al. (1984, 1988), le conclusioni di questi primi studi, fatti peraltro con una metodologia non sempre rigorosa, possono essere le seguenti: 1) l'aggiunta di una terapia psicodinamica all'armamentario terapeutico per i pazienti schizofrenici non dà la certezza di ottenere risultati superiori a quelli dei soli farmaci; 2) in ogni caso un eventuale beneficio della psicoterapia non è imponente. Coloro però che ancora credevano nell'efficacia della psicoterapia della schizofrenia avevano mosso forti critiche contro queste ricerche, e le principali erano essenzialmente di quattro tipi: 1) come si è detto, non venivano quasi mai usati terapeuti esperti e motivati, ma solo specializzandi in psichiatria; 2) le psicoterapie non erano abbastanza lunghe da essere efficaci (ad esempio duravano sei mesi); 3) venivano scelti pazienti troppo gravi, quasi inguaribili; 4) gli strumenti di misurazione dei risultati non erano abbastanza sensibili alle modificazioni "psicodinamiche" o "intrapsichiche" prodotte dalla psicoterapia. Per questi motivi un gruppo di ricercatori di Boston, originariamente guidato da Alfred Stanton e poi da John Gunderson, progettarono un imponente studio sulla psicoterapia della schizofrenia, con criteri questa volta più rigorosi, per fare maggiore chiarezza in questo campo. Vediamo brevemente la metodologia e i risultati di questa ricerca (Stanton et al., 1984; Gunderson et al., 1984, 1988). In séguito verranno prese in esame altre ricerche, anche su terapie non individuali, per dare un quadro più completo del trattamento psicologico della schizofrenia, che infatti ha sempre più abbandonato la terapia individuale e si è spostato verso trattamenti famigliari e psicosociali; ricordo a questo proposito che al X International Symposium for the Psychotherapy of Schizophrenia (ISPS) (Stoccolma, 11-15 agosto 1991), organizzato dalla ISPS - che, come si ricorderà, era stata fondata da Christian Müller e Gaetano Benedetti a Losanna nel 1956 - si cominciò a discutere di cambiare nome alla associazione, considerando appunto che la maggior parte delle terapie ormai non erano più individuali ma famigliari e psicosociali, e poi nel 2012 fu votato il cambio del nome della ISPS, pur mantenendo lo stesso acronimo, da International Society for the Psychological Treatments of the Schizophrenias and Other Psychoses a International Society for Psychological and Social Approaches to Psychosis.
Lo studio di Boston Questa ricerca fu ideata nel 1972 e completata nel 1984. Si prestò una particolare attenzione a scegliere terapeuti esperti e motivati, che erano retribuiti. I pazienti non erano né troppo gravi né troppo lievi e tutti diagnosticabili con quelli che dovevano poi diventare i criteri del DSM-III (American Psychiatric Association, 1980). Furono paragonate due tecniche, definite EIO (Exploratory Insight-Oriented, cioè potremmo dire una tecnica "psicoanalitica") e RAS (Reality-Adaptive Supportive, cioè una tecnica più "di supporto", non interpretativa e quindi non psicoanalitica). I terapeuti-EIO erano psicoanalisti esperti, vedevano i pazienti tre volte alla settimana (in rari casi due), credevano nelle cause psicologiche della malattia e nell'utilità di analizzare il passato, i conflitti, l'inconscio, il transfert, etc. I terapeuti-RAS erano prevalentemente psicofarmacologi, vedevano i pazienti una volta alla settimana (in alcuni casi meno), credevano nelle cause biologiche della malattia e cercavano di adattare il paziente alla vita quotidiana. Fu possibile dimostrare tramite giudici indipendenti che i due gruppi di terapeuti erano diversi di fatto e non solo di nome, anche se si trovò che certe funzioni erano svolte da tutti (un certo supporto ed esame di realtà, attenzione ai problemi interpersonali, etc.). Furono reperiti 164 pazienti adatti, di cui solo il 60% rimasero oltre i 6 mesi (minimo utile per la ricerca), e il 30% oltre i due anni di follow-up. Quindi la ricerca fu condotta su 95 pazienti (età 18-35 anni), di cui 51 per 2 anni (28 RAS e 23 EIO). Tutti i pazienti ricevettero, a seconda del bisogno, anche regolare terapia farmacologica e di milieu. I risultati furono i seguenti. I pazienti nel tempo che resistettero nella terapia di supporto (RAS) risultarono diversi da quelli che resistettero nella terapia di insight (EIO): i primi avevano soprattutto i sintomi positivi della schizofrenia (deliri e allucinazioni) e un maggiore ottimismo nel miglioramento, mentre i secondi avevano soprattutto sintomi negativi (isolamento sociale e apatia), un maggior pessimismo nel miglioramento, una maggiore istruzione e una storia di precedenti psicoterapie. Merita a questo proposito aprire una breve parentesi per commentare questo reperto - e precisamente il fatto che i pazienti che traggono beneficio da terapie "espressive" (cioè introspettive o "psicoanalitiche") sono diversi da quelli che traggono beneficio da terapie "supportive" - perché verrà poi ampiamente corroborato dalle ricerche, tra gli altri, di Sid Blatt (2004, 2006, 2008; cfr. Migone, 2015) sulle personalità "anaclitica" e "introiettiva" (termini ripresi da Freud, 1905, 1915): le personalità anaclitiche sono più dipendenti dalle relazioni interpersonali (in caso di depressione, ad esempio, soffrono della paura di essere abbandonati), mentre le personalità introiettive sono caratterizzate da senso di autonomia, responsabilità, capacità di tollerare la solitudine, etc. (e in caso di depressione soffrono di senso di colpa, non di abbandono). Blatt dimostrò questo dato, che ha ovvie implicazioni per la tecnica terapeutica, riesaminando i più importanti studi sull'efficacia della psicoterapia (come quello della Menninger Foundation [Kernberg et al., 1972; Wallerstein, 1986, 1993], il noto studio multicentrico del National Institute of Mental Health [NIMH] sulla terapia della depressione [Elkin et al., 1989], etc.) e correlò i risultati ai tipi di personalità utilizzando appunto il suo modello della "polarità fondamentale" della personalità (vedi Blatt, 2006, pp. 754-757). Tornando allo studio di Boston, tutti i pazienti migliorarono, anche se non nel nucleo della schizofrenia, ma i pazienti-RAS (terapia supportiva) migliorarono di più nel funzionamento lavorativo, nel numero di ospedalizzazioni e in misura minore anche nell'adattamento sociale, mentre i pazienti-EIO (terapia psicoanalitica) migliorarono, anche se in modo modesto, nelle funzioni cognitive e dell'Io (ad esempio nella disorganizzazione del pensiero). Una delle implicazioni di questa ricerca è - nelle parole di Gunderson et al. (1988) - che per molti pazienti schizofrenici "una psicoterapia individuale, nella migliore delle ipotesi, sarebbe soltanto una perdita di tempo" (p. 261), e che è più consigliabile un intervento socioterapico (social skills training, etc.) e un atteggiamento supportivo, direttivo e rassicurante, come ad esempio quello "autorevole tipico del medico di famiglia", che diminuisce le paure e dà speranza, e volge la sua attenzione alle cose pratiche della vita quotidiana. Un'altra implicazione di questa ricerca è che non è vero che i risultati migliori vengono ottenuti dai terapeuti cosiddetti "più dotati", ma solo da un buon "accoppiamento" tra paziente e analista (patient/therapist match); in altre parole, anche terapeuti meno dotati riescono a produrre buoni risultati se sono accoppiati bene con certi pazienti. La psicoterapia esplorativa intensiva, cioè psicoanalitica, dovrebbe essere limitata ai casi in cui prevalgono i sintomi negativi (che tra l'altro non vengono di solito modificati dai farmaci), e in ogni caso non dovrebbe mai essere considerata come un intervento di prima scelta, e forse neanche di seconda scelta. Jerry Klerman (1984), commentando questi risultati, arrivò addirittura ad affermare che "le evidenze scientifiche non giustificano alcuna ulteriore ricerca sulla psicoterapia intensiva individuale della schizofrenia (…) basata su princìpi psicodinamici o interpersonali" (p. 611). In conclusione, secondo Gunderson, per la stragrande maggioranza degli schizofrenici l'intervento di prima scelta dovrebbe essere quello farmacologico, quello di seconda scelta l'intervento socioterapico e, se entrambi falliscono, l'intervento di terza scelta dovrebbe essere quello psicoterapeutico, soprattutto con quei pazienti in cui prevalgono i sintomi negativi. A simili conclusioni giunsero anche altri studi, tra cui quelli di Michael Stone (1986) e McGlashan (1984b), cui accenniamo adesso.
Il follow-up di McGlashan al Chesnut Lodge A metà degli anni 1980 fu fatto il noto follow-up di McGlashan (1984a, 1984b, 1986; McGlashan & Keats, 1988) sui pazienti schizofrenici, bipolari e borderline ospedalizzati al Chesnut Lodge, il famoso ospedale psicoanalitico in cui avevano lavorato Frieda Fromm-Reichmann, Harold Searles e altri, influenzati dal lavoro pionieristico di Harry Stack Sullivan che vi teneva i suoi seminari. McGlashan studiò il decorso di 446 pazienti gravi trattati al Chesnut Lodge dal 1950 al 1975 e fece un follow-up di 15 anni. Emerse che circa 2/3 degli schizofrenici - proprio come aveva osservato Kraepelin - non erano migliorati o erano peggiorati. Solo 1/3 dei bipolari invece erano peggiorati, e la stessa cosa si poteva dire dei borderline; i borderline però mostravano un certo miglioramento nella seconda decade dopo le dimissioni.
Le ricerche sulla "Emotività Espressa" Queste ricerche sono interessanti perché mostrano che un approccio psicologico alla schizofrenia volto a coinvolgere i familiari del paziente può essere molto efficace (Leff & Vaughn, 1985; Leff, 1988; Hooley, 1985; Kanter, Lamb & Loeper, 1987). Secondo una review (Kavanagh, 1992), gli studi sulla EE sono "il progresso più significativo nella terapia della schizofrenia dopo la scoperta dei neurolettici" (p. 616). Vediamoli brevemente. Questi studi, iniziati da Brown in Inghilterra negli anni 1950-60, sono poi stati continuati da altri ricercatori, tra cui Leff (1988), Vaughn, Hogarty, Anderson, Goldstein, Falloon, Tarrier, etc. Il contesto nel quale questi studi si sono sviluppati è il grande movimento di deistituzionalizzazione che avvenne in Inghilterra in quegli anni. Quello che è stato scoperto è che i pazienti che dopo le dimissioni presentavano un più alto numero di ricadute della schizofrenia vivevano in famiglie con un alto tasso di "emotività espressa" (EE), cioè caratterizzate da una atmosfera carica di alta tensione emotiva, ipercoinvolgimento, critiche e ostilità nei confronti del paziente, eccessiva vicinanza fisica (anche misurabile con un alto numero di ore settimanali "faccia-a-faccia" con i familiari ipercoinvolti), e così via. Si formalizzò quindi una tecnica, chiamata "psicoeducazionale" (Anderson et al., 1986), volta ad abbassare il tasso di EE nei familiari tramite una chiarificazione riguardo ai sintomi del familiare schizofrenico, a "educarli" sulle cause e sul decorso della schizofrenia. I risultati sono stati estremamente promettenti: le ricadute della schizofrenia a un anno dalle dimissioni scendono da circa il 50% a una percentuale che va dallo 0% al 12% a seconda degli studi. Dal punto di vista psicoanalitico, si può dire che con questa tecnica si interrompe quel circolo vizioso di ansia e contenuti disturbanti che, in un continuo feed-back di identificazioni proiettive, viene rimbalzato dal paziente ai famigliari e viceversa (Migone, 1991b, 1993, 1995 cap. 7). Se i familiari imparano a contenere queste ansie, mostrando al parente schizofrenico che è possibile convivere con esse senza per questo esserne distrutti, si comportano un po' come un terapeuta, permettendo al paziente di introiettare nuove capacità adattive, o di modificare il suo Super-Io arcaico tramite nuove introiezioni. Si può dire che questa modalità terapeutica, ben nota agli analisti che oggi fanno riferimento al concetto di identificazione proiettiva (Ogden, 1979, 1982), non sia molto lontana da quella descritta da Strachey nel 1934.
I contributi di Hogarty Un posto importante in questa review merita Gerard E. Hogarty (1935-2006), che ha dedicato la vita a studiare la schizofrenia compiendo anche rigorosi studi controllati (Hogarty, 2002; Hogarty et al., 1986, 1995, 1997, etc.). Sviluppò quattro metodi in successione, ciascuno dei quali basato sul tentativo di migliorare i precedenti, e facendo sempre attenzione a tenere uniti l'approccio scientifico e quello umano (cfr. Eack, Schooler & Ganguli, 2007): 1) La Major Role Therapy (MRT) è stata un precursore del clinical case management. I suoi effetti sui tassi di recidiva furono analizzati nell'NIMH Collaborative Outpatient Study in Schizophrenia, uno studio randomizzato su 400 pazienti (clorpromazina + MRT, solo clorpromazina, MRT + placebo, solo placebo). Il 20% delle dosi standard di farmaci antipsicotici era altrettanto efficace delle dosi regolari, col vantaggio di avere meno effetti collaterali. La MRT forniva una assistenza pragmatica e compassionevole che aiutava i pazienti nei principali ruoli della vita, come completare la scuola, impegnarsi in un lavoro retribuito e/o svolgere le attività domestiche. 2) La amily Psychoeducation (psicoeducazione famigliare), un approccio per allearsi con - ed educare - i membri della famiglia per ridurre il disagio intra-famigliare, si è mostrata altamente efficace. Alla University of Pittsburgh Hogarty si è unito alla nota terapeuta familiare Carol M. Anderson in questo progetto. 3) La Personal Therapy (PT) era una psicoterapia individualizzata e flessibile, mirata a insegnare le tecniche di gestione dello stress e di regolazione emotiva. Infatti, i segni prodromici di una ricaduta si manifestano più spesso con una disregolazione affettiva piuttosto che con i sintomi positivi della psicosi. L'obiettivo della PT era ridurre le ricadute nel secondo e terzo anno dopo le dimissioni. I precedenti trattamenti psicosociali si concentravano solo sulla modifica dell'ambiente, direttamente (es. psicoeducazione famigliare) o indirettamente (es. social skills training), piuttosto che insegnare ai pazienti a gestire il disagio interno: di conseguenza, quando vi era uno stress esterno, spesso vi era una ricaduta.. Cognitive Enhancement Therapy (CET) (terapia del potenziamento cognitivo) è un approccio comprensivo per il miglioramento dei deficit cognitivi, sociali e non. Il programma combina una formazione neurocognitiva individuale con esercizi cognitivi per migliorare l'attenzione, la memoria e il problem-solving, e incontri di gruppo per migliorare le capacità socio-cognitive come assumere la prospettiva degli altri,, leggere i segnali non verbali e conoscere le norme di comportamento. I miglioramenti rispetto al gruppo di controllo, che consisteva in terapia di supporto, si sono manifestati anche a un anno di follow-up.
Il Soteria Project di Loren Mosher Merita di essere fatto un cenno al Soteria Project di Loren R. Mosher (1933-2004), che era uno studioso della schizofrenia e fu direttore del Center for Studies of Schizophrenia del National Institute of Mental Health (NIMH) dal 1968 al 1980, dedicando l'intera carriera professionale alla ricerca di un trattamento umano ed efficace per i pazienti affetti da schizofrenia. Questo progetto innovativo consisteva in residenze simili a normali abitazioni, molto diverse quindi dagli ospedali, dove i pazienti potevano soggiornare, anche senza farmaci, in un ambiente tranquillo e affiancati da personale non medico. Le Soteria Houses si diffusero in vari Paesi, a Berna ad esempio Luc Ciompi aveva fondato la Soteria Berna.
La meta-analisi di Malmberg, Fenton & Rathbone (2001) Malmberg, Fenton & Rathbone (2001) vent'anni fa pubblicarono sulla Cochrane Library una review sull'efficacia della terapia psicoanalitica nella schizofrenia per cercare di dirimere la questione, selezionando studi randomizzati. Ne trovarono solo quattro che potevano rientrare in questa review, per un totale di 528 pazienti e 5 paragoni tra trattamenti diversi. Paragonando la psicoterapia individuale versus farmaci, i pazienti in psicoterapia impiegavano più tempo per arrivare alle dimissioni; non vi erano differenza tra i due gruppi nel numero di pazienti che venivano riospedalizzati a lungo termine; a 12 mesi, i pazienti in psicoterapia avevano bisogno di meno farmaci rispetto a quelli trattati con farmaci. Se si paragonava la psicoterapia individuale più farmaci versus solo farmaci, non vi erano differenze tra i tassi di suicidio e miglioramento tale da permettere le dimissioni. I dati sulle riospedalizzazioni a lungo termine erano equivoci. Nello studio di Boston (Gunderson et al., 1984), esaminato prima, i pazienti EIO e RAS erano uguali in termini di riospedalizzazioni, ma i pazienti in EIO rimanevano di più in terapia. Non vi erano differenze tra terapia individuale e di gruppo. La conclusione è che non vi sono prove evidenti che la terapia psicodinamica sia più efficace di altri interventi, e comunque non sarebbe indicata nei pazienti ospedalizzati.
L'approccio finlandese dell'Open Dialogue Un interessante approccio alla prevenzione degli episodi psicotici, di cui si parla sempre di più negli anni recenti, è l'Open Dialogue ("dialogo aperto"), praticato da più di trent'anni dal gruppo di Jaakko Seikkula nella Lapponia occidentale (Finlandia). Vari Paesi stanno lavorando per applicarlo e l'interesse è molto vivo anche in Italia: otto Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) di varie Regioni italiane (due DSM di Roma e due di Torino, e quelli di Catania, Modena, Savona, Trieste) hanno avviato un progetto pilota finanziato dal Ministero della Salute, in collaborazione con il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), per verificare la possibilità di integrarlo nei Servizi di salute mentale italiani (cfr. Putman & Martindale, 2021, capitoli 17 e 20).. Estremamente interessante è il retroterra teorico di questo approccio, perché è interdisciplinare, con riferimenti anche esterni al nostro campo. I suoi punti di riferimento infatti sono negli studi di Lev Vygotsky sullo sviluppo del linguaggio e del linguista russo Michail Bachtin sull'opera di Dostoevskji, in cui il dialogo viene identificato come elemento costitutivo dell'essere: "Al centro del mondo artistico di Dostoevskji deve trovarsi il dialogo, e il dialogo non come mezzo, ma come fine autonomo. (…). Essere significa comunicare dialogicamente. Quando il dialogo finisce, tutto finisce" (Bachtin, 1929, p. 331). L'intenzione primaria di Dostoevskji è il dialogo corale, "far passare il tema attraverso voci numerose e diverse" (Bachtin, 1929, p. 351, corsivi nell'originale). Il gruppo di Seikkula si è originariamente ispirato dall'"approccio adattato al bisogno" del noto psicoanalista finlandese Yrjö Alanen (1997), da cui poi si è reso autonomo, avvicinandosi alla terapia sistemica (molto utile nella schizofrenia) per arrivare infine all'Open Dialogue. Diversamente dal Milan Approach, la famosa "scuola di Milano" di Mara Selvini Palazzoli et al. (1975), che operava prevalentemente fuori dall'ospedale, l'Open Dialogue è utilizzato anche su pazienti ospedalizzati; inoltre è stata abbandona l'idea del terapeuta che "dall'alto" apporta un cambiamento nel sistema familiare, ma ci si prefigge lo scopo di ascoltare le diverse voci presenti negli incontri. La crisi viene osservata precocementee in vivo nell'ambiente naturale in cui ha avuto origine, anche a casa del paziente (Anderson & Goolishian, 1988), e la famiglia non è mai vista come l'oggetto ma come l'agente del cambiamento. Agli incontri partecipano almeno tre operatori del team, il paziente, la sua famiglia e altre figure importanti della sua rete sociale, come a volte i vicini di casa (viene in mente la tecnica dell'etno-psicoanalista Tobie Nathan, che - però nel lavoro con immigrati e con modalità diverse - a Parigi includeva nelle sedute diversi operatori e vari membri del contesto sociale del paziente). Obiettivo degli incontri, in cui ci si siede in cerchio, è creare un nuovo linguaggio e dare nuovi significati al comportamento problematico (Seikkula, 2014, p. 99), proprio come avviene nella tradizione psicodinamica; inoltre da parte del teamm non vi è alcuna pianificazione degli argomenti dell'incontro, come in una sorta di associazioni libere in gruppo. Per evitare l'ospedalizzazione, l'intervento deve essere immediato, entro 24 ore dal contatto iniziale, perché nei primissimi giorni è possibile parlare con il paziente di cose che poi diventano inaccessibili (ad esempio contenuti di allucinazioni e deliri); spesso si riesce a non arrivare a una diagnosi di schizofrenia dato che i sintomi recedono presto. Si cerca di evitare la somministrazione di antipsicotici, preferendo gli ansiolitici per favorire il sonno. Importante è la capacità del team di tollerare situazioni di incertezza, quindi di non sedare la crisi con i farmaci e di non avere fretta nel prendere decisioni. Questa fondamentale capacità del team è facilitata da un vero e proprio training basato su discussioni riflessive e ascolto reciproco, nonché su una formazione psicoterapeutica per tutti i membri del team (infermieri e medici compresi). Grazie a questo approccio, nella Lapponia occidentale ogni anno viene coinvolto il 5-10% della popolazione, e diminuisce in modo consistente lo stigma provocando, a feed-back, ricadute positive su possibili nuovi casi di schizofrenia, che su 100.000 abitanti sono passati da 33 nel 1985 a 2 nel 2000 (Seikkula, 2014, p. 95). Per un approfondimento su questo approccio, si veda Seikkula (2014), Bessone & Tarantino (2015), Tondi (2015), Putman & Martindale (2021) e il film documentario di Daniel Mackler (2011), che mostra molto bene il modo di lavorare nell'Open Dialogue (viene intervistato anche Robert Whitaker, autore del libro del 2010 Indagine su un'epidemia, discusso anche nel noto saggio di Marcia Angell [2011] sull'attuale crisi della psichiatria). Dal punto di vista psicoanalitico, è evidente che questa tecnica permette l'inizio della costruzione di un polo "mentalizzante" o metacognitivo, di un Io osservante, in cui il paziente non si identifica più con una sola voce, la sua realtà non è l'unica ma è arricchita da punti di vista diversi, dal carattere corale e polifonico del dialogo, proprio come nella lettura dostoevskiana di Bachtin. Il paziente amplia la propria capacità riflessiva rispecchiandosi nelle parole degli operatori durante gli incontri, privilegiando cioè lo sviluppo di una nuova funzione psicologica, come già aveva intuito a metà del secolo scorso Ernst Kris (1956) quando sottolineava l'importanza della funzione dell'insight rispetto al contenuto dell'insight. In una psichiatria dominata dal "paradigma tecnologico" (cfr. Bracken et al., 2012) - in cui i farmaci ormai rappresentano una delle principali variabili della cura svalorizzando il ruolo dell'ascolto e del dialogo, e in cui la propaganda delle case farmaceutiche penetra in ogni anfratto della cultura del settore - queste "buone pratiche" psichiatriche dei colleghi finlandesi nella loro "semplicità, che è difficile a farsi" rappresentano una ventata di aria fresca e di speranza.
Due studi naturalistici all'Austen Riggs Center Meritano infine di essere citati due studi naturalistici, il primo del 1994 e il secondo terminato nel 2021, sui pazienti dell'Austen Riggs Center (Stockbridge, Massachusetts), che è un ospedale psicoanalitico con una tradizione prestigiosa (vi hanno lavorato Erik Erikson, David Rapaport, Robert Knight, Otto Will, Merton Gill, Roy Schafer, etc.). Si può dire che l'Austen Riggs Center sia l'unico ospedale psicoanalitico rimasto negli Stati Uniti, dopo la chiusura del Chestnut Lodge (fondato nel 1910 e chiuso nel 2001) e della Menninger Foundation (fondata nel 1919 e trasferita a Houston nel 2003). Nel primo studio, Blatt et al. (1994) hanno verificato una discreta efficacia della terapia psicoanalitica a quattro sedute alla settimana in 90 pazienti ospedalizzati seguìti per nove mesi ed esaminati con una batteria di test tra cui il Rorschach, il Thematic Apperception Test (TAT), la Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS), il disegno della figura umana, etc. Il secondo studio è una ricerca pubblicata su Psychiatry (la rivista fondata da Sullivan nel 1938) da Chris Perry & J. Christopher Fowler (2021), che hanno studiato per 14 anni i pazienti che avevano avuto un ricovero durato dai due ai tre anni. è uno studio naturalistico su pazienti gravi, con diagnosi multiple, difficili da trattare (treatment-resistant), e l'obiettivo era quello di vedere se miglioravano e in quanto tempo. Si sono focalizzati sul concetto di guarigione psicodinamica, guardando cioè non solo alla modificazione dei sintomi ma al miglioramento globale, e l'hanno validata in modo convergente con 12 scale che misuravano i sintomi e il funzionamento. Il risultato è che questi pazienti gravi possono migliorare se trattati nel lungo periodo. I pazienti erano 226 adulti, di cui il 75.2% donne. Un sottogruppo di 54 pazienti vennero esaminati periodicamente con la Psychodynamic Conflict Rating Scales (PCRS), risultando che 12% di questi erano del tutto guariti dopo una media di 11,63 anni, e 14,81% hanno anche raggiunto un buon adattamento. Vi furono miglioramenti anche nei sintomi (64,29%), nel funzionamento sociale (87,50%), e nel funzionamento psicodinamico (50%). Le conclusioni mostrano che è possibile ottenere un miglioramento, anche se a lungo termine, nel funzionamento globale e nell'adattamento sociale.
Discussione Dalle ricerche prese in rassegna sulla terapia psicoanalitica individuale delle psicosi emerge chiaramente che è più efficace una psicoterapia supportiva, quindi non psicoanalitica in senso stretto. Un rapporto terapeutico basato sulla rassicurazione e su una identificazione col terapeuta che fornisce anche esperienze correttive (Alexander et al., 1946) porterebbe a migliori risultati che non un lavoro volto primariamente alla ricerca dell'insight, arrivando alla conclusione che nelle psicosi l'"oro puro" della psicoanalisi è meno prezioso del "bronzo" della psicoterapia (Freud, 1918, p. 28; vedi a questo proposito McGlashan & Nayfack, 1988). Freud peraltro, come ricordato all'inizio, riteneva che la tecnica psicoanalitica basata sull'interpretazione e l'analisi del transfert non fosse indicata per gli psicotici. Non solo, ma va anche detto - come tanti autori hanno fatto notare - che la tecnica che si può definire "ortodossa" o "classica", cioè basata sull'uso privilegiato della interpretazione verbale e della tendenziale eliminazione degli aspetti relazionali, non era praticata da Freud, il quale era molto flessibile, per niente rigido con i suoi pazienti, ponendosi anche come oggetto di identificazione affettiva. Freud insomma, se così si può dire, non è mai stato un "freudiano", come si può vedere bene da vari resoconti di suoi pazienti e anche, ad esempio, nel simposio sui fattori curativi tenuto al congresso dell'International Psychoanalytic Association (IPA) di Marienbad del 1936 quando Freud era ancora in vita e faceva sentire la sua influenza. La svolta avvenne 25 anni dopo, al congresso di Edimburgo del 1961, quando con una curiosa marcia indietro la maggioranza degli analisti che intervennero (la Segal, Kuiper, Garma, la Heimann, etc.) non vollero sentir parlare di fattori curativi che non fossero l'interpretazione (insistendo per di più che doveva essere "vera"). Invano, in quel dibattito, Sacha Nacht (1962) tentò di sottolineare l'importanza della "presenza" e della "umanità" dell'analista come fonte di identificazioni, e Max Gitelson (1962), proponendo il concetto di funzione "diatrofica" dell'analista (cioè di nutrimento, di supporto), dovette difendersi dagli attacchi ricevuti dicendo, come in una sorta di concessione, che poteva essere utile eventualmente solo nei pazienti borderline o all'inizio della terapia per poi passare alla psicoanalisi "vera e propria". A Edimburgo venne sancita l'importanza di quello che, con un gioco di parole, si può definire "setting asettico", non inquinato dalle impurità della relazione affettiva con l'analista, il quale, come lo definii anni fa (Migone, 1995 cap. 6, 2004 p. 151), aveva subìto una sorta di "personectomia", cioè di asportazione chirurgica della sua personaa dal rapporto col paziente (la metafora del chirurgo qui può essere appropriata anche perché non va dimenticato che gli analisti americani allora erano solo medici, gli psicologi conquisteranno il diritto di accedere al training solo dopo la causa legale conclusa alla fine degli anni 1980; per un resoconto di quel processo, rimando a Migone, 1987). La questione di fondo è cosa si intende per "psicoanalisi", un problema che è stato dibattuto infinite volte nella storia del movimento psicoanalitico senza essere risolto in modo unanime (cfr. Migone, 2011, 2020). Come ho argomentato in diverse occasioni (Migone, 1991a, 1995 cap. 4, 2000, etc.; Green, Kernberg & Migone, 2008), un grosso errore fatto dal movimento psicoanalitico è stato quello di identificare col termine "psicoanalisi" non una teoria generale ma solo una determinata tecnica, e precisamente quella "classica" (lettino, alta frequenza settimanale, uso privilegiato dell'interpretazione etc.). In altre parole, e per spiegare meglio quello che intendo dire, si potrebbe argomentare, ad esempio, che lo studio di Boston non era sulla efficacia della psicoanalisi della schizofrenia, ma sulla efficacia di una particolare tecnica psicoanalitica che era stata insegnata a un gruppo di colleghi in un determinato periodo storico e in un determinato Paese (gli Stati Uniti); era quindi uno studio con implicazioni anche sociologiche. Per brevità, cito da un brano tratto da un confronto che ebbi anni fa con André Green e Otto Kernberg: "Freud (1922, p. 439), quando diede una definizione di psicoanalisi, disse che essa era tre cose contemporaneamente: un metodo di ricerca, una tecnica terapeutica, e una teoria psicologica. Quello che però molti scordano è che questi tre aspetti erano concepiti come inscindibili l'uno dall'altro. Il problema è sorto quando col passare degli anni il polo teorico è andato sempre più frammentandosi a causa della formazione di diverse scuole (alcune in contrapposizione tra loro), per cui è diventato sempre più difficile, se non impossibile, mantenere una identità unitaria del movimento. Frammentandosi o vacillando il polo teorico, vi è stata quindi la naturale tendenza a trovare un comune denominatore nel polo tecnico (lettino, alta frequenza settimanale ecc.), anche perché apparentemente più oggettivabile, più concreto e più funzionale per i pressanti interessi di un gruppo professionale ormai ben organizzato anche a livello internazionale. Il problema però sorse nella misura in cui non divenne più del tutto chiaro il rapporto tra la teoria (che era diversificata) e la tecnica (che stranamente rimaneva la stessa, quella classica, sancita anche dalle regole dell'IPA). Rompendosi il legame stretto tra teoria e tecnica, si incrina lo statuto scientifico della disciplina. Quello che intendo dire è che, se vogliamo mantenere stretto il legame tra teoria e tecnica, dobbiamo per forza argomentare che anche una tecnica supportiva (o "psicoterapeutica") è "psicoanalisi" se in quel momento è l'unico intervento possibile che un l'analista può fare con un determinato paziente alla luce delle sue difese. Al contrario, se uno psicoanalista tratta un paziente grave con una "psicoanalisi non modificata", questa non è psicoanalisi ma "cattiva psicoanalisi" " (Migone, in: Green, Kernberg & Migone, 2008, pp. 217-218). Il termine "psicoanalisi" quindi non dovrebbe essere utilizzato per riferirsi, in un modo riduttivo che peraltro porta a vicoli ciechi, solo a una determinata tecnica ma, come era anche nelle intenzioni di Freud, a una teoria generale che può essere declinata in diverse tecniche secondo le varie situazioni cliniche (i borderline, gli psicotici, le istituzioni, i gruppi, l'infanzia, etc.). Questo peraltro era il programma della Psicologia dell'Io, che dava importanza al rispetto delle difese, del punto di vista adattivo e del livello di sviluppo, e che a ben vedere implicava che si sciogliesse la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia (non a caso il dibattito sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia non è mai esistito all'interno di scuole diverse dalla Psicologia dell'Io, come ad esempio quella kleiniana, dove veniva usata la stessa tecnica anche per gli psicotici e i bambini) (cfr. Gill, 1984; Migone, 1991a, 1995 cap. 4, 2000). Se per psicoanalisi intendiamo una teoria generale che può essere declinata in diverse tecniche - come peraltro è nella medicina - non viene rotto il rapporto tra teoria e tecnica, mantenendo quindi lo statuto scientifico della disciplina. Va menzionata, a questo proposito, la revisione della teoria della tecnica "al di là dell'interpretazione" proposta di John Gedo (1979), il quale propose uno "schema gerarchico" che prevede cinque modi di funzionamento psichico che seguono una progressiva maturazione, ciascuno con cinque variabili: modello di funzionamento, principio di regolazione, difesa tipica, tipico problema o pericolo, intervento tecnico (per un approfondimento, rimando a Migone, 1985). Così diverse modalità terapeutiche rientrano in quella che possiamo definire "psicoanalisi" (una proposta alternativa alla gestione dei modelli multipli in psicoanalisi fatta negli anni 1980, come è noto, fu quella di Fred Pine [1988, 1990], che non posso discutere in questa sede). Nel 1988, in occasione del Novecentenario dell'Università di Bologna, organizzammo un Convegno sulla schizofrenia (Migone, Martini & Volterra, 1988), al quale invitammo vari ricercatori, tra cui John Gunderson, Gaetano Benedetti, Loren Mosher, Julian Leff, Michael Robbins, Luc Ciompi, Mario Maj, Georges Lanteri-Laura, Carlo Perris, Norman Sartorius, etc. Nel dibattito dopo la relazione di Gunderson, che aveva presentato i risultati dello studio di Boston pubblicato quattro anni prima, vi fu un confronto molto serrato tra Gunderson, Benedetti, Leff, Galli e altri sulla terapia psicoanalitica della schizofrenia; per non allungare troppo la mia relazione non posso riportarlo in questa sede, per cui rimando a un altro lavoro (Migone, 1995, cap. 6). Vorrei terminare con una citazione di Freud (1910), che mostra bene cosa era per lui la psicoanalisi: "La comunicazione di quanto l'ammalato non sa perché lo ha rimosso è soltanto uno dei preliminari necessari alla terapia. Se la conoscenza dell'inconscio fosse tanto importante per il paziente quanto ritiene chi è inesperto di psicoanalisi, basterebbe per la guarigione che l'ammalato ascoltasse delle lezioni o leggesse dei libri. Ma tali misure hanno sui sintomi della malattia nervosa la stessa influenza che la distribuzione di liste di vivande in tempo di carestia può avere sulla fame" (p. 329).
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