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La Pace e la gioia sono possibili

Maurizio Mottola


Da venerdì 19 a mercoledì 24 marzo 2010 si è svolto a Castelfusano (Roma) il Ritiro di consapevolezza La Pace e la gioia sono possibili, con Thich Nhat Hanh e la comunità monastica di Plum Village. Thich Nhat Hanh, nato in Vietnam nel 1926, è un monaco zen che durante la guerra ha rinunciato all'isolamento monastico per aiutare attivamente il suo popolo e da allora ha sempre affiancato alla pratica religiosa un impegno sociale e politico per la pace.

È stato proposto nel 1967 da Martin Luther King per il premio Nobel per la pace ed è stato a capo della delegazione buddhista vietnamita durante gli accordi di pace di Parigi, che conclusero la sanguinosa guerra del Vietnam. Attualmente vive in una piccola comunità, il Plum Village, nel sudovest della Francia, dove insegna, scrive e si adopera in favore dei profughi di tutto il mondo. Viaggia regolarmente in America ed in Europa per insegnare e per guidare ritiri sull'arte di vivere consapevolmente e spesso è venuto anche in Italia. Ha pubblicato moltissimi libri in inglese, francese e vietnamita, dei quali molti tradotti in italiano.

Nel ritiro di consapevolezza Thich Nhat Hanh ha indicato le varie pratiche di consapevolezza incardinate nelle basilari attività della vita quotidiana (respiro consapevole, contemplazioni del cibo, camminata zen, nobile silenzio) ed ha trasmesso insegnamenti ed addestramenti alla consapevolezza.

Le cose (Dharma) sono prodotte dalla mente (Citta) e coloro che vivono nell'ignoranza le considerano reali e dotate di esistenza autonoma. In realtà, le cose dipendono dalla mente e se la mente non esistesse nemmeno le cose esisterebbero. Tutti i fenomeni sono quindi illusori: sia l'essere sia il non essere. Il linguaggio è una convenzione, una costruzione umana che non rende conto della natura della realtà; l' essenza delle cose non può essere chiarita dalle denominazioni verbali. La liberazione dall'ignoranza comporta quindi il superamento delle funzioni mentali.

La condizione esperienziale da raggiungere è paradossale: mediante la mente si deve cercare di far cessare il funzionamento della mente. E' lo stesso paradosso che si presenta nella filosofia di Schopenhauer nel pensiero occidentale: la volontà - unico agente reale - deve essere sconfitta da se stessa. Realizzando il risultato del superamento della mente, si comprenderà finalmente la limitatezza del linguaggio e del pensiero discorsivo ed entrambi saranno completamente abbandonati. Si capirà allora che l'attività intellettuale, in base alla quale operiamo una distinzione tra le cose - tra soggetto ed oggetto - è erronea. L'abbandono del pensiero dualistico comporta anche l'eliminazione della distinzione tra conoscenza ed ignoranza.

Dunque, alla mente non corrisponde nulla di reale, perché altrimenti - se la mente esistesse realmente - si coltiverebbe ancora un'attività intellettuale, distinguendo la mente dalle cose -cioè il soggetto dall'oggetto. Prima della liberazione postulare l'esistenza della mente è utile, poi con l'illuminazione (il risveglio, la saggezza) si scopre che ogni concetto (e quindi la "mente" stessa) non è altro che un fardello. A questo punto l'unica conclusione che possiamo trarre è che la logica ed il linguaggio non sono strumenti che ci permettono di conoscere la realtà, per cui dovremmo sbarazzarcene.

Si consideri infatti l'esistenza di una cosa. In realtà, una cosa non è mai autonoma, cioè caratterizzata da una "natura propria" (Svabhava) e dipende sempre da qualcos'altro. Ciò implica che l'esistenza separata è inammissibile; per giustificarla si dovrebbe sempre chiamare in causa l'esistenza dì un'altra cosa. Si dovrà dunque ammettere che una cosa esista in un'altra? Anche questa è un'assurdità. Allora, se non si riesce a provare che le cose esistono a se stanti oppure in altre cose, non si potrà applicare loro le quattro alternative o proposizioni che assumono l'esistenza come fondamento (l'esistenza della cosa/ la non esistenza della cosa/ l'affermazione dell'esistenza e della non esistenza della cosa/ la negazione dell'esistenza e della non esistenza della cosa). Cioè, a causa dell'estrema mutevolezza della realtà, sarebbe impossibile trovare un punto di riferimento e sostenere che esistono cose a cui si possano applicare le denominazioni; nello stesso tempo, non si può nemmeno dire che le cose non esistono.

Dunque, le cose sono indefinibili e la realtà è "vuota" (Sunya). Il termine "vuoto" allude al fatto che la realtà è priva di significato; è il "nonsense" che ci si para davanti come vera natura dell'universo. La logica ed il linguaggio hanno un valore provvisorio e propedeutico: ci fanno capire che non approdiamo a nulla finché ci affidiamo ad essi: sono pur sempre utili però al livello della verità "relativa" (Samvrti). Se riusciamo ad abbandonarla, attingeremo ad un livello superiore, la verità "assoluta" (Paramartha). Comprenderemo allora che le cose sono vuote: il che non significa che non esistono, ma solo che sono prive di senso e non come vorremmo che fossero. Solo quando riusciremo ad abbandonare ogni opinione sulla realtà, il nonsense del vuoto si manifesterà in tutta la sua ampiezza.

II termine "vuoto" (Sunyata) non caratterizza una condizione privativa, uno stato di manchevolezza: esso si riferisce anzi ad una realtà estremamente ricca e concreta, che si rivelerà finalmente come tale non appena smetteremo di deformarla con il pensiero. II termine è peraltro metaforico e non allude all'esistenza di un'entità corrispondente, definibile come il Vuoto, riferendosi soltanto ad una diversa consapevolezza nei confronti della realtà.

L'apertura al vuoto, al nonsense comporta che non si potrà più formulare alcuna affermazione, poiché tutte si rivelerebbero indimostrabili ed infondate. La distinzione tra gli opposti -base della logica e del linguaggio- cadrebbe ed ogni opinione -in quanto insostenibile ed illogica- diverrebbe inconsistente.

Con argomentazioni estremamente logiche e rigorosamente consequenziali viene asserito che la logica è invece illogica! La metodologia adottata è evidentemente paradossale: spingere la logica al punto in cui essa si ribella a se stessa, dimostrandosi infondata e contraddittoria. Tutto ciò con molti secoli di anticipo rispetto all'atteggiamento analogo assunto da Ludwig Wittgenstein nel Tractatus logicus-philosophicus, dove per buona parte dell'opera -con argomentazioni rigorosamente logiche- il filosofo austriaco dimostra che la logica è inconcludente, per poi sbarazzarsene del tutto nel finale.

II contenuto antidottrinario, antidogmatico e dissacrante ha evitato allo ZEN di essere sia ideologia che religione ed a basare la saggezza ovvero l'illuminazione nient'altro che nella consapevolezza della vacuità delle opinioni e nella condizione esperienziale in cui si riconosce che la vita non ha senso. Insomma invece dell'essere e del non essere - categorie di opposti fuorviantì perché prodotti dalla mente - ecco il "vuoto", che non è il nulla, ma è anzi l'espressione di una straordinaria pienezza - la "Tathata "-; con questo termine che significa "è così" viene indicata la natura autentica della realtà, che potrà apparire in tutto il suo spessore, se solo si sospenderà il gioco della logica e del linguaggio e cioè la razionalità abituale.

Questa è la basilare lezione dello ZEN: esso persegue un intervento chirurgico con il superamento della mente, piuttosto che l'intervento palliativo delle cure della mente.

L'attuale costruttivismo sembrerebbe essere una versione odierna della posizione ZEN: entrambi sottolineano che la mente che abbiamo non è in grado di rapportarci adeguatamente con la realtà, perché mentre la realtà è mutevole e contemporanea, la mente è invece zavorrata attraverso la memoria al passato e sbilanciata in avanti attraverso la proiezione nel futuro. II salto diviene sempre più grosso e la mente stenta sempre di più a mettersi in rapporto con il reale. Dovrebbe andare di pari passo con la realtà, ma questo sarebbe possibile solo se ogni individuo possedesse una mente propria, personale. Ma ciò non è possibile perché la mente è di fatto una vera e propria proiezione della società dentro ognuno di noi. Infatti, ognuno di noi è nato con un cervello che è il meccanismo, mentre la mente è l'ideologia, cioè l'insieme di apprendimenti e condizionamenti che si producono nell'interazione cervello-società. Con un'affermazione drastica la mente è dunque l'occupazione del proprio cervello da parte del contesto sociale.

Non si può non comunicare è uno dei principi fondamentali dell'approccio costruttivista di Paul Watzlawick; ed ecco delinearsi altri punti di contatto con lo ZEN: se non si può non comunicare perché la mente è il raccordo tra cervello e società, allora il folle è la disgraziata vittima del crollo della mente, del suo inceppamento, della sua funzione di interfaccia tra individuo e società. II folle è perso a se stesso perché soccombe allo sfascio della mente che è paradossalmente il tramite di connessione con la società.

Ma il contrario non è l'equivalente della saggezza: non l'equilibrio della mente - cioè la salute mentale -, ma solamente il superamento della mente, lo stato di non mente (di percezione diretta dell'esistenza senza mediazione alcuna) porta alla consapevolezza che rende realizzati, risvegliati, fuori del dualismo e della coppia di opposti propri della mente. La mappa non è il territorio e quindi la mente non potrà mai comprendere la realtà, anzi sarà il filtro distorsivo nell'interazione con la realtà. Allora la definizione di autori costruttivisti del delirio come verità privata sarà solo la ridefinizione con un linguaggio di oggi dei paradossi dello ZEN, per il quale la mente è l'allucinazione per antonomasia della realtà.


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