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Psicoterapia - Documenti e Comunicati



Conversazione su “La morte e l’archeologia” con Francesco Roncalli

Maurizio Mottola


Si è svolto sabato 17 aprile 2010 a Napoli, a Nea Zetesis Istituto di Psicologia Umanistica Esistenziale e Transpersonale, nell'ambito del Corso in Tanatologia Psicologia del vivere e del morire, il seminario La morte e l'archeologia, condotto dall'archeologo Francesco Roncalli, al quale abbiamo posto alcune domande.

Qual è il rapporto tra morte ed archeologia? Un rapporto che si può definire paradossale, se si pensa all'altissima percentuale costituita dai reperti di pertinenza funeraria nel quadro complessivo delle testimonianze a noi pervenute dall'antichità, che fanno l'oggetto delle ricerche dell'archeologo. E il paradosso sta sia sul versante del soggetto che indaga che su quello della realtà indagata. Perché, da un lato, l'archeologo "chiede" al corredo della morte che incontra notizie sulla vita che l'ha preceduta, sui costumi che l'hanno caratterizzata, sulle forme che si è data: abitazioni, insediamenti, attività economiche, strutture sociali, rapporti, produzioni artistiche e artigianali, eccetera; per soprammercato poi, nel far questo (studiare, confrontare, schedare, catalogare: tutti, beninteso, passaggi indispensabili) è indotto ad una freddezza simile a quella dell'entomologo che, infilzando la farfalla con lo spillo nel sughero (nella specie giusta, al posto giusto), la uccide una seconda volta. Il dramma esistenziale della morte ha poco spazio in tutto questo. Dall'altro lato vi sono, appunto, i costumi indagati. Primo fra questi, la "manipolazione" della morte. Riti di sepoltura, arredo e corredo funerario, forme date a urne o sarcofagi, epitaffi, eccetera: tutto risponde alla duplice esigenza di esorcizzare la morte sia per il defunto che per i sopravvissuti. Per il primo ideando e modellando un "dopo" che lo gratifichi e nel quale possa riconoscersi, per i secondi accelerando ritualmente il processo di "cicatrizzazione" del trauma inferto dall'assenza alla comunità. Come si vede, anche su questo versante la morte è, per così dire, descritta al negativo, nella sua stessa negazione. Solo l'artista (il pittore di un vaso, lo scultore di un monumento funebre) sembra talvolta prendersi qualche rivincita sul teologo contemporaneo e sull'archeologo futuro: raffigurando il pianto di una madre sul figlio morto prematuramente entro un inusuale paesaggio, vivo e rigoglioso, o una giovanetta seduta sopra la propria tomba, in tenera attesa delle nozze che le sono state negate.

Come si può inquadrare la necropoli? Come espresso dal termine stesso, la necropoli è il luogo extraurbano deputato ad accogliere e raccogliere le spoglie di coloro che, abbandonata la comunità dei vivi, entrano a far parte di una comunità "altra", in un luogo "altro", più o meno visibilmente modellato sull'esempio di quello dei vivi. Questa scelta, che prelude alla strutturazione della tomba stessa come "casa", ha in sé un germe di ambiguità irrisolta. Perché, sostanzialmente contemporanea all'apparire di queste necropoli e di queste tombe-casa, si presenta una ricca simbologia allusiva ad un "viaggio" verso un altrove, che è (comunque inteso: Isola dei Beati o regno nebbioso di Ade e Persefone) flagrante negazione della tomba come luogo della vita post-mortale del defunto. 

Quali miti e riti riguardo alla morte in Etruria? Occorre sintetizzare: il tema è vastissimo. Dei riti si è in parte già detto (e occorre precisare che la documentazione che ci è pervenuta si riferisce per lo più ai ceti più elevati delle rispettive comunità!). Abbiamo testimonianza di riti diversificati nel tempo. Cremazione e inumazione si può dire coesistano, con predilezioni o di tipo locale o, addirittura, di tradizione famigliare. La cremazione, come atto volontario distruttivo della presenza fisica del defunto, comporta un processo di compensazione che favorisce la conformazione dell'ossuario in senso antropomorfo (canopi chiusini) o allusivo alla casa. E' esplicitato l'uso di esporre il defunto, facendolo oggetto di lamentazione rituale, e destinandogli giochi atletici, gare, danze, eccetera. E' anche chiara la precoce introduzione di riti di iniziazione di tipo dionisiaco. La tomba era sede di periodiche visitazioni, o riunioni del gruppo superstite, con pratiche di culto ai morti/antenati. Con l'andar del tempo, si giunge alla realizzazione di sepolcri di grandi dimensioni, che raccolgono le spoglie dei membri di più famiglie appartenenti alla stessa  gens, in cui non di rado la coppia "capostipite" è più o meno esplicitamente equiparata alla coppia regina dell'Ade: Ade (o Plutone) e Persefone (Proserpina). Quanto ai miti, il discorso non è meno complesso. Nel quadro dell'ambiguità di cui ho detto, si collocano visioni dell'Oltretomba largamente condivise con il mondo greco. Un viaggio verso la "sede dei meritevoli", anche topograficamente configurato come una landa semideserta, cosparso di insidie e minacce, accompagnato, propiziato o ostacolato da dèmoni di vario nome, competenza e natura. Un viaggio che solo per pochi eroi consente ritorno (Ercole, Teseo, Ulisse), mentre altri, che hanno preteso di "gabbare" la morte e la sua ineluttabilità, evitandola o dilazionandola, sono condannati a stare né di qua né di là, intesi - come Sisifo - all'inutile sforzo di spostare un masso (metafora della fatidica "soglia"), che ritorna sempre al proprio posto.


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