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Psicoterapia - Documenti e Comunicati



Conversazione sulla relazione di aiuto con Mario Mastropaolo

Maurizio Mottola


Ripubblicato su Psychomedia da "Agenzia Radicale"


Da giovedì 25 a sabato 27 ottobre 2007 si è svolto a Napoli il convegno La psicologia della relazione di aiuto la riscoperta della solidarietà umana, organizzato dalla Facoltà di Lettere e Filosofia e dal Dipartimento di Scienze Relazionali G. Iacono dell'Università degli Studi di Napoli Federico II e dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici: allo psicologo e psicoterapeuta Mario Mastropaolo, curatore del convegno, abbiamo posto alcune domande.

Quali sono le caratteristiche della relazione di aiuto nell'attuale contesto in cui sono predominanti tecnologia ed accelerazione dei rapporti interpersonali ?
Non credo che tecnologia ed accelerazione dei rapporti interpersonali possano modificare la relazione d'aiuto, né in qualche modo influenzarla, perché in realtà contribuiscono a creare la richiesta di aiuto. Intervenendo, infatti, nel potenziare l'alienazione -quell'allontanamento dal sé che rende l'uomo dei nostri tempi più vicino ad un automa-, in realtà esse determinano la richiesta di relazioni più umane.
Queste vanno cercate nell'esperienza dell'accompagnamento ai morenti e nel conforto, cioè la condivisione del dolore con chi resta ed in tutte quelle situazioni del ciclo della vita nelle quali l'espressione dei sentimenti di paura, dolore, rabbia, angoscia, disperazione richiedono accoglienza, ascolto, presenza, silenzio, condivisione.
Tecnologia ed accelerazione sono elementi che tendono a distruggere i rapporti interpersonali o a deformarli profondamente. Pertanto diventa una necessità sostituire alla macchina ed al tempo inteso come misura della quantità, il moto del cuore ed il tempo dell'anima, quello inteso come opportunità.

C'è oggi ancora spazio-tempo di ascolto della sofferenza al di fuori dell'ambito clinico codificato della malattia ?
Penso di sì, soprattutto in quelle persone che sono riuscite a mantenere una spontaneità che si traduce in tentativo di contatto, sia pure ingenuamente e talvolta attraverso una comunicazione simbiotica. Spesso è possibile anche ascoltare interminabili discorsi su malattie, medicine, organi anatomici. In genere questa comunicazione sostituisce gli scambi affettivi. Accade certamente anche che nelle relazioni comuni le persone tendano a sostituire linguaggi di tipo clinico appresi da un imperversante modello bio-medico.
La moltiplicazione di ospedali, facoltà di medicina, medici crea inevitabilmente le premesse per la motivazione alla malattia, che finisce per sostituire la richiesta psicologica di aiuto. Non è un mistero che molti genitori spingano i figli alla professione medica per assicurarsi un surrogato affettivo per il momento della vecchiaia e della morte. La misurazione della pressione, il monitoraggio di cuore, occhi, reni, colicisti, intestino ecc. diventano rituali sostitutivi del dialogo e dell'espressione dei sentimenti. Spesso l'ansia dovuta alla paura del futuro, alla mancanza di significato o alla inspiegabilità di molti fenomeni legati all'esistenza comporta un rifugio nella somatizzazione o nelle cosiddette "malattie immaginarie".
Questo fenomeno, sia pure in proporzioni diverse, esisteva anche nell'antica Grecia ed era stato così descritto da Platone nella Repubblica: "Quando incontinenza e malattie proliferano nella città, si aprono in gran numero tribunali e ospedali, e sia l'avvocatura sia la medicina prendono un tono di distinzione, dal momento che anche molti uomini liberi se ne occupano a fondo ... Ma quale maggiore indizio potresti trovare della cattiva e vergognosa educazione della città se non che abbiano bisogno di medici e di giudici eminenti non solo gli uomini da poco e i lavoratori manuali, ma anche coloro che si vantano di aver ricevuto un'educazione liberale ?".

Le professioni di aiuto, come sono attualmente organizzate e praticate, riescono effettivamente a dare sostegno all'individuo ?
Ritengo che, a parte sicuramente un'efficienza organizzativa, il vero sostegno che è possibile dare ad una persona nasca dal livello di maturazione e di personalità del terapeuta, del medico o del counselor. Spesso ci si chiede quali debbano essere le caratteristiche di personalità che chi offre l'aiuto debba possedere.
Nel contesto umanistico-esistenziale questa qualità si può esprimere nell'acquisizione della capacità di amare. Scrive Eric Fromm ne "L'arte di amare": "Mentre la grande popolarità della psicologia indica un interesse nella conoscenza dell'uomo, tradisce anche la fondamentale assenza di amore nelle relazioni umane odierne. La conoscenza psicologica diventa così un surrogato della conoscenza completa nell'atto d'amore, anziché essere un passo verso di essa".
Questo concetto non ha niente a che vedere con un apprendimento e neanche con uno sfruttamento di sindromi salvatorie, bensì con la mobilitazione di tutti quei sentimenti che contribuiscono a promuovere l'identificazione con l'altro, attraverso lo sviluppo del senso dell'appartenenza all'umanità intera.
Le porte del cuore non si aprono dall'esterno, recita un maestro indiano del Siddha Yoga, Swami Muktananda. Tutti i tentativi di sostenere un uomo in difficoltà che utilizzano tecniche, che sono il risultato di un apprendimento fondato sul condizionamento, devono in ogni caso il loro successo alla residua umanità di chi presta aiuto.
Nell'accezione umanistica l'acquisizione della capacità di amare è un processo che inizia intorno ai sette anni, come sostiene Sullivan nella Teoria Interpersonale della Psichiatria, e si sviluppa in tutto l'arco della vita. Non ha le caratteristiche di un modello, dunque, bensì le proprietà di un percorso: flessibilità, inevitabili contraddizioni, imperfezione, decisioni dettate dal campo di forze (Lewin) o circostanze.



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