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Psichiatria - Documenti



23/12/1978 - 23/12/2008: 30 anni di riforma sanitaria

Maurizio Mottola


Ripubblicato su Psychomedia da "Agenzia Radicale"


La riforma sanitaria varata il 23 dicembre 1978 si poggiava su due criteri costitutivi di fondo: la partecipazione ed il decentramento. C'è da valutare se entrambi questi obiettivi siano stati raggiunti oppure si siano innestati taluni meccanismi perversi che di essi costituiscono gli antipodi. La partecipazione avrebbe dovuto concretizzarsi nella fattualizzazione del diritto alla salute, sancito dalla carta costituzionale, incardinando la libertà dell'assistito a scegliere il proprio medico ed il proprio luogo di cura in un'organizzazione efficiente di servizi in grado di offrire uno standard valido di prestazioni alla generalità dei cittadini. Il decentramento con la creazione di 671 unità sanitarie locali si sarebbe dovuto inscrivere nel processo di graduale smembramento dello stato centralizzato di derivazione risorgimentale, già avviato con l'istituzione delle regioni a statuto ordinario, dei distretti scolastici, dei consigli circoscrizionali, dei dipartimenti di salute mentale territorializzati. Insomma la riforma sanitaria, di cui si iniziò a parlare dall'immediato dopoguerra, avrebbe dovuto realizzare un processo di ridefinizione del rapporto tra Stato e cittadini, determinando una situazione per la quale il cittadino assume il ruolo di utente, che certamente non satura tutte le sue prerogative e potenzialità sociali, ma perlomeno lo solleva dalla riduttiva posizione di controllo come fruitore di servizi e quindi in tal senso allargare gli spazi del suo intervento. Ma tutto questo che si inscriveva in un progetto complessivo di modernizzazione, già verificatosi con tempi e storie diverse in tutti i paesi a democrazia occidentale, ha in Italia assunto connotati molto peculiari, che hanno in gran parte svuotato il senso generale inscrittovi. Infatti politici, medici, farmacisti, utenza hanno condiviso in misura variabile responsabilità ed errori della gestione e prassi della sanità. La classe politica, conferendosi una prerogativa di accentramento con l'alibi di una sintesi che sempre più spesso non riesce ad esprimere, ha elaborato una serie di leggi teoricamente ineccepibili (o quasi), le quali si sono immancabilmente arenate nelle sacche dell'incapacità direzionale ed
amministrativa della periferia. Inoltre il non aver tenuto conto della specificità del settore della salute che investe profonde aspettative dell'utenza, legate soprattutto all'immagine culturale di una medicina quasi onnipotente, ha spinto la classe politica da un lato ad alcune surrogazioni (per esempio escludendo un rapporto più attivo di medici), dall'altro ad indulgere a compiacenze che hanno condizionato l'impostazione di tutta l'impalcatura della riforma sanitaria (per esempio non demarcando nettamente tra di loro con un sistema ineludibile e non farraginoso di incompatibilità l'area della medicina pubblica, della medicina convenzionata/accreditata e della medicina privata). La classe di medici dal canto suo non ha sufficientemente fronteggiato i fenomeni di una medicina di massa, che -se aveva l'indubitabile valore di creare un servizio per tutti i cittadini e quindi divenire a tutti gli effetti medicina sociale- si accompagnava a tutte le degenerazioni proprie dei processi di massificazione: perdita di un efficace rapporto interpersonale, burocratizzazione dell'atto medico, automatismi comportamentali frustranti e contrastanti con la sofisticata ed accumulatesi mole di sapere medico. Il medico avrebbe dovuto essere il filtro umano e sociale tra l'arida e sempre più perfezionata tecnologia sanitaria e l'individuo-utente con la sua patologia non astratta ma estremamente contestualizzata.
Non gli sono stati dati gli strumenti quali una precisa definizione del suo ruolo ed adeguati supporti operativi (non escluse ovviamente legittime gratificazioni economiche), così come egli stesso non si è dato l'obiettivo di superare i limiti della preparazione ricevuta all'università, legata a schemi astratti e del tutto inadeguati per una medicina validamente operativa. Ne è scaturito un ruolo sociale con grossissime frustrazioni e svuotamento di prerogative. La classe dei farmacisti ha subito una profonda trasformazione nel suo ruolo e nella sua funzione con il passaggio quasi totale alle specialità medicinali già confezionate. Ciò ha determinato un'esautorazione dell'intervento professionale del farmacista, che da preparatore del farmaco è divenuto mero smerciatore dello stesso e quindi semplice intermediario tra industria farmaceutica ed utenza. Le conseguenze sono state l'innesto tra l'altro degli automatismi consumistici con il relativo spreco di farmaci, incentivazione all'assunzione, svalutazione dell'atto medico non legato alla prescrizione del farmaco. La farmacia è diventata sempre di più un emporio, dove il cittadino si reca nel giro quotidiano ed abitudinario dei fornitori. L'esautorazione del filtro costituito dal medico ha aggravato l'anomalo circuito dell'utente, che spesso prima si reca dal farmacista e poi dal medico che quindi si trova di fronte ad una scelta già compiuta. Il farmacista non ha saputo e forse voluto essere il vero alleato del medico nel fronteggiare le spinte consumistiche nei confronti del farmaco. L'utenza, poi, è dilacerata tra due opposte stimolazioni: da un lato l'accelerazione dei ritmi esistenziali con frantumazione delle capacità autoregolative proprie e dall'altro il mito di una medicina che con la tecnologia sappia ridargli ciò che la società ha contribuito a farsi perdere: l'equilibrio. Di qui il fenomeno dell'autoprescrizione-autoterapia, quasi che l'assunzione continuativa di farmaci possa controbilanciare le grandi frustrazioni procurate dal contesto. Di qui la continua richiesta di ulteriori esami di laboratorio, quasi che dietro al parametro alterato si celasse la chiave di volta ed il senso del malessere dovuto invece sempre più alle difficoltà di un adattamento a condizioni di vita qualitativamente scadenti.Il "più" dei farmaci come magico esorcismo nei riguardi del "meno" della vita. La pressione consumistica finisce per allearsi inesorabilmente con le aspettative sempre più frustrate e non c'è "ticket" che riesca a spezzare questo illusorio circuito. Tutto questo, convergendo con gli errori e le lottizzazioni della classe politica, con lo svuotamento del ruolo del medico (soprattutto quello di base), con la prevalente aderenza alla prassi commerciale da parte dei farmacisti, con le pratiche consumistiche e spersonalizzanti dell'utenza, determina un'inestricabilità che non permette alla medicina di essere ciò che in una società moderna è la sua funzione: quella di un servizio per i cittadini a costi sociali compatibili con l'economia in cui è collocata. Questo stato complessivo della sanità si aggrava ulteriormente in alcuni contesti dove la disgregazione sociale da un lato e l'inefficienza gestionale e direttiva del potere politico-amministrativo (oltre alle diatribe partitiche) dall'altro contribuiscono a determinare una vera e propria controproduttività del servizio sanitario nazionale per il contrasto tra aspettative e domande di salute -da un lato- ed organizzazione operativa e tecnologica in risposta - dall'altro -. In tal caso la controproduttività assume un andamento vorticoso nel senso che essendo le aspettative e le domande dell'utenza teoricamente illimitate ne deriva che altrettanto illimitate in risposta dovrebbero essere le prestazioni di un qualsivoglia servizio sanitario nazionale. Ove mai per ovvie limitazioni di economia e bilancio le erogazioni e le prestazioni vadano contenute e programmate (fattore implicito in ogni governo della cosa pubblica), le aspettative e le domande dell'utenza si rivolgono altrove e ciò pone in crisi il criterio stesso costitutivo di una istituzione sanitaria nazionale. L'istituzione sanitaria nazionale viene a porsi -all'interno della società- in un rapporto imprecisato con quelle organizzazioni dei servizi che -non incamerate in esso- siano in grado di soddisfare le domande dell'utenza, pur conservando esso servizio sanitario nazionale il connotato della obbligatorietà (ad esempio il ricorso alle medicine non convenzionali di una quota percentualmente significativa di cittadini). Né il sistema di convenzionamento/accreditamento risolve il contrasto tra criterio costitutivo di obbligatorietà e tetto massimo delle erogazioni e delle spese, in quanto il ricorso alla medicina convenzionata/accreditata si riduce ad una suballocazione -a miglior costo- di servizi e prestazioni, onerosi se erogati direttamente dal comparto pubblico del servizio sanitario nazionale stesso. Ma ciò introduce una variabile di concorrenzialità che viene però a situarsi all'interno del servizio sanitario stesso, approfondendo la contraddizione tra criterio costitutivo di obbligatorietà e tetto massimo delle erogazioni e delle spese. La vera concorrenzialità (prevedendo la riforma sanitaria i tre comparti della medicina pubblica, della medicina convenzionata/accreditata e di quella privata) teoricamente verrebbe a determinarsi tra medicina totalmente privata e servizio sanitario nazionale, che però ha già al suo interno la subconcorrenzialità tra medicina pubblica e medicina convenzionata/accreditata. E' un servizio sanitario nazionale che si poggia sull'adesione obbligatoria di tutti i cittadini e che al suo interno comporta la lacerante contraddizione -con costi e rese differenti- tra comparto pubblico e comparto convenzionato/accreditato e la periferizzazione o meglio la marginalizzazione del comparto privato, che dal canto suo vive la propria contraddizione di tendere ad una assimilazione per lo meno nel comparto della medicina convenzionata/accreditata. Quindi una concorrenzialità del comparto privato che quasi si scusa di essere tale e che comunque si rappresenta come provvisoria, cioè in attesa di essere incamerata. Su tutto questo influisce poi un'altra pesante variabile, costituita dalla pletora medica, la quale non può che aspirare ad uno sbocco nel comparto della medicina pubblica od in via subordinata in quella convenzionata/accreditata. Così il servizio sanitario nazionale - oltre al contrasto di cui si è detto - deve sopportare l'impatto di tale ulteriore variabile, assumendosi l'onere di divenire lo sbocco obbligato di lavoro della massa esuberante di nuovi medici: le leggi di sanatoria hanno ampiamente dimostrato come il precariato sia divenuto una modalità obbligata per l'accesso degli operatori in un mercato del lavoro anch'esso obbligato. Questa surrettizzazione altera il rapporto tra professionalità e mercato del lavoro, costituendo un'altra forma di appesantimento delle funzioni del servizio sanitario nazionale. Dunque, criterio costitutivo di obbligatorietà, tetto massimo delle erogazioni e delle spese, concorrenzialità all'interno con inesistente concorrenzialità all'esterno, sbocco obbligato di lavoro sono fattori sufficienti per interferire marcatamente sull'efficienza del servizio sanitario nazionale; se poi si aggiungono la variabile del ruolo dei partiti quali strumenti di tutela e controllo sociali (se non addirittura di intermediazione obbligata) ed inoltre la parcellizzazione delle situazioni localistiche con le relative logoranti microconflittualità, si arriva alla risultante della mancanza di uno standard qualitativo medio usufruibile dalla generalità dei cittadini.


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