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Psicoterapia - Documenti e Comunicati



Il cuore e il nostro umore

Maurizio Mottola



Venerdì 6 novembre 2009 all'Unità Operativa Semplice Dipartimentale (U.O.S.D.) di Cardiologia Riabilitativa post-acuzie dell'Azienda Ospedaliera Monaldi di Napoli (responsabile il cardiologo Domenico Miceli) si è svolto l'incontro psico-educazionale Il cuore e il nostro umore, condotto dalla psicologa Raffaella Manzo.
Le persone depresse hanno una probabilità quattro volte superiore di morire entro sei mesi dall'infarto. Molteplici studi hanno indagato i possibili meccanismi di relazione tra depressione e morte cardiovascolare. La depressione potrebbe essere messa in rapporto con un altro fattore di rischio, che peggiora la prognosi in questi casi, e cioè la bassa variabilità del ritmo cardiaco (HRV). Infatti il cuore varia la frequenza delle pulsazioni in funzione di molte variabili, alla fine legate comunque all'attività del sistema nervoso autonomo, che si articola in simpatico (che accelera) e parasimpatico (che frena). Quando la variabilità (che è la misura del tempo che intercorre tra un battito e l'altro) è bassa, a causa di un'eccessiva attività del simpatico e/o a causa di una diminuita attività del parasimpatico, si instaura un fattore di rischio indipendente, per il cattivo esito dopo infarto.
Il rischio di morte per i pazienti depressi rispetto a quelli non depressi si calcola di 5,5 volte superiore a 2 e 3 anni; però, se i risultati vengono depurati dall'effetto della variabilità del ritmo cardiaco (HRV) bassa (misurata con il tracciato elettrocardiografico delle 24 ore), il rischio determinato dalla sola depressione scende a 3,1 volte. Insomma, la depressione potrebbe determinare un certo effetto sulla variabilità del ritmo cardiaco (HRV), facendola abbassare. Poiché la psicoterapia provoca anche un miglioramento della variabilità della frequenza cardiaca, aumentandola, ne scaturisce un intreccio tra depressione, malattie cardiovascolari e variabilità del ritmo cardiaco, da approfondire con ulteriori ricerche.
In corso di depressione aumenta il rilascio di sostanze infiammatorie (citochine) e si altera il circuito della serotonina: il risultato combinato è alterazione della parete dei vasi, delle coronarie in particolare, incremento della coagulazione del sangue, con aumento del rischio trombotico. E' ampiamente documentata in persone con malattia coronarica una relazione diretta tra depressione ed alti livelli di serotonina nel sangue. La serotonina è una molecola poliedrica: nel cervello svolge funzioni legate all'umore, infatti i farmaci antidepressivi aumentano la disponibilità di serotonina per i neuroni, ma anche funzioni legate alla fame, al sonno, alla regolazione dei gas disciolti nel sangue; nell'intestino, dove viene prodotta in larga quantità, svolge funzioni di regolazione della digestione aumentando l'onda peristaltica intestinale; nel sangue è catturata dalle piastrine dove svolge il ruolo di stimolo alla loro aggregazione e quindi alla coagulazione (serotonina deriva da serum tonicum - tonico del siero -).
La serotonina è stata identificata nel tessuto cardiaco, nei suoi vasi, nelle cellule mastoidi che vi sono attaccate (potenti cellule immunitarie infiammatorie), nelle fibre del sistema nervoso simpatico, che innervano largamente il cuore. In corso di depressione, soprattutto se il depresso è anche un cardiopatico, la serotonina nel cervello tende a diminuire, mentre tende ad aumentare nel sangue periferico e nel cuore. L'oltrepassare la soglia di più di 1.000 nmol/L di serotonina nel sangue intero aumenterebbe fortemente il rischio di attacco cardiaco.
Dunque depressione e malattie coronariche sarebbero strettamente legate. Da un'indagine dell'Italian Longitudinal Study on Aging (ILSA) emerge un dato inquietante, ovvero che gli anziani italiani sono i più depressi d'Europa: il 42% della popolazione italiana over 65 soffre di questa patologia, con una più alta incidenza tra le donne (52%) rispetto agli uomini (31%).
Analizzando queste rilevazioni va sottolineato come il dato sia molto importante se letto in relazione a quanto dimostrato sull'incidenza che la depressione o la semplice sintomatologia depressiva hanno, indipendentemente dalla presenza di fattori di rischio tradizionali, tanto nella predisposizione quanto nello sviluppo delle malattie cardiovascolari. In soggetti colpiti da infarto del miocardio la concomitante o conseguente presenza di sintomi depressivi aumenta il rischio di progressione della malattia e di mortalità rispetto a chi, con lo stesso quadro clinico, non soffre di depressione. Soffrire di depressione diagnosticata o presentare sintomi depressivi pur essendo sani espone maggiormente a rischio di malattie coronariche.
Sempre l'analisi dell'ILSA ha inoltre confermato che la sintomatologia depressiva in età anziana aumenta significativamente la mortalità. Sono state avanzate diverse ipotesi e presi in considerazione fattori eterogenei come quelli biologici, comportamentali e socio-ambientali e gli studi clinici e sperimentali sembrano far prevalere l'aspetto biologico: alterazioni dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene, che sono il rischio biologico maggiore riscontrato nella depressione. Ulteriori fattori come l'aggregazione piastrinica, che potrebbe comportare danni vascolari, ed un'alterata regolazione neurovegetativa del ritmo cardiaco ipotizzerebbero, sia in termini eziologici che prognostici, le ragioni della plausibilità biologica del rapporto tra stati depressivi ed eventi cardiovascolari. Non vanno sottovalutati in pazienti con sintomatologia depressiva l'aumentato rischio di declino funzionale fisico, di eventi cardiovascolari e di mortalità che possono essere ad essa associati.
I mediatori dell'interferenza sul cuore da parte della psiche sono l'adrenalina, la noradrenalina e la dopamina, rilasciate in quantità esagerate (due o tre volte il normale) dalle fibre simpatiche che innervano il cuore e dalla midollare del surrene sotto stress. Anche negli animali è stata documentata la possibilità di scatenare un'aritmia ventricolare, stimolando l'ipotalamo posteriore che attiva il simpatico. Rilevate anche diversità di genere: la morte di familiari stretti, mette in crisi soprattutto il cuore delle donne, mentre il cuore degli uomini invece va più facilmente in crisi per la minaccia che avvertono alla loro stessa vita.
Vari gli studi disponibili sull'efficacia di meditazione, yoga, tecniche di rilassamento, biofeedback. E poi la combinazione di queste tecniche con terapie psicologiche ha portato alla conclusione che le persone che avevano avuto infarti ed altre patologie cardiache e che avevano praticato tecniche antistress e di sostegno psicologico avevano i seguenti benefici: riduzione della frequenza cardiaca a riposo, aumento della variabilità cardiaca, miglioramento dell'energia e della resistenza allo sforzo, con conseguente riduzione di altri infarti successivi e di mortalità. Dunque ne è comprovata l'efficacia sia a livello preventivo che a livello riabilitativo.
I dati dello studio Globe (un'indagine durata 12 anni tra il 1991 e il 2003 e condotta in Olanda su 2.374 individui, 106 dei quali ricoverati per cardiopatia ischemica) ha confrontato la loro condizione socioeconomica, la tendenza ad atteggiamenti ostili ed a sintomi depressivi ed è emerso che sia gli uomini sia le donne hanno un rischio del 66% più alto di soffrire di cardiopatia ischemica, se presentano sintomi depressivi ed il rischio si impenna se queste persone hanno anche un reddito basso. E' emerso inoltre che un profilo psicologico non del tutto equilibrato, con tendenza ad atteggiamenti ostili, fa male soprattutto al cuore delle donne, mentre gli uomini sembrano risentirne meno. Anche in questo caso più scende il reddito più sale il rischio cuore.
In conclusione la depressione è un predittore sia di un possibile attacco cardiaco che di mortalità dopo un attacco cardiaco.


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