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PSYCHOMEDIA
MEMORIA E (TELE)COMUNICAZIONE
Mass Media



Micropoteri e Comunicazione

di Rino Genovese

Filosofo - Ricercatore presso la Scuola Normale di Pisa



Una concezione del potere basata sull'idea di una rete di micropoteri diffusi è in netto contrasto con una concezione tutta politica, o prevalentemente politica, del potere, basata sull'idea di sovranità. All' "analisi discendente" (a partire cioè da un centro collocato al vertice del "corpo sociale", in una classe, per esempio nella classe borghese, o nello Stato) Michel Foucault sostituisce un' "analisi ascendente" del potere (Foucault, 1998), a partire dal basso, dalle tecniche di sorveglianza, dalle pratiche disciplinari e di esclusione, cioè dai micropoteri diffusi. Il potere, secondo questo approccio, è essenzialmente un insieme di relazioni e di strategie dentro cui ci si colloca e si è collocati. Non si può parlare di un individuo, di un soggetto precedente a queste relazioni e strategie, ma solo d'individui o soggetti in quanto risultati di queste relazioni e strategie. Ciò implica che i saperi - le cosiddette scienze umane e, tra queste, la stessa psicoanalisi - siano parte di queste strategie. Potere e sapere sono momenti strettamente intrecciati nella definizione dei micropoteri. E questo mi pare sia sufficiente a giustificare la presenza di un discorso sui micropoteri in un seminario di psicologi. Perché - è stato notato - la ricerca di Foucault può essere letta come "un'invettiva rivolta a Freud" (cfr. Foucault, 1992, p. 113), e più in generale come una messa in stato di sospetto di tutte le scienze umane. Si pensi soltanto alla funzione assegnata da Foucault alla "verbalizzazione" dei pensieri (ricordando che la terapia analitica venne detta originariamente una "talking cure") nell'ambito della confessione cristiana e del nesso che essa instaura tra ricerca della verità e obbedienza (ivi, pp. 46-47).
Ora, almeno due sono le conseguenze del discorso foucaultiano sulla genealogia del soggetto moderno e sui micropoteri. La prima è che non si dà nessun concetto di verità separato dal potere. La verità è piuttosto la principale posta in gioco nei rapporti di potere. Foucault parla, a questo proposito, di "effetti di verità", proprio per indicare che la verità viene prodotta dentro le strategie di potere (o eventualmente anche di contropotere, se intendiamo con ciò dei micropoteri emergenti), non è qualcosa che è là e che bisogna scoprire. La seconda conseguenza è che non può esserci nessuna comunicazione libera dal potere. Qualsiasi processo comunicativo intrattiene uno stretto rapporto con quelle pratiche e con quei discorsi volti a ottenere un controllo sugli individui, o a produrre forme di autocontrollo in essi (vedi appunto la terapia analitica). Nemmeno un seminario come questo, in quanto si riferisce a una certa pratica dell'ascolto storicamente costituitasi, a una certa distinzione tra chi parla e chi ascolta, può sfuggire a un determinato "ordine del discorso".
E' una visione che può apparire disperata, perché non lascia spazio a niente che non sia potere, nelle sue diverse forme di controllo disciplinare, di produzione della verità, di "governamentalità" come interdipendenza tra tecnologie di dominio sugli altri e tecnologie del sé, cioè dell'autocontrollo. Al tempo stesso, però, poiché vede tutto questo apparato come qualcosa che si è formato storicamente, e per così dire in maniera aleatoria, è una visione liberante, in quanto il pesante assetto della modernità è considerato qualcosa di contingente, non di necessario.
Il mondo, insomma, potrebbe anche essere altrimenti. Ma proprio questo "altrimenti" resta del tutto indeterminato in Foucault. E' un atteggiamento che gli ha attirato molte critiche (per esempio da parte di Jürgen Habermas). Foucault non dice niente su come dovrebbe essere il mondo: descrive come siamo diventati quello che siamo, ma poi non indica alcuna strada per andare oltre quello che siamo. Egli ci tiene infatti a non presentarsi come un profeta, evita di dare consigli su quello che si dovrebbe fare o non fare, e rifiuta in fondo anche l'etichetta di filosofo. Si presenta come uno storico, piuttosto, sebbene come uno storico di tipo particolare.
Ora, per uscire da questa impasse (ammesso che di impasse sia giusto parlare) ci sono due vie. Una è quella di una teoria di tipo normativo, la scelta di Habermas. Il che significa, nel caso di una teoria della comunicazione, ipotizzare una forma di comunicazione libera dal potere, e proporla come idea regolativa per ogni comunicazione possibile, una sorta di modello ideale su cui la comunicazione dovrebbe orientarsi. L'altra, invece, è quella di una teoria descrittiva, che descriva cioè, nel farsi stesso della comunicazione, quali sono gli elementi che di volta in volta aprono (o al contrario chiudono) possibilità diverse dentro la rete dei micropoteri. Secondo l'intenzione di questa teoria descrittiva, i micropoteri esistenti appaiono soltanto se si sceglie una certa prospettiva (per esempio anche quella storica scelta da Foucault); in un'altra prospettiva potrebbero apparire invece micropoteri diversi (magari quelli emergenti dentro una lotta di resistenza ai micropoteri esistenti), oppure qualcosa che non ha niente a che fare con il potere. Il potere, in altri termini, c'è e non c'è a seconda di come ci disponiamo a osservare un dato contesto.
Il momento dell'osservatore non è oggetto d'indagine da parte di Foucault. Il suo relativismo (questo termine è stato spesso usato riguardo a Foucault, come del resto quello di scetticismo) consiste nel fatto che i soggetti moderni sono il frutto di determinati processi storici, il portato di una certa cultura, che è la cultura occidentale. Questo va bene: però poi bisogna mettere nel conto che questi soggetti si autosservano. Foucault stesso è il prodotto di una certa tradizione culturale che osserva se stessa tramite lui. Quindi il problema dell'osservatore, e dell'autosservazione come sguardo esterno, si dà. E' un problema epistemologico, un problema di teoria della conoscenza inaggirabile, che può essere affrontato con una sorta di relativismo di secondo grado, ma che non può essere semplicemente liquidato come accadrebbe in un relativismo ignaro di sé. Il problema, lo ripeto, è quello di come sia possibile uno sguardo esterno, autocritico, su quella cultura occidentale di cui pure siamo un prodotto.
Senza addentrarmi adesso in questa discussione, che ho cercato di impostare nella Tribù occidentale (Genovese, 1995), e circoscrivendo il discorso a una teoria della comunicazione di tipo descrittivo, la questione dell'osservatore interno ai processi di comunicazione coincide proprio con quella del "sé". Cerco di spiegarmi. Sapete che ci sono molte definizioni del concetto di sé, compresa quella psicoanalitica legata alla tematica del narcisismo. Vi chiedo di mettere da parte le definizioni correnti, almeno per un momento. Se ci concentriamo sulla prospettiva di Foucault, che cosa vediamo? Vediamo che il sé è il bersaglio delle tecniche di potere (o dell'autocontrollo, come nel caso della pratica della confessione); è il "terminus ad quem" delle strategie, l'obiettivo o il risultato del potere. Secondo questa prospettiva il sé può reagire alle strategie di potere, rifiutandosi per esempio di obbedire: ma quando definisce e descrive la sua situazione non può farlo se non attraverso lo schema che gli viene proposto dal potere, cioè da quella strategia che lo costituisce (qui forse sta la ragione della simpatia di Foucault per lo stoicismo, che consiste nel trarre la propria forza dalle avversità).
Ma così non c'è nessuno spazio per una costituzione spontanea e autonoma del sé. E non c'è nessuno spazio per un'istanza di autosservazione (eventualmente critica) all'interno dei processi di comunicazione. Questi ultimi sono ridotti alle tecniche attraverso cui viene formato qualcosa come un sé. I soggetti vedono solo ciò che si vuole che vedano. Di conseguenza bisognerebbe supporre che, nel caso di una risposta critica, come quella dello stesso Foucault, quelle tecniche abbiano semplicemente fallito. Perché i micropoteri, nella loro attualità, coprono tutto il campo della comunicazione, e c'è quindi una sorta di movimento unidirezionale, dai punti di attacco delle strategie di potere al sé. Tutto quello che rende la comunicazione imprevedibile, l'indeterminatezza che impedisce di sapere in anticipo come va a finire un processo comunicativo, viene a essere considerato da Foucault tutt'al più come un attrito (folle magari nella sua protesta) rispetto a un ordine che si chiude intorno al sé nel momento stesso in cui lo forma. La (mancata) teoria della comunicazione di Foucault può essere allora criticata e integrata secondo due assi. Il primo è quello che riguarda la nozione di potere di cui Foucault si serve. Il secondo riguarda la distinzione, lo scarto, che a mio avviso è necessario introdurre, tra "costituzione" del sé e "costruzione" del sé.
Primo punto, la nozione di potere. Foucault opera con un concetto di derivazione weberiana, che concepisce il potere come possibilità di trovare obbedienza. E' vero che, rispetto alla rigida impostazione centralistica di Max Weber (quella per cui il paradigma del potere consiste nella trasmissione di ordini da un comandante a un subordinato, come nell'esercito, sotto la minaccia della forza), c'è in Foucault un allargamento e un'apertura - una disseminazione, si potrebbe dire -, che è appunto il discorso sui micropoteri. Ma è anche vero che lo schema concettuale del potere come comando resta sostanzialmente intatto. Lo stesso momento dell'introiezione del comando non è sconosciuto a Weber, per quanto, anche qui, Foucault operi un raffinamento dell'analisi attraverso lo studio delle tecniche di autocontrollo. La resistenza, l'attrito cui il potere va incontro, sono essenzialmente la resistenza e l'attrito di quell'enorme movimento di corpi nello spazio che il potere induce. Le tecniche disciplinari, l'autocontrollo etc., servono soltanto a ridurre l'attrito che il comando provoca, e a ridurre così le probabilità di un ricorso all'uso della forza, che è sempre un mezzo estremo e non desiderato dal potere. I corpi resi "docili" dalla disciplina sono insomma l'altra faccia, per Foucault, dell'esclusione, dell'internamento, della costrizione fisica aperta. La rete dei micropoteri si distende là dov'è necessario diminuire il tasso d'improbabilità dell'obbedienza. Il modello weberiano "monistico" viene corretto in senso "pluralistico". Ma il modello è lo stesso: il potere è concepito essenzialmente come un'azione, un'azione di comando mediante un certo numero di mezzi volti al raggiungimento di uno scopo, di un obiettivo. Anche se in Foucault, diversamente da Weber, non si tratta di un comando discendente da un centro, da un vertice, da un soggetto dotato di una precisa intenzione, quanto piuttosto di un insieme di strategie inintenzionali il cui risultato, in ultima istanza, è proprio la costituzione del soggetto, del sé, come momento di autoregolazione intenzionale.
Ora, questo schema teorico basato sulle tecniche disciplinari di controllo e autocontrollo - si pensi ancora al modello del "Panopticon" in Sorvegliare e punire (Foucault, 1976), insieme metafora e chimera di un potere onnipervasivo, in grado di controllare tutto -, e che comunque si può ricavare solo con qualche sforzo da un'indagine che si vuole storica, trascura completamente quell'aspetto per cui il potere, soprattutto il potere contemporaneo, non è solo controllo ma anche influenza. Non è tanto capacità di trovare obbedienza, quanto capacità di trovare ascolto dentro un mondo fatto di comunicazioni sempre più caotiche e, almeno in apparenza, senza capo né coda. Agli albori della società moderna troviamo quel potere disciplinare descritto da Foucault, che ci ha segnati e non smette di segnarci: ma l'aspetto oggi prevalente non è quello disciplinare, è quello dell'influenza. In altri termini, non il collegio, il correzionale, il carcere, il manicomio, ma piuttosto la televisione e Internet. Questo mutamento spinge verso una teoria generale del potere inteso come influenza dentro la comunicazione. Bisognerebbe vedere nei micropoteri una rete diffusa e in qualche modo impalpabile, che si distende nella comunicazione non come capacità di farsi obbedire ma di farsi ascoltare. Le differenze di potere consisterebbero quindi nelle asimmetrie tra chi parla e chi ascolta, tra chi trova ascolto e chi non lo trova. In questo contesto il cardine, l'istanza di autosservazione (eventualmente critica) dei processi di comunicazione, dentro questi stessi processi, sarebbe proprio il sé.
Arriviamo così al secondo punto, la nozione del sé. All'interno di questa teoria della comunicazione da costruire, il sé avrebbe una funzione centrale, ma sarebbe al tempo stesso un concetto di posizione, il concetto di un'identità mobile nei diversi contesti comunicativi. Mi spiego. Distinguiamo tra il ricevente e l'emittente di un messaggio: distinzione, questa, che vale per qualsiasi tipo di comunicazione. Il ricevente viene a costituirsi come un sé nel momento in cui attribuisce un'intenzione all'emittente e quindi un significato al messaggio che riceve. Compiendo questa attribuzione, infatti, il ricevente non può evitare di autoattribuirsi una posizione nei confronti dell'emittente. Potrà sentirsi persuaso, affascinato, attratto, oppure potrà respingere per i più svariati motivi il messaggio che gli viene rivolto, magari perché lo ritiene falso, offensivo, fuori luogo. Comunque sia non potrà fare a meno, così facendo, di attribuire a se stesso una posizione rispetto sia al messaggio che riceve sia all'emittente. Nel ripetersi di situazioni comunicative analoghe, verrà consolidandosi un certo stile di ricezione, per così dire, un determinato modo di sentirsi coinvolti o interessati da altri, e per niente coinvolti o interessati da altri ancora. Il sé acquista così le caratteristiche di un'istanza, psichica e insieme sociale, che è dentro i processi di comunicazione, si costituisce dentro di essi, ma è anche un po' fuori, nel senso che non è riducibile a quei processi in atto: può intervenire in altri processi comunicativi; può, in quanto centro di autoattribuzioni sedimentate, dare luogo ad altre possibili attribuzioni in contesti diversi, e può farsi centro di controattribuzioni, collocarsi cioè dalla parte dell'emittente.
Il sé che si costituisce dentro i processi della comunicazione, nell'attribuzione e nell'autoattribuzione, è il sé spontaneo, il sé inevitabile, che si dà comunque come identità mobile. Il sé costruito, invece, è il sé che appare dentro le relazioni di potere: quando cioè osserviamo - o un sé autosserva - i processi della comunicazione secondo la prospettiva del potere, cioè secondo la asimmetria nelle chance di porsi come partner della comunicazione allo stesso titolo di altri. "Altri" apparirà allora come qualcuno che detiene un potere, o maggior potere, in quanto ha maggiore capacità d'influenza, maggiore capacità di orientare la comunicazione in un modo piuttosto che in un altro. La costruzione del sé del ricevente, o l'autocostruzione come risposta a questa costruzione, diventa la posta in gioco della comunicazione. Qualcosa che è sempre di più e di meno della sua semplice costituzione: di più, perché la costruzione implica un che d'intenzionale, mentre la costituzione è sempre spontanea, automatica, si potrebbe dire; di meno, perché la costruzione fissa la mobilità del sé in una posizione, in un ruolo, per così dire, di forza o di debolezza.
C'è un film uscito qualche mese fa nelle sale - ma visto da pochi, credo - che illustra piuttosto bene quanto intendo dire. S'intitola Viol@ (con la chiocciola), di Donatella Maiorca, con Stefania Rocca. In questo film c'è una ragazza che comincia ad amoreggiare con uno sconosciuto su una "chatline": comincia a masturbarsi dialogando con lui al computer, e poco a poco fa tutto ciò che lui le chiede in un gioco erotico che sempre di più le sconvolge la vita. Cade, si direbbe, in suo potere. Ma in realtà di cosa è fatto questo potere dell'altro su di lei? E' fatto di tutte le attribuzioni cieche (cieche perché rivolte a qualcuno che non ha volto), e delle conseguenti autoattribuzioni, che lei stessa compie. L'altro si limita a guidare queste attribuzioni, orientando così la costruzione del sé del ricevente, del sé della ragazza. Forse il film estremizza un po' la posizione passiva di lei, che ha un atteggiamento quasi masochistico: ma resta il fatto che nei processi comunicativi vengono sempre a determinarsi delle asimmetrie per le più svariate ragioni. Potere è mettere a frutto queste asimmetrie, piegarle ai propri interessi. Il film ha però un finale divertente, un capovolgimento dei più classici. La ragazza cerca di conoscere lo sconosciuto, d'incontrarlo. E qui c'è la sorpresa, perché l'uomo, che la ragazza si figura sui quarant'anni, espertissimo e affascinante, si rivela un ragazzino sui tredici, un piccolo demone del computer, esperto tutt'al più - in fondo proprio come lei - di giochi autoerotici. Una risata della ragazza ristabilisce l'autentica asimmetria di potere tra la venticinquenne indipendente e il tredicenne che vive con la madre, privo di qualsiasi influenza sul mondo, impegnato, sotto la maschera della comunicazione al computer, a costruirsi un sé meno debole. Non bisogna infatti dimenticare le asimmetrie nella comunicazione vissute dagli adolescenti. La semplice, spontanea, costituzione del sé, che lo vede nella posizione sostanzialmente passiva del ricevente, esposto per di più alla costruzione "educativa" (nella famiglia e nella scuola), viene rovesciata dal ragazzino in una controcostruzione di se stesso al computer, con un rapido passaggio nella posizione di un rapace emittente. Così come si configura nel film, quello del ragazzino può essere definito un micropotere emergente. Il suo sforzo di uscire dall'isolamento attraverso l'invenzione di un'identità immaginaria, è uno sguardo critico sulla relazione tra gli adolescenti e gli adulti. Una relazione, questa, solo apparentemente priva di potere, finché qualcuno non ne fa saltare la scorza esponendosi al rischio della distinzione tra costituzione e costruzione del sé.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1976.
M. Foucault, Tecnologie del sé, a cura di L.H. Martin, H. Gutman, P.H. Hutton, Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
M. Foucault, Difendere la società, Feltrinelli, Milano, 1998.

R. Genovese, La tribù occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.
R. Genovese (a cura di), Modi di attribuzione, Liguori, Napoli, 1989.

J. Habermas, Teoria dell'agire comunicativo, Il Mulino, Bologna, 1986.
J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari, 1987.

M. Weber, Economia e società, vol. I, Edizioni di Comunità, Milano, 1980.


Centro Ricerche Psicoanalitiche di Gruppo di Roma
Seminario del 28.2.99


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