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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MEMORIA E (TELE)COMUNICAZIONE

Area: Mass Media

Realtà virtuali, psicopatologia in rete

Maria Letizia Rotolo *


Una delle sètte fondamentali dell’induismo venera in Visnù il proprio dio supremo, un dio benevolo e misericordioso cui si collega tutta una collettività di figure divine, suoi avatar, che ne rappresentano le reincarnazioni. Alcune con sembianze animali, altre in forma umana, una come uomo-leone, una come quella di un nano capace di trasformarsi in gigante,. Tutti questi avatar, discesi nel mondo, divengono presenze attive ogni volta che l’ordine universale è minacciato. Le loro caratteristiche, la capacità di reincarnazione e trasformazione, il ruolo “eroico”, rendono conto delle ragioni per cui “avatar” è il termine generico scelto per rappresentare sé stessi nei diversi personaggi in azione nei videogiochi o comunque in diverse realtà virtuali. In spazi quali Second Life, Facebook, Myspace, Meetic, Netlog ogni partecipante,che potremmo definire internauta, è tenuto a costruire un proprio profilo, un personaggio che dovrà rappresentarlo in rete, e sappiamo bene come questo possa essere molto veritiero o, all’estremo opposto, totalmente inventato, rappresentando in tal modo, più che un’immagine di sé ragionevolmente obiettiva, un coacervo di tratti di personalità e di caratteristiche fisiche che parlano dell’ideale dell’Io del soggetto, dei suoi desideri ed eventualmente delle sue propensioni perverse.
Ma prima di inoltrarci delle realtà virtuali conviene soffermarsi su questo termine.
La realtà virtuale va innanzitutto distinta sia dalla realtà reale che dalla realtà immaginaria. Seguendo Lacan, la realtà reale - il reale - è la realtà concreta, inconoscibile, indifferenziata, al di là dell’ordine simbolico. La realtà immaginaria - l’immaginario - si colloca in una dimensione narcisistica, di rapporto dell’Io con sé stesso, regno dell’immagine e dell’immaginazione, della lusinga e dell’autoinganno. La realtà virtuale, che non esiste se non per le proprie immagini, offusca la differenza tra immaginario e realtà reale, la quale esiste indipendentemente dalle proprie immagini. Questa posizione intermedia della realtà virtuale fa sì che la relazione con essa metta il soggetto in una condizione “instabile” (Tisseron, 2008) costantemente esposta ad aperture ed evoluzioni o verso l’immaginario, dominato dai propri fantasmi, come nei casi in cui l’internauta si ritira progressivamente dalla vita reale per lasciarsi assorbire dal piccolo schermo del computer, o verso la realtà fattuale, come quando, ad esempio, conoscenze avvenute in rete danno seguito a frequentazioni di persona. E’ negli ultimi anni del secolo scorso che nelle moderne società occidentali il concetto di realtà virtuale diviene via via più pregnante, fino a costituire un punto di riferimento ineludibile in qualunque analisi socio-psicologica dei comportamenti umani del terzo millennio. Se i bambini di cinquant’anni fa’ crescevano per lo più in strada, progressivamente, i bambini delle generazioni successive hanno goduto assai meno di questa opportunità, finendo per vivere reclusi in appartamenti sempre più ingombri di teleschermi, computer, play station, immersi in una realtà fortemente influenzata non solo dai mass media ma anche da questi nuovi prodotti tecnologici in grado di creare scenari in cui essi possono collocarsi in modo magico-onnipotente, incuranti d’ogni limite spazio-temporale. In una società sempre più simile a quella dominata dal “Grande Fratello” (quella del romanzo “Farhenheit 451”, non quella del format televisivo che a quello si ispira) in cui sono mille i mezzi e i modi per limitare la privacy delle persone ed esercitare un controllo diffuso, l’identità del soggetto non può non misurarsi con una “identità sociale” alla cui costruzione concorrono un fiume d’immagini e di dati dalla più svariata provenienza, dai tradizionali documenti d’identità alle telecamere installate in ogni dove, dai cellulari alle carte di credito, fino alle impalpabili tracce che dal nostro computer si diffondono ubiquitariamente in rete. Dopo il narcisismo di massa, glorificato dall’ossessione per il corpo nelle infinite declinazioni del fittness e del wellness, e il feticismo di massa, esaltato dai consigli per gli acquisti e conseguenti consumi, prende corpo progressivamente un voyeurismo di massa. Affacciati alla finestra del nostro monitor, moderno Panopticon, possiamo spiare bulimicamente ogni anfratto della rete, in cerca sia d’oggetti che d’interlocutori, sapendoci a nostra volta spiati e attesi.
Come si vede, stiamo parlando di una vera e propria mutazione antropologica caratterizzata dalla progressiva modificazione della relazione con la realtà che ci circonda. Una realtà sempre più influenzata dalla realtà virtuale, dove la distinzione tra la presenza e l’assenza, tra il vero e il falso, si relativizza: basta un click per sottrarsi a una chat divenuta sgradevole e un click per ricomparire sulla scena, senza scomodi sentimenti di colpa o di vergogna. Basta ricorrere a un avatar per assumere una qualunque identità, veritiera o fittizia che sia. In spazi virtuali come Facebook, Meetic, l’internauta deve in qualche modo esporsi, mettendo in scena un personaggio che lo rappresenti, come appunto un avatar o tramite un semplice nickname, esprimendo desideri e aspettative, giudizi e timori. A volte arrivando a disvelarsi, con foto, testi e dati biografici veritieri, a volte dissimulando in vario modo la propria identità, anche di genere. Un’identità che, come si diceva, è multipla, plurale; non è raro infatti che una stessa persona sia titolare di più blog, che partecipi a diversi videogiochi con diversi avatar, mettendo in scena diverse parti di sé o, come negli adolescenti, seguendo le fluttuazioni delle proprie identificazioni, fenomeno che può presentare aspetti sia positivi, l’opportunità di usufruire di uno spazio potenziale in cui esercitare la propria creatività, così come aspetti negativi, come il rischio di incentivare scissioni eccessive o di finire per confondere realtà virtuale e realtà fattuale, soprattutto in soggetti dai fragili confini dell’Io. .
Rayan, un giovane paziente di Tisseron dice che i suoi genitori sono per lui “meno veri” degli sconosciuti che frequenta su Internet. “Sono loro - dice - la mia vera famiglia” (Tisseron, 2009, p.80).
Come tutte le novità che per la propria forza innovatrice sovvertono radicalmente i consueti modi di pensare e agire, l’irruzione epocale di Internet nella vita quotidiana viene accolta tanto con curiosità e interesse quanto con diffidenza e timore. Nell’ottocento l’umorista francese Cham, in una famosa serie di vignette, irrideva allo sconcerto dei parigini al cospetto dei primi lampioni a gas, raffigurando dei passanti che facevano il gesto di ripararsi gli occhi come si trattasse di un’insopportabile luce abbagliante, poiché tale doveva loro apparire quella fioca luce che veniva a squarciare un buio millenario. All’inizio del novecento l’esaltazione del colore nella pittura di Matisse e Derain, di Vlaminck e Rouault costituì un tale shock che un critico pensò bene di definirli belve, “fauves”, da cui fauvisme, il loro movimento. Non sorprende quindi se molti paventano nell’uso di Internet pericolose insidie, soprattutto quando gli utenti siano adolescenti o bambini. In realtà il problema non è molto diverso da quello costituito dall’esposizione alla TV che, sui diversi individui, può avere effetto eccitante o calmante, passivizzante o antidepressivo. Vale quindi la pena, prima di parlare delle specifiche manifestazioni morbose, come la dipendenza patologica o l’utilizzo regressivo del mezzo come “rifugio della mente” (Steiner, 1993), accennare anche alle straordinarie opportunità che questa rivoluzione tecnologica offre. Ad esempio bambini anche molto piccoli, attratti dai videogiochi, apprendono per questa via i primi rudimenti dell’uso del computer e della lingua inglese; possono sviluppare notevoli abilità settoriali, affinando qualità percettivo-discriminative, tempi di reazione, e ricevendone nutrimento narcisistico. I più grandi, condividendo il gioco con altri, possono entrare a far parte di comunità virtuali sviluppando specifici aspetti di socializzazione; avendo a che fare con personaggi che presentano la gamma delle motivazioni e delle emozioni umane, sono spinti ad educarsi all’interazione sociale. Inoltre, mettendo in scena il proprio mondo interiore, i propri conflitti, molti adolescenti possono elaborare e superare difficoltà passeggere. Certo non si può accettare acriticamente qualunque videogioco o la frequentazione di qualunque sito. E’ necessario che i genitori, la comunità, vigilino sulle loro caratteristiche, sul tipo di messaggio che da essi può derivare, bloccando la diffusione di quelli che possono avere un influsso negativo su menti in formazione. Come ad esempio nel caso di un videogioco in cui le azioni di guerra, lo sparare e l’uccidere, fossero contro “sporchi negri” o qualunque esponente di minoranze etniche o religiose. In tal caso il messaggio non avrebbe a che fare col generico combattere contro un nemico di fantasia, cosa che consentirebbe l’espressione ludica di una normale aggressività, bensì con precise motivazioni razziste.
Ma, a parte questi rischi cui sono esposti soprattutto bambini e adolescenti, sono innegabili le straordinarie potenzialità offerte dalla rete agli internauti. La possibilità di comunicare in tempo reale con interlocutori in ogni parte del globo, di ampliare a piacimento il numero dei propri contatti, di avere accesso a un’inesauribile fonte di informazioni e così via. Alcuni ritengono che ciò comporti un maggiore investimento degli aspetti intellettuali e delle prestazioni piuttosto che un investimento degli affetti e della responsabilità. Ma è difficile generalizzare. Certamente il navigare in Internet consente di alleviare, almeno in una certa misura, la solitudine e le angosce d’abbandono e di crollo, soprattutto nei videogiochi in cui vi è un avatar che ci rappresenta, perché questo in fondo, come ha fatto notare Tisseron, non crolla mai (Tisseron, 2008). Né vanno trascurati i vantaggi dell’anonimato, grazie al quale in Internet anche le persone più timide e insicure difficilmente si trovano a provare sentimenti penosi come l’umiliazione e la vergogna: qualunque situazione spiacevole si trovino a vivere, possono sottrarsene all’istante senza alcuna remora. Una via di fuga che agevola, ad esempio, chi si accinge a partecipare a una chat, perché sa di poterlo fare col minimo d’esposizione, gli basta celarsi dietro l’identità virtuale, più o meno veritiera, che ha voluto assumere. Così, anche chi si muove spinto dalle fantasie più inconfessabili, può farlo con notevole tranquillità, sapendo di potersi ritirare in ogni momento. Inoltre, e ciò vale per chiunque, da un punto di vista emotivo è sicuramente meno dispendioso dar vita a una conoscenza in questo modo di quanto non lo sarebbe di persona, senza contare che spesso il tenore della conversazione in rete è tutt’altro che anonima e impersonale e consente a molti di farsi un’idea abbastanza precisa della personalità dell’interlocutore. Nel chattare, il linguaggio usato, i contenuti, i ritmi, tutto fornisce indizi sulla persona, la quale in tal modo tanto svela di sé quanto cela. Da ultimo, e non ultimo, va detto che molti, nella misura in cui si scoprono in grado di raggiungere tante persone, d’iniziare con esse un dialogo e magari di coinvolgerle suscitando il loro interesse, ne ricavano un importante nutrimento narcisistico e un supporto alla loro precaria identità.

Questi, alcuni dei più importanti aspetti positivi. Purtroppo, col diffondersi della rete e il moltiplicarsi del numero degli internauti, va diffondendosi anche la relativa patologia, in particolare quell’ Internet Addiction Disorder con cui lo psichiatra americano Ivan K. Goldberg, nel 1995, designò scherzosamente la sindrome consistente nel bisogno di far uso compulsivo e eccessivamente prolungato di Internet. Ma fu solo un paio d’anni dopo che una pubblicazione scientifica di Kimberly S. Young, dell’Università di Pittsburg rese l’Internet Addiction un disturbo riconosciuto dalla comunità psichiatrica internazionale, fino a divenire in pochi anni un quadro clinico ritenuto da alcuni perfino più diffuso della depressione. Lo studio della Young mise in luce come a favorire la rete-dipendenza fossero gli stessi aspetti positivi della rete, come la facile accessibilità a servizi e informazioni o la sensazione d’onnipotenza derivante dal controllo delle proprie attività on-line. Secondo la ricercatrice americana i futuri rete-dipendenti, affascinati da queste enormi potenzialità, passano da una fase cosiddetta “tossicofilica” caratterizzata da interesse ossessivo per l’e-mail e progressiva frequentazione e partecipazione a siti Internet e chat, a una fase francamente “tossicomanica”, caratterizzata da collegamenti così prolungati da compromettere la vita di relazione, sociale e professionale del soggetto. Una condizione, questa, che può assumere differenti configurazioni a seconda dell’interesse prevalente: COMPULSIVE ON-LINE GAMBLING, il gioco d’azzardo compulsivo. CYBERSEX ADDICTION, la dipendenza dalla ricerca di materiale pornografico o di relazioni erotiche tramite chat. CYBER RELATIONSHIP ADDICTION, assillante ricerca di relazioni d’amicizia o sentimentali tramite e-mail, chat, newsgroup. MUD ADDICTION, dipendenza da giochi di ruolo mediante avatar con cui il soggetto si identifica. INFORMATION OVERLOAD ADDICTION, ricerca d’informazioni estenuante e protratta nel tempo. (Cantelmi – Orlando, 2009).

Tutti questi modi di navigare in rete, nella loro valenza patologica, costituiscono diverse declinazioni di una condizione di grave rete-dipendenza in cui, teoricamente, chiunque può cadere. Anche se, in realtà, è molto più probabile succeda a persone che, non avendo goduto di relazioni primarie soddisfacenti, non sono state in grado di costruire una solida identità e non possono confidare in oggetti interni affidabili. Così, la dipendenza patologica da Internet in genere maschera una, più o meno grave, condizione di sofferenza psichica. Il Surfing, il navigare in rete, e il Wilfing, il navigare in rete con continui spostamenti da sito a sito senza scopo preciso, divengono un mezzo per tentare di non affondare, di procurarsi “dosi”di gratificazione ed eccitamento per sfuggire al dolore di pensare ed evitare il crollo. La qual cosa ci deve fare riflettere, come ci ricorda Florence Guignard, sul fatto che nel corso degli anni, psicoanalisti e psicoterapeuti hanno “sempre più a che fare con una ‘patologia dei limiti’: limiti tra sé e l’altro, tra pensare e agire, tra realtà psichica e realtà esterna e, da qualche anno, tra virtuale e reale. [si pensi alla paziente di cui vi ho parlato nella precedente vignetta clinica]. Fragili, mal organizzati, questi limiti si disintegrano ancor più facilmente in quanto i limiti della società circostante si sono essi stessi ammorbiditi, indeboliti, disorganizzati” (Guignard, 2009).
Il cambiamento dei nostri pazienti sembra dunque accompagnare di pari passo i cambiamenti sociali. Se ai tempi di Freud le psiconevrosi costituivano le manifestazioni psicopatologiche più comuni, ora dominano la scena i disturbi narcisistici, quelli di personalità, la patologia del vuoto e quella borderline, unitamente ai disturbi alimentari, a quelli psicosomatici e alle varie forme di dipendenza patologica.

CONCLUSIONI

Gli straordinari progressi tecnologici della nostra epoca, in particolare nel campo della comunicazione globale, stanno producendo una sorta di mutazione antropologica che, per quanto riguarda il nostro campo specifico, comporta un sensibile cambiamento della psicopatologia dei pazienti, del metodo e della tecnica psicoterapeutico-psicoanalitica.
Se fino a qualche anno fa’, ad esempio, parlare di “psicoterapia on line” nella comunità psicoanalitica era un’eresia inaccettabile, oggi, pur permanendo notevoli perplessità, si deve prendere atto del moltiplicarsi delle esperienze e si può scommettere che queste non faranno che crescere, fino a dovervi fare seriamente i conti. L’inevitabile misoneismo che accompagna sempre l’avvento di novità radicali non sarà sufficiente a ostacolare la crescita tumultuosa delle nuove tecnologie, e dovrà misurarsi con i comportamenti e le patologie ad esse relative. Tra queste stiamo assistendo all’enorme diffusione di forme di addiction che già trovano posto nella nosografia psichiatrica. Ma sarebbe miope soffermarsi sugli effetti dannosi, lasciando in ombra le enormi opportunità offerte dal Virtuale: dalla sterminata accessibilità all’informazione alle possibilità di comunicazione globale, dallo sviluppo di nuove abilità alla crescita della ricerca scientifica permessa da un universo della simulazione sempre più sofisticato. Né sarebbe ragionevole enfatizzare i rischi di dipendenza patologica pensando che dedicare alcune ore al giorno a chattare, a visitare siti Internet, o a partecipare a videogiochi, sia necessariamente uno scherzare col fuoco. Il rischio di addiction non è superiore a quello che si corre nel lasciarsi assorbire dai programmi televisivi preferiti. Una vera rete-dipendenza in genere si instaura in soggetti in cui una preesistente sofferenza mentale spinge ad approfittare delle suggestioni offerte da Internet e dai videogiochi per sottrarsi all’ansia e alla fatica psichica prodotta dalle relazioni sociali. Il progressivo ritiro dal mondo reale, per confinarsi in un mondo virtuale, diviene una sorta di rifugio della mente che consente alla persona d’evitare al massimo le ferite narcisistiche e i sentimenti spiacevoli, come colpa e vergogna, o di liberarsi dai legami propri di ogni situazione di dipendenza matura, alimentando inoltre subdoli sentimenti d’autosufficienza e onnipotenza. La condizione più grave è quella in cui l’internauta perde progressivamente ogni interesse per l’interazione con altri, va incontro a una crescente desocializzazione, e nemmeno cerca conferme narcisistiche, ma fa’ del surfing, unicamente, una pura ricerca d’eccitamento che scacci, almeno momentaneamente, gli affetti depressivi. Come nelle tossicodipendenze da sostanze, l’importante è stordirsi, scacciare il dolore psichico e l’angoscia del crollo. Sono proprio questi casi che costituiscono la nuova sfida umana e scientifica per gli psicoanalisti e gli psicoterapeuti del terzo millennio.

BIBLIOGRAFIA

Cantelmi T.– Orlando F., “I nativi digitali”, in Parsi-Cantelmi-Orlando, L’Immaginario prigioniero, Mondatori, Milano, 2009.
Freud S., (1927), “feticismo”, in OSF, vol. 10, Boringhieri, Torino, 1978.
Freud S. (1938) “La scissione dell’Io nel processo di difesa”, in OSF, vol. 11, Boringhieri, Torino, 1979.
Guignard F., “Lo psicoanalista e il bambino nella società occidentale oggi”, 2009,
Steiner John (1993), I rifugi della mente, Bollati Boringhieri, Torino, 1996.
Tisseron Serge, Virtuel, mon amour, Editions Albin Michel, Paris, 2008.
Tisseron S. - Missonier S. – Stora M. (2006), Il Bambino e il Rischio del Virtuale, Borla, Roma, 200

* Maria Letizia Rotolo
Psicologa-psicoterapeuta
Bologna


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