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PSYCHOMEDIA
COMUNITÀ TERAPEUTICHE
CT Salute Mentale



Un'altra scena per il trattamento: la comunità terapeutica nella terapia
dei soggetti con disturbi di personalità autori di reato

di Jutta Birkhoff


Da tempo ormai si discute circa l'inadeguatezza degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari(1) e se ne auspica, se non l'abolizione, per lo meno una impostazione più incentrata sulla cura degli internati. In particolare, gli autori, che si sono occupati dell'argomento, mettono in evidenza come detta istituzione racchiuda in sé le peggiori caratteristiche sia delle carceri, essendo, nella pratica, carente di concreti mezzi terapeutici e gestita quasi esclusivamente da personale di custodia, sia degli ex-ospedali psichiatrici, in quanto isola dal proprio ambiente familiare e socio-relazionale e ricorre all'uso massiccio di psicofarmaci o di misure contenitive, oltre ad identificare il malato con la malattia(2). Gli OPG, infatti, "al pari del concetto di pericolosità, rappresentano un ambiguo compromesso tra parametri giuridici e medici, tra sanzione e terapia, tra afflittività ed esigenza di cura, con assoluta prevalenza delle esigenze di difesa della collettività su quelle di cura del paziente, conformemente ad una visione ideologico-scientifica centrata su di un'impostazione custodialistica in cui il ricovero coatto è giustificato, in modo non sempre corretto, come una necessità terapeutica(3)".
Queste considerazioni fanno sì che sempre maggiori siano le voci che reclamano il superamento degli OPG, dato che "l'attuale trattamento dei rei infermi di mente, consistente in processi repressivi più incisivi della stessa detenzione, contrasta profondamente con lo spirito della riforma dell'assistenza psichiatrica e della riforma penitenziaria(4)". In questo senso, negli ultimi anni, si sono anche espresse diverse proposte di legge e decreti legislativi per il riordino della medicina penitenziaria, che mettono chiaramente in evidenza come il ridimensionamento degli attuali OPG rappresenti un'esigenza avvertita sia a livello istituzionale sia sociale(5).
Gli OPG e le CCC, come ben noto, non accolgono unicamente autori di reati particolarmente efferati, sintomatici di gravi patologie mentali, ma anche un numero non trascurabile di soggetti responsabili di reati bagatellari (contro il patrimonio o lesioni personali lievi), connessi ad una storia di tossico- o alcol-dipendenza, di sieropositività, di solitudine, di età avanzata, di oligofrenia e, in una percentuale tutt'altro che irrilevante, ad una diagnosi di disturbo di personalità(6). "Il manicomio giudiziario diviene così il luogo di emarginazione curativa in cui vengono convogliati quei pazienti che vengono percepiti come portatori di una pericolosa diversità. In esso si perpetua una prassi di stigmatizzazione e di esclusione attraverso la pratica medica come strumento di controllo(7)".
In questa sede vorremmo occuparci, appunto, dei disturbi personalità, delle personalità psicopatiche(8) secondo la terminologia classica, categoria nosografica di grande interesse e fascino. Mentre la società non sembra, in genere, percepire questi tipi di persone come affetti da veri e propri disturbi psichici, ma piuttosto come soggetti "disturbanti", molte domande essi stanno sollevando in ambito giuridico, psichiatrico clinico e forense e criminologico, con risposte spesso contrastanti e poco risolutive.
Nel mondo della giustizia, si discute se allargare o meno le categorie psichiatriche in grado di influire sull'imputabilità, anche se "dottrina e giurisprudenza sono, quasi sempre, concordi nel negare la rilevanza di disturbi di personalità ai fini dell'esclusione totale o parziale della capacità di intendere e di volere, ponendo l'accento più sull'assenza di senso morale che caratterizza le cosiddette personalità psicopatiche, che su veri e propri disturbi psicopatologici capaci di condizionare la condotta(9)". Accanto a questa corrente di pensiero vi è però quella che auspica "un rinnovato catalogo di misure" nella valutazione dell'imputabilità, comprendente anche i disturbi di personalità, e che porti i periti e, conseguentemente, gli stessi giudici penali ad essere "più proclivi ad estendere la stessa nozione di infermità di mente, oltre gli angusti confini segnati dal tradizionale paradigma medico-nosografico(10)".
In ambito psichiatrico forense, invece, anche se si assiste ad una sempre maggiore tendenza a restringere al massimo le ipotesi di incapacità d'intendere e/o volere per infermità, i disturbi di personalità, spesso considerati semplici aspetti peculiari del carattere e della reattività, tali da non interferire con la responsabilità penale, continuano comunque ad ingenerare dubbi e perplessità nella prassi peritale e notevoli difficoltà nella valutazione della potenzialità o meno del disturbo di influire sull'imputabilità del soggetto.
Lo psichiatra clinico si deve confrontare, fra altro, con la reticenza alla richiesta di aiuto dei soggetti portatori di disturbi di personalità, data la non consapevolezza di "essere bisognosi di cure" che li caratterizza. La loro tendenza a scaricare la tensione con l'azione, per definizione egosintonica, ad esempio, non crea loro alcun senso di colpa, non si sentono, cioè, "malati" e quindi non cercano l'appoggio del medico; allo psichiatra, d'altro canto, spesso riesce difficile instaurare con essi un'alleanza terapeutica, una relazione fondata, cioè, sulla condivisione della sofferenza e sulla ricerca comune di percorsi utili ad attenuarla(11).
Il criminologo, infine, incontra siffatti soggetti nelle carceri, ne studia i comportamenti e si domanda se essi siano liberi o meno nel scegliere le loro azioni, se si tratta, cioè, di delinquenti o di malati.
Le incertezze circa le personalità psicopatiche non vengono nemmeno risolte alla consultazione del DSM: questo, infatti, sin dal 1979, con il DSM-III, non parla più di "malattia", bensì di "disturbo", inteso come sindrome comportamentale riconducibile ad una presupposta disfunzione psicologica o biologica, non essendo più condivisibile una impostazione basata sull'esistenza di una netta linea di demarcazione fra salute e malattia mentale, due stati collegati da un "continuum lungo il quale è assai arduo individuare dei punti di cesura(12)".
Tra queste "sindromi comportamentali" stanno, appunto, avendo sempre maggiore rilevanza i diversi disturbi di personalità, classificati dal DSM-IV in Asse II, accomunati in particolare da instabilità emotiva, difficoltà relazionali e manifestazioni comportamentali che rimandano ad un quadro pervasivo di inosservanza e violazione dei diritti degli altri, descrizione che più che connotare un'entità clinica, inquadrabile nell'ambito delle infermità, sembra piuttosto quasi descrivere una "categoria criminologica"(13).
Secondo il DSM-IV, infatti, "un disturbo di personalità rappresenta un modello di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell'individuo, è pervasivo e inflessibile, esordisce nell'adolescenza o nella prima età adulta, è stabile nel tempo e determina disagio o menomazione(14)".
Come emerge dai criteri diagnostici riportati nel DSM-IV(15), i soggetti con disturbo di personalità presentano, fra l'altro, difficoltà nel rapportarsi con l'ambiente sociale e con il prossimo, oltre ad una incapacità nel controllo dei propri impulsi con tendenza a passare all'atto. Costituendo queste caratteristiche "un modello abituale" di relazionarsi, una sorta di modus vivendi, le possibili ripetute azioni "disturbanti", possono comportare conseguenze penali con reclusioni sia in carcere sia all'interno di una misura di sicurezza. Questa propensione a scaricare all'esterno una tensione interiore, conseguente a frustrazioni e conflitti, agendo comportamenti abnormi ed inadeguati, è frutto della loro incapacità di verbalizzare i problemi. Insensibili alle opinioni, ai valori, ai desideri o alle vedute morali degli altri, questi soggetti giustificano il loro comportamento deviante riversandone la responsabilità sulla società, sull'ambiente o, in genere, sugli altri, mantenendosi così liberi da qualsiasi senso di colpa.
Queste "personalità pseudonormali(16)", organizzazioni nelle quali prevalgono narcisismo, tendenza a dominare l'oggetto, anaclitismo e scissione, sono tutte caratterizzate da pervasività, maladattività e disfunzionalità con comportamenti dettati dall'incapacità di controllare la propria pulsionalità e diretti alla soddisfazione immediata dei bisogni e guidati dalla scarsa reattività emotiva. Le funzioni superegoiche scisse in parti tra loro talvolta conflittuali, talvolta non coordinate, e la marcata immaturità strutturale, estremamente precaria, espongono questi soggetti ad elevato rischio di scompenso. Per fronteggiare una depressione sempre in agguato, sono continuamente costretti a ricorrere ad una serie di artefici caratteriali e psicopatici per preservare il proprio Io. Con un anaclitismo ossessivo lottano incessantemente per mantenere una sicurezza narcisistica che possa coprire i rischi depressivi permanenti.
Tutte queste personalità, pur nelle loro sostanziali differenze, sono accomunate dall'astrutturazione, ovvero dall'assenza di una stabile organizzazione di personalità in senso psicotico o nevrotico. Questa collocazione al limite, si caratterizza, fra l'altro, dalla coesistenza di due settori operativi dell'Io: quello che resta nell'ambito di un adattamento classico alla realtà esterna e quello che funziona in modo molto più autonomo, essenzialmente fissato ai bisogni narcisistici, soddisfatti attraverso meccanismi di parziale diniego della realtà (scissione, idealizzazione primitiva, diniego, onnipotenza, svalutazione) e da modalità di rapporto anaclitico rassicuranti(17).
"Anche di fronte alla constatazione del fallimento, tali soggetti non saranno mai portati al ridimensionamento delle proprie aspettative o al senso di colpa, ma ogni frustrazione, avvertita come troppo pesante da tollerare, provocherà, al contrario, un senso di vergogna o di disgusto di sé, che potrà essere proiettato sugli altri e dare luogo così ad acting-out spesso imprevedibili e talora incomprensibili, finalizzati sul piano intra-psichico ad eludere l'angoscia depressiva ed il rischio della frammentazione psicotica a fronte di una ferita narcisistica particolarmente grave(18)".
Essi quindi, apparentemente, non riescono a trarre alcun insegnamento da esperienze precedenti ed ogni qualvolta si ripresenta una situazione vissuta come frustrante o ansiogena, essi, invece di riuscire a verbalizzare l'angoscia, sembrano costretti a "comunicarla" con un'azione etero- o auto-diretta. Questo "agire" è la loro risposta a situazioni che assumono il significato di minaccia al loro precario equilibrio psichico.
Come riferito in un recente lavoro riguardo al disturbo antisociale di personalità(19), diversi autori(20) hanno evidenziato una correlazione dell'impulsività con instabilità affettiva, ridotta abilità verbale, ricerca di sensazioni forti(21) e di novità, e l'incapacità di tollerare ritardi nella gratificazione(22).
Riprendendo un'interpretazione esposta anni or sono, il loro passaggio all'atto, l'esteriorizzazione, cioè, dei conflitti interni nella realtà oggettiva, esprime la loro dimensione conflittuale in "un mostruoso tentativo di guarigione(23)".
"Certi passaggi all'atto si collocano ad un livello molto arcaico. Essi rappresentano atti vendicativi, aggressivi, o eterodistruttivi, come esplosione di rabbia narcisistica di fronte alle frustrazioni dei propri bisogni narcisistici(24)". Il loro agire, "un'azione sia sostitutiva che resistenziale rispetto al pensiero ... per motivi difensivi dall'angoscia o per una incapacità derivante da una preclusione del simbolico(25)", serve a "comunicare e a nascondere", rappresenta una "formazione di compromesso" che, non solo risulta essere sostitutivo del pensiero, ma segnala una drammatica impossibilità o difficoltà dell'uso del pensiero. "Il consumarsi delle pulsioni, secondo modalità di ripetizione coatta, non consente una progressiva scansione simbolica del pensiero: ciò spiega, in parte, le caratteristiche di ciclicità senza progressione storica di questa struttura personologica, il suo modo 'atemporale' di esistere(26)".
Anche se, come già accennato, questi soggetti sembrano essere restii a richiedere aiuto o non "vogliono" essere aiutati, appare, comunque, evidente il loro estremo bisogno di cura e sostegno, che, nel caso venissero in contrasto con la legge, sicuramente né una struttura carceraria, né tanto meno una misura di sicurezza potrebbero offrire loro, strutture nelle quali prevale l'ottica del "contenimento" dei comportamenti "disturbanti".
Siffatti soggetti necessitano invece di una cura, una terapia, una "riabilitazione, intesa come il processo attraverso il quale un individuo viene aiutato a sviluppare nuove strategie di adattamento alla propria disabilità per raggiungere un grado di funzionamento migliore(27)". In quest'ottica il malato stesso deve passare da "oggetto" a "soggetto", cioè, "autore", del processo curativo, attuato con un opportuno addestramento che lo rende "consapevole della sua malattia e degli effetti che questa produce" e gli fornisce "la possibilità di dominare il suo agire(28)".
Da diverse fonti, recenti(29) e meno recenti, emerge però chiaramente che "esiste una tendenza orientata ad espellere dai servizi assistenziali soprattutto quei pazienti che per l'intreccio inestricabile fra disagio psichico, disadattamento e disturbo sociale pongono maggiori problemi e risultano, in definitiva, meno gestibili (30)", descrizione di tipologia di pazienti che sembra essere esattamente quella dei disturbi di personalità. "Accade, tuttavia, che ancora oggi nella realtà clinica dei Servizi vengano messe in atto strategie di evitamento o di allontanamento di questi pazienti, per evitare fardelli emotivi troppo intensi, gravi turbolenze interpersonali e anche la difficoltà di affrontare un lavoro poco sostenuto da certezze tecniche(31)". Questa situazione sembra essere ancora più evidente nei casi in cui dall'anamnesi risulta la commissione di un reato e/o un soggiorno in una misura di sicurezza, fatto che spesso conduce ad una perdita di motivazione nei confronti di questi soggetti, con riduzione ai minimi termini dell'investimento di programmi curativi e riadattativi. Si determina così un sostanziale abbandono proprio di coloro, che, per le difficoltà di controllo delle valenze aggressive, più di altri necessitano di trattamento.
È certo che la presa in carico di soggetti portatori di disturbo di personalità pone onerose richieste in termini sia di risorse terapeutiche da dedicare loro, sia di cronicità e di spesa sociale.
La loro incontrollabile impulsività, dovuta all'incapacità di differire la scarica pulsionale, fa già emergere serie difficoltà di comunicazione con questi soggetti, dovuta alla loro sorprendente incapacità di darsi un minimo di riflessione introspettiva circa il proprio comportamento(32). Come ben evidenziato in un recente studio, a causa dei loro comportamenti aggressivi e della loro impulsività, gli operatori si trovano di fronte ad una costante situazione di difficile gestione: essi devono essere in grado "di affrontare e padroneggiare istanze salvifiche e sentimenti di paura, di disperazione, impotenza, incapacità e perdita di identità professionale, e di mantenere una percezione realistica dei rischi, propri e altrui, e delle potenzialità evolutive. La scotomizzazione della propria paura e del timore per la propria sicurezza possono paralizzare gli sforzi o esporre la relazione, il paziente e gli operatori al rischio di agiti tesi a proteggersi da una situazione alla quale si sentono costretti. (...) La percezione delle difficoltà trattamentali può spiegare l'evocazione delle risposte controtransferali che Symington(33) descrive: incredulità, collusione, condanna(34). Queste reazioni possono interessare l'équipe psichiatrica nel suo complesso, o essere distribuite tra i diversi operatori, aumentando il grado di conflittualità e frammentazione al suo interno(35)".

Da quanto finora esposto, emerge chiaramente la necessità di trovare soluzioni adeguate per prendere in carico siffatti soggetti, specie quando si rendono responsabili di fatti-reati, che, come ampiamente confermato da diversi studi, sono solo tangenzialmente legati alla malattia, ma soprattutto correlati alla qualità di cura che essi ricevono(36).
Il problema del disturbo e della trasgressione dei soggetti portatori di disturbi di personalità viene, come già accennato, sostanzialmente risolto attraverso le due principali strutture di controllo giudiziario, il carcere e l'OPG. Mentre il carcere sembra essere la prima tappa del percorso dei soggetti più disadattati, disturbanti e con minore opportunità di recupero, determinandone così una sempre maggiore criminalizzazione, quando i loro disturbi psichici vi rendono eccessivamente problematica la permanenza, l'alternativa diventa l'internamento in OPG(37). Si evidenzia quindi come "la risposta istituzionale a situazioni così complesse è, non di rado, limitata ad un contro-agire simmetrico e si sostanzia nell'isolamento dalla comunità e dal proprio ambiente familiare e socio-relazionale(38)".
Da tempo ormai altre realtà europee hanno introdotto soluzioni trattamentali diverse per questi soggetti, anche se responsabili di reati gravi, puntando, ad esempio, sui cosiddetti istituti di terapia sociale, basati sull'applicazione della psicoterapia individuale e di gruppo, nonché sulla progressiva apertura verso l'esterno, attraverso esperienze lavorative controllate, che hanno complessivamente dimostrato un buon risultato, specie per quanto riguarda la diminuzione del tasso di recidiva(39). Esistono poi positive esperienze di trattamento in strutture, intra- ed extra-carcerarie, specialmente fondate sul confronto tra pari, perché "una psicoterapia individuale ambulatoriale ... è destinata a fallire" e "una qualche forma di setting istituzionale o residenziale è indispensabile per un trattamento, seppur modesto(40)", di siffatti soggetti.
Dato che l'attuale assistenza psichiatrica utilizza formule di intervento integrate con il territorio in cui essa si attua, "fermo restando che il più delle volte non è tanto la restitutio ad integrum (la guarigione cioè) che si può prospettare, quanto una sufficiente integrazione nel gruppo di appartenenza che permetta al malato un'autonoma gestione esistenziale e quindi un autonomo approccio alla tutela sanitaria per mantenere in compenso il suo disturbo mentale(41)", un'impostazione di questo genere deve valere anche per i disturbi di cui qui si tratta.

Vogliamo quindi qui presentare una proposta di trattamento per questo tipo di paziente, uno dei più preoccupanti, difficili e gravosi di tutti quelli gestiti dai Servizi di Salute Mentale, perché "è nelle relazioni interpersonali spigolose e problematiche che, in un certo senso, si trova la difficoltà primaria(42)".
La loro aggressività con ricorrenti azioni auto- o etero-lesive o rabbia intensa e immotivata, l'apparente insensibilità nei confronti degli altri, la tendenza a non assumersi la responsabilità delle loro azioni, l'apparente incapacità di trarre insegnamento dalle esperienze, l'incapacità di esprimere verbalmente sentimenti, by-passando il pensiero, l'incapacità di richiedere aiuto in caso di malessere, il sentimento cronico di vuoto, il disturbo dell'identità (immagine di sé, o senso di sé, segnatamente e persistentemente instabile), l'intolleranza a stare soli, la perdita della capacità di ritrovare la calma, quando sono esposti a forti emozioni negative, la tendenza a polarizzare il mondo in bianco e nero, buono e cattivo, pongono quindi onerose difficoltà agli operatori. Molti di questi ultimi, infatti, si sentono confusi, irritati, soprafatti o impotenti di fronte a questi soggetti, che riescono ad indurli, provocatoriamente, a risposte inadeguate, quali un rifiuto totale del paziente o una impotente compiacenza.
Con tali difficoltà si sta confrontando, da quasi cinquant'anni ormai, l'Henderson Hospital di Londra(43), che accoglie soggetti portatori di disturbi moderati o gravi di personalità, con storie di violenza auto- e/o etero-diretta, abuso di droghe e/o alcool, applicando un interessante ed efficace approccio terapeutico che sembra utile presentare.
Sin dalla seconda metà degli anni sessanta questa struttura, allora diretta da J. Stuart Whiteley, si interessò del settore carcerario e della probation, indagando la risposta di soggetti psicopatici alla terapia di comunità ottenendo ottimi risultati, in quanto, come evidenziato da uno studio di allora su ex-residenti, a due-tre anni dalle dimissioni dalla struttura, il 40% non aveva richiesto nuove ospedalizzazioni o riportato nuove condanne(44).
L'ospedale di Henderson si basa sui noti concetti di "comunità terapeutica" introdotti da Tom Main(45), Maxwell Jones(46) e Robert Rapoport(47).
In particolare, Main definiva la comunità terapeutica una "cultura di indagine all'interno dei problemi personali, interpersonali e degli intersistemi, uno studio su come impulsi, difese e relazioni, vengono espressi e ordinati a livello sociale". Egli specificava che una comunità terapeutica non è un ospedale, organizzato da medici e incentrato sulla loro efficienza tecnica, ma una struttura che ha come "fine immediato la completa partecipazione di tutti i suoi membri alla sua vita quotidiana e come scopo finale la risocializzazione di soggetti nevrotici nella società(48)". La "cultura d'indagine" deve mirare a portare l'individuo ad indagare se stesso, evitando il ricorso a trattamenti estremi, avendo il paziente stesso una strutturazione estrema che necessita, invece, di volta in volta, risposte diversificate. I residenti vanno, infatti, affrontati nei loro aspetti sia di vittima sia di attore, individuandone le parti sane e la forza interiore su cui lavorare e agire. Fondamentale per l'organizzazione e il funzionamento della comunità terapeutica, è l'idea che il paziente, inteso come parte integrante della struttura stessa, possa assumere un ruolo adulto e responsabile al suo interno, il che implica, fra l'altro, la partecipazione attiva al e la responsabilità per il proprio e l'altrui trattamento, trattamento che non è quindi più solo delegato ad uno staff specificamente addestrato.
La comunità funziona come una "organizzazione di servizio", il cui maggiore beneficiario è il gruppo dei clienti/residenti. Il "prodotto", difficilmente definibile, consiste unicamente in pensieri, sentimenti, attitudini e, in senso lato, comportamenti dello staff e dei residenti. Lo scopo della comunità è quello di funzionare secondo una cultura approvata o preferita che l'individuo acquisisce e fa propria, favorendo così un ulteriore sviluppo emozionale e della personalità. Poiché il comportamento mostrato dai residenti all'interno della struttura riflette esattamente quello attuato all'esterno, altro presupposto fondamentale di una comunità è quello di rispecchiare il mondo esterno, perché solo così i pazienti, una volta dimessi, vi si potranno sentire a loro agio.
L'atmosfera che regna nella struttura non è quella di un ospedale, ma richiama quella di un pensionato per studenti, con camere singole, un grande giardino e ampi spazi per lo svago e le attività lavorative. L'ambiente emozionale e fisico dell'Henderson Hospital, necessario allo sviluppo e all'applicazione di strategie meno estreme e meno maladattive, aiuta a ristabilire conflitti emotivi individuali precedentemente evitati, seguendo un programma terapeutico che implica però anche i rischi e le pressioni dovute ad una interazione sociale.
La comunità ospita solitamente circa 30 pazienti, equamente divisi fra maschi e femmine, in età compresa tra i 17 e i 45 anni. Si tratta per la maggior parte di soggetti single, spesso disoccupati, con precedenti fallimenti terapeutici, storie di maltrattamenti subiti durante l'infanzia (fisici, psichici o sessuali), di abuso di droga o alcool, di tentati suicidi o autolesionismi; il 50% circa è stato oggetto di denuncie e il 30% circa ha scontato pene detentive.
La diagnosi di disturbo di personalità di grado moderato o severo li accomuna: borderline, (85% circa dei casi, suddivisi in tendente all'"azione" o al "ritiro", in base alla strategia difensionale abituale per fronteggiare situazioni conflittuali), paranoide, istrionico o antisociale. Affinché il trattamento, che prevede un unico programma terapeutico, è, infatti, fondamentale che tutti i residenti presentino una simile organizzazione della personalità.
La durata media di permanenza è di sette mesi, mai superiore ad un anno. L'accesso e la permanenza nella comunità sono rigorosamente volontari e assolutamente indipendenti da eventuali decisioni da parte del tribunale.
Le richieste per l'accoglienza sono sempre numerose, di cui lo staff scarta però subito circa il 30-40% per palese incompatibilità con l'ambiente comunitario, la quota rimanente viene valutata con colloqui diretti.
Durante questo primo incontro, i candidati sperimentano l'immediato approccio con il gruppo, principio fondante della comunità, costituito da residenti "anziani" (in comunità da almeno tre mesi) e membri dello staff, in rapporto rispettivamente di tre ad uno; essere selezionati da "pari", fattore molto importante per la parte iniziale dell'inserimento, rappresenta da subito una situazione d'apprendimento diretto. Durante l'intervista, il richiedente viene invitato a descriversi come persona, ad esporre le sue difficoltà passate e presenti, a riferire di eventuali trattamenti attuati nel passato, di aspetti dell'infanzia e dell'adolescenza e quali sono i problemi che vorrebbe affrontare e, eventualmente, risolvere con il trattamento comunitario.
Terminato il colloquio, a porte chiuse, si discute sul candidato e si vota democraticamente per l'accettazione o il rigetto della richiesta. Essendo il numero dei residenti coinvolti nettamente maggioritario rispetto a quello dello staff, sono i primi che effettivamente decidono, respingendo circa il 30% dei richiedenti, percepiti come tendenti alla somatizzazione o come portatore di tratti ossessivi/compulsivi o fobici, accettando invece soggetti capaci di verbalizzare sentimenti, descrivere le proprie difficoltà psicosociali e funzionare nel gruppo. Partecipare a questo processo di selezione è inoltre terapeutico per i residenti stessi, che sperimentano il peso e la responsabilità di una propria scelta; inoltre, durante questi colloqui, essi si vedono riflessi nei candidati, realizzando come essi stessi appaiono al prossimo o come sono soliti apparire. Prima però che un candidato accettato entri, di fatto, nella comunità, in sua assenza, egli viene presentato al resto dei residenti attraverso un resoconto sulla sua intervista per l'accoglienza.
Circa il 25% dei pazienti (specie tendenti all'acting out) lascia precocemente la comunità perché incapace di adattarsi alle sue regole: essere accolti nella comunità significa, infatti, accettare un contratto di trattamento che prevede di non perseverare in comportamenti maladattivi, ma di iniziare a dipendere da una comunicazione verbale e da una "esplorazione" per identificare e cambiare la gestione di sentimenti potenti e negativi. Sin dall'inizio della terapia, i pazienti con tendenza all'azione, vengono portati a sentire ed esprimere i propri sentimenti a parole invece che in azioni e vincolati a certe regole. I soggetti che tendono invece a ritirarsi, vengono subito coinvolti nell'attività formale della comunità, basata sul gruppo.
Questo tipo di approccio terapeutico vuole facilitare uno stile comportamentale che includa una capacità riflessiva in contrapposizione all'automatica modalità di agire o di ritirarsi di fronte ad un conflitto emotivo, agendo a tre livelli: personale, interpersonale e comunitario. A livello personale, di fronte ad uno stato di tensione interiore generato da richieste esterne, si cerca di potare il soggetto ad una progressiva rinuncia alle abituali modalità di reagire ai conflitti. A livello interpersonale, nei confronti degli altri, cioè, sia soggetti tendenti all'agito, sia quelli orientati al ritiro, si vedono continuamente confrontati con individui dalle strategie difensive speculari. Ciò non costituisce unicamente una forma di apprendimento potenziale nel rapportarsi con gli altri, ma comporta anche rivalità, competizione e conflitto, situazioni che implicano aumentata probabilità di ricorrere alle abituali strategie difensive. Se il soggetto riesce però a resistere a questi impulsi, grazie allo sviluppo della capacità di sperimentare un conflitto emotivo (provare paura, collera o depressione), egli potrà instaurare metodologie di adattamento e di espressione emozionale più mature. All'interno della comunità, a livello cioè dell'intersistema, bisogna fronteggiare la continua formazione e il continuo dissolvimento degli innumerevoli esempi di accoppiamenti, di raggruppamento e di formazioni di capri espiatori, fra residenti, fra staff e residenti o fra membri dello staff stesso, di cui assumono particolare rilievo le interazioni tra i nuovi giunti e il sotto-sistema dei residenti e tra quest'ultimo, nel suo insieme, e lo staff.
Sia l'inserimento sia la dimissione costituiscono momenti difficili e tali da richiedere un'attività sotto-gruppale di sostegno, formata sempre da residenti e staff. Un piccolo gruppo supporta il nuovo giunto per tre settimane e, durante la prima settimana, vige una certa permissività per consentirgli di integrarsi e di conoscere le regole, settimana questa in cui non ha diritto di voto per l'assegnazione dei diversi compiti attribuiti agli altri membri. I "nuovi" devono poter sperimentare la propria posizione nell'ordine dominante, spesso attraverso l'infrazione dei precetti, per poter discerne come i dettami della comunità vanno mantenuti. Vedersi collocati in una determinata posizione della scala gerarchica, ha un effetto rassicurante o di contenimento.
Anche la dimissione costituisce una situazione difficile da affrontare ed accettare, visto che la comunità diventa un posto di particolare attaccamento e sicurezza. Questo momento viene spesso vissuto come un'espulsione o una separazione traumatica, evocando collera o tristezza, che richiede un'accurata preparazione al distacco con l'attività di sotto-gruppi settimanali in cui si discutono e si affrontano le difficoltà vissute. Di queste riunioni si dibatte poi durante le sedute generali del giorno dopo.
Una volta accettate le regole (divieto assoluto di alcool o droga, di comportamenti violenti, di ritardi negli orari delle riunioni di gruppo, ecc., infrazioni che possono comportare l'espulsione dalla comunità), di norma, si assiste ad un progressivo attaccamento alla comunità.

Il gruppo dei residenti, gerarchicamente strutturato, è capeggiato dai cosiddetti "top three", supportati dal "general segretery", incarico, della durata di un mese e votato democraticamente, ricoperto unicamente da coloro che vantano almeno tre mesi di permanenza nella struttura. Il loro compito consiste nel coordinare le attività comunitarie, fissando l'ordine del giorno delle riunioni, presiedendo gli incontri quotidiani, guidando il gruppo settimanale di selezione, decidendo circa la necessità o meno di indire una riunione di emergenza.
Questi "incontri di emergenza", alle quali devono partecipare tutti i membri della comunità, possono essere indette in ogni momento del giorno e della notte, sia perché sono state violate importanti regole sia perché un paziente si trova in una situazione di particolare sofferenza che necessita di un aiuto immediato. In queste riunioni straordinarie si crea un gran supporto emotivo e pratico nei confronti di chi viene percepito come meritevole e specialmente di chi, in precedenza, ha dato, a sua volta, supporto ad altri o ha già affrontato i suoi problemi in modo sincero. La tolleranza e disponibilità dei residenti è, comunque, limitata e ciò si rivela essere benefico, perché ci si confronta e si discute sui ruoli vissuti come penosi ma che possono essere stati esagerati, diventando un'azione manipolatrice. Se i residenti, tutti simili fra loro, sono, infatti, stati ripetutamente costretti a rimanere svegli durante la notte a causa di un membro particolarmente disturbato o sofferente, iniziano ad aspettarsi, da quest'ultimo, un cambiamento della sua modalità di esprimere il disagio e un maggiore uso della terapia di gruppo durante le ore del giorno. Così, paragonato a molti altri tipi di setting, un tale modo di esternare il disagio non viene rafforzato, ma diventa una battaglia sincera con le difficoltà psichiche. In queste situazioni non vi è alcun intervento "specialistico" da parte dello staff, nel senso di una interminabile relazione uno-a-uno, che tenderebbe unicamente a rinforzare un comportamento malato o manipolatorio.
Altri compiti, quali la tenuta del registro della frequentazione alle riunioni, l'organizzazione della cucina e delle provviste, i turni della pulizia, ecc., sono svolti dagli altri residenti, compiti attribuiti sempre in base alla durata di permanenza in comunità. Ogni mese, unicamente i residenti votano l'assegnazione delle diverse mansioni, anche se lo staff partecipa alla discussione circa le nomine e la loro opportunità. Tutti i membri possono, così, nell'arco del loro soggiorno, ricoprire ogni ruolo previsto. Delle attività svolte viene valutato come tale compito viene effettuato, si punta, cioè, sul "mezzo" piuttosto che sul "fine".
Data la varietà del programma, rigidamente strutturato, e l'ampia possibilità di contatti sociali, attuati durante il tempo libero, ogni residente può trovare uno spazio in cui inserirsi e ciò può rafforzare l'autostima. Alcune di queste attività richiedono capacità verbali, altre pratiche o manuali, associate ad effetti terapeutici differenti.
Tutti i componenti della struttura partecipano, ovviamente, alle riunioni giornaliere "ordinarie", in cui si discute delle attività amministrative e gestionali quotidiane, si affrontano difficoltà personali, problemi tra residenti o residenti e staff, cercando di risolverli insieme. Questi incontri hanno direttamente o indirettamente molte funzioni, tra cui quella di aumentare la coesione e il senso di appartenenza alla comunità, di attirare l'attenzione sui membri più sofferenti e di esaminare i comportamenti che violano le regole. Il loro programma, rigorosamente organizzato e con rigidi limiti di tempo, ha un effetto contenitivo. Perderne più di dieci minuti, significa avere perso l'intera terapia di gruppo, fatto questo segnalato durante la riunione del giorno seguente, allorché il soggetto in questione è chiamato a giustificare il proprio ritardo. Mancare a più di due riunioni di gruppo nel corso di una settimana, comporta l'obbligo di seguire interamente quelle della settimana seguente e alla fine di questo percorso, tutta la comunità deciderà se il candidato è trattabile o meno. Ancora una volta è il numero maggioritario dei residenti ad emettere la decisione finale su chi rimane e chi no. L'espulsione è quindi l'estrema censura il cui potere dipende dai residenti e una riammissione è improbabile, anche se il soggetto in questione ha ancora la possibilità di richiedere un'altra opportunità, fornendo una ragione plausibile per le sue manchevolezze, dimostrando rimorso e buoni propositi per il futuro.
La violazione di regole, quali l'uso di violenza (auto- o etero-diretta o contro la proprietà), di droga o alcol, comportano l'automatica espulsione. Il trasgressore viene percepito dai residenti della comunità come colui che si espelle da solo, dandogli però la possibilità di rimanere fino alla riunione ordinaria del mattino seguente, durante la quale il suo caso viene discusso.
I residenti devono quindi conoscere bene le regole, sapere di dover essere in un dato luogo in un certo momento, che la loro assenza sarà notata e che saranno chiamati a renderne conto. Queste regole servono ad incoraggiare una riflessione sul perché una regola è stata disattesa, a facilitare la costruzione di una modalità di pensiero basata sul concetto causa-effetto; servono a spingere il soggetto a pensare prima di agire e tener conto degli effetti emotivi che parole e azioni possono avere sugli altri.
Ogni riunione può essere paragonata ad un rituale, espresso nella sua rigida e ripetitiva organizzazione, perfino a livello linguistico (ogni riunione inizia con frasi standard, tipo "buon giorno, ... chi manca"), di per sé terapeutica. Questo "rituale", serve sia da stimolo sia da contenimento, quest'ultimo come la messa in gioco di altri impulsi di base per controbattere l'aggressività. Riuscire a "controbattere l'aggressività con altri impulsi di base", significa costellare i conflitti emotivi individualmente piuttosto che a livello interpersonale. I conflitti interpersonali, tra soggetti tutti simili fra loro, sono spesso sostenuti da una ritorsione automatica e non pensata. Se, invece, l'aspettata risposta ritorsiva degli altri non si presenta, il soggetto in questione "cresce" bruscamente perché costretto a pensare o a porre domande.
Per quanto riguarda lo staff, composto da medici, infermieri, psicologi, sociologi senza alcuna rigida gerarchia, questo, oltre a presenziare alle terapie di gruppo, si riunisce dopo ogni riunione gruppale per riesaminare e riflettere sull'accaduto e ai cambi di turno, mattino e sera (a quest'ultimo partecipano anche due residenti). La maggior parte del personale (infermieristico e di terapia sociale) lavora a turni, mentre quella minoritaria svolge la sua attività dalle 9.00 alle 17.00, da lunedì a venerdì (medici, infermiere capo, assistente sociale, arte-terapeuta, psicologo). Di notte e durante i week-end solo due membri dello staff sono di turno, mentre alla riunione mattutina del sabato partecipa anche un medico.
Il personale si ritrova inoltre, ogni quindici giorni, in una riunione accademica per discutere di questioni amministrative. Ogni settimana gli operatori seguono un incontro di gruppo cosiddetto "emozionale" alla presenza di uno psicoterapeuta esterno, volta a trattare eventuali conflitti professionali staff-staff. Tutti questi ritrovi si svolgono in setting gruppali e l'appiattimento gerarchico significa che le decisioni, riguardanti affari dell'unità e aspetti clinici, vengono presi attraverso la negoziazione e il consenso. In questo modo, si mantiene consapevolezza di dover funzionare come gruppo di soggetti più o meno uguali (nonostante gli ovvi aspetti gerarchici e le differenze). Questa situazione rispecchia quella dei residenti, anche se la giornata lavorativa dello staff è più altamente strutturata. La pressione di tempo e i setting di gruppo, facilitano una comprensione empatica dell'esperienza di far parte della comunità di residenti, importante per mantenere un contatto empatico con il gruppo dei non facili clienti.
Sotto certi aspetti, il personale sperimenta e reagisce alla comunità allo stesso modo dei residenti. In rapporto con questi ultimi deve fungere da "facilitatore" piuttosto che da "organizzatore" o "consigliere". Riuscire in quest'intento o provvedere alla funzione di "contenimento" è un compito difficile, particolarmente di fronte a comportamenti aggressivi, antisociali o infrangenti le regole. Per evitare semplici reazioni di ritorsione nei loro confronti, è fondamentale un sostegno filosofico e teorico per i diversi processi di trattamento. Altro aspetto da considerare è quello del transfert e contro-transfert, ambito in cui la dinamica di "abuso genitori-bambino" si può sviluppare in vari modi. Così può accadere che lo staff, in qualche momento, si senta particolarmente abusato e condanna i residenti. In altre occasioni, si sente colpevole di non avere adeguatamente provveduto ai bisogni o di non essere stato una figura "parentale" migliore (personale quale abusante). Spesso la dinamica è giocata all'interno dello stesso gruppo degli operatori, quando un suo membro o un suo sottogruppo è violentemente scisso o polarizzato su sentimenti di essere vittima o attore in relazione al resto di questo gruppo. Il personale deve essere conscio dell'influenza pervasiva di questa e di altre dinamiche e forze nascoste. Lavorare con un gruppo di soggetti altamente disturbati pone, infatti, onerose richieste alla loro professionalità.
In un certo senso, la rigida strutturazione delle loro riunioni favorisce una regressione a modelli infantili di relazionare, con la possibilità di rinunciare alla responsabilità connessa a certi compiti, favorita anche dall'"appiattimento" della loro gerarchia, che non facilita necessariamente il reciproco confronto in queste importanti problematiche. L'obiettivo, difficile da raggiungere, di una qualche leadership in una tale gerarchia appiattita, è quello di trovare un equilibrio con la tentazione di diventare autoritario e dittatoriale, che rinforzerebbe unicamente la dipendenza e l'irresponsabilità del resto degli operatori. Questi sono aspetti autentici con i quali anche il gruppo dei residenti combatte e che il personale deve essere in grado di trattare. Così un importante compito del leader è quello di facilitare l'interazione staff-staff nello stesso momento in cui rimane un membro integrante il team stesso.

In pratica, nell'Henderson Hospital di Londra, ogni settimana si svolgono le riunioni giornaliere di tutta la comunità, tre psicoterapie di piccoli gruppi, due terapie artistiche e psicodrammi e due incontri dei gruppi di lavoro (cucina, giardinaggio, manutenzione e arte). Viene utilizzata la psicoterapia e la socioterapia per facilitare l'interiorizzazione di capacità riflessive, in contrapposizione all'automatica azione o ritiro, di fronte a conflitti emotivi. Non si pratica però alcuna psicoterapia individuale o terapia psicofarmacologica, nemmeno in caso di eventuali episodi psicotici brevi, solitamente, affrontati unicamente con l'intervento contenitivo degli altri residenti.
L'intero programma terapeutico può essere concepito come una singola seduta analitica che coinvolge lo staff in continue situazioni di transfert-controtransfert. Strutturato nel tempo e nello spazio, svolge la stessa funzione contenitiva gli aspetti non integrati o progettati dei residenti di una sessione analitica individuale.
Lo scopo principale del trattamento è fare diventare i residenti "persone pensanti e con sentimenti", portarli, cioè, a sentire ed esprimere i propri sentimenti con parole e non con azioni; la comunità, quale "cultura di indagine", serve a reintegrare conflitti emotivi precedentemente evitati e ad aumentare l'autostima e il senso di responsabilità dei pazienti.
La "cultura di indagine", che implica pensare, riflettere e domandare, è particolarmente rilevante per il trattamento di soggetti borderline, perché li aiuta a divenire persone che "pensano e sentono". Il ripristino di conflitti emotivi evitati, implica l'incontro fra opposti (cuore e testa, logico e illogico, pensieri e sentimenti), facendo capire che elementi contrastanti possono coesistere e lavorare insieme. In sintesi, senza trattamento siffatti soggetti sentono o pensano, con la terapia sentono e pensano. L'intervento terapeutico facilita, infatti, una fortificazione dei sentimenti e del pensiero e lo sviluppo della capacità di mantenere un tale stile.
In pratica, il soggetto viene messo nella situazione di sperimentare, concretamente, la sua influenza sugli altri componenti della comunità e il loro coinvolgimento emotivo. Inoltre, la struttura deve essere in grado di affrontare, a livello sia individuale sia dell'intera comunità, sentimenti e pensieri contraddittori nei confronti di alcuni membri che oltrepassano i limiti necessariamente imposti dalla struttura, che proibisce certi comportamenti e ne consente altri.
Affinché una comunità resista, le idee culturali (permissività, comunalismo, democrazia, confronto con la realtà) devono essere incorporate ed espresse in modo autentico e continuato, nella consapevolezza che esse possono perdere il loro valore autentico, privando così la comunità del suo futuro esistenziale; una "cultura dell'indagine" implica la capacità di pensare e ciò nella comunità dipende, in parte, dal funzionamento del lavoro di gruppo.
Una struttura come l'Henderson Hospital deve il suo successo però anche al fondamentale contributo dato dallo stesso gruppo dei residenti, che le conferisce un'inconfondibile, anche se mal definibile, impronta e che contribuisce alla stabilità dell'organizzazione e allo sviluppo della sua cultura. Per questa comunità terapeutica, come in ogni trattamento basato sul gruppo, esiste il paradosso che il "contenitore" sia anche "contenuto".
L'efficacia di questo tipo di approccio terapeutico è stata dimostrata da un recente studio, iniziato nel 1990, condotto su ex-pazienti, che, ancora a diversi anni dalle dimissioni, presentano una significativa diminuzione della loro tendenza ad esprimersi con l'agito, riuscendo per lo più, in caso di sofferenza interna, a richiedere consapevolmente aiuto ai servizi territoriali. Questi risultati positivi, tradottisi inoltre in una riduzione del 90% dei costi per l'amministrazione sia sanitaria sia giudiziaria, hanno permesso alla struttura di ottenere nuovi fondi statali per la costruzione e l'avviamento di altre due comunità, al fine di soddisfare l'elevata richiesta di un approccio terapeutico così impegnativo e specialistico.
Esiste quindi un'altra scena per il trattamento dei soggetti con disturbi di personalità autori di reato, sicuramente più efficace dell'isolamento e della segregazione all'interno delle carceri o negli OPG e che dovrebbe trovare applicazione anche nella nostra realtà. Un tale approccio terapeutico, dove l'individuo passa da "oggetto" a "soggetto", cioè, "attore", del processo curativo, permette, infatti, attraverso la progressiva consapevolezza del proprio disagio e degli effetti prodotti sugli altri dal proprio modo di essere, di sviluppare nuove e responsabili strategie di adattamento alla sofferenza interiore, non più dominate dall'azione o dal ritiro, ma dal pensiero e dalla verbalizzazione per raggiungere un grado di funzionamento migliore a livello sia personale sia interpersonale sia degli intersistemi.


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Note:

* Ricercatore confermato, Dipartimento di Medicina e Sanità Pubblica, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi dell'Insubria
1 Tra gli innumerevoli contributi apparsi sull'argomento: De Fazio F., Realtà e limiti dei compiti terapeutici dei manicomi giudiziari, Quad. di criminol. clinica, 1971, 3; - Fornari U., Sulla nozione di 'persistente' pericolosità sociale psichiatrica, Min. Leg., 1984, 104/3; - De Fazio F., Luzzago A., L'Hopital Psychiatrique Judiciare (H.P.J.) dans la législation italienne, Riv. Sper. Fren., 1985, 3; - Bandini T., Gatti U., Nuove tendenze in tema di valutazione clinica della imputabilità, in, (a cura di) Ferracuti F., Psichiatria forense generale e penale, Giuffrè, Milano, 1990; - Durante Mangoni E., Considerazioni normative e medico-legali circa il possibile ruolo dell'OPG nel circuito penitenziario per i tossicodipendenti, Quad. Psich. Forense, vol. II, n°1, 1993, 104; - De Fazio F., A proposito della "chiusura" dei manicomi giudiziari, Rass. di Criminol., IX, 1978, 177; - Luzzago A., Beduschi G., Dal manicomio giudiziario all'Ospedale psichiatrico giudiziario: un problema insoluto, Rass. di Criminol., XV, 1, 1984, 141.
2 Luberto S., Zavatti P., Ospedale psichiatrico giudiziario e spazi terapeutici, Rass. It. Criminol., Anno VII, n°1, 1996, 165; - Manacorda A., Manicomio giudiziario, De Donato, Bari, 1982
3 Bruno F., La pericolosità sociale psichiatrica, in, (a cura di) Ferracuti F., Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, vol. 13, Giuffrè, Milano, 1990, p.346
4 Bandini T., Gatti U., Nuove tendenze in tema della valutazione clinica dell'imputabilità, in (a cura di) Ferracuti F., Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, vol. 13, Giuffrè, Milano, 1990, p.164
5 Per un'articolata rassegna delle diverse proposte riguardanti il superamento degli OPG, si veda: Aguglia E., De Vanna M., Mencacci C., Schiavon M., Ospedale Psichiatrico Giudiziario: continuità o superamento? Riv. Sper. Freniatr., vol. CXXV, n°4, 2001, 230
6 Da una "Ricerca statistico descrittiva", svolta nel 1999 presso l'OPG "F. Saporito" di Aversa, risulta che oltre il 70% di soggetti internati presenta un disturbo schizofrenico, circa il 12% un disturbo di personalità (prevalentemente di tipo paranoide, antisociale e borderline), e circa il 7% dei pazienti è oligofrenico. - vedi anche: Galliani I., Editoriale: Verso l'abolizione delle misure di sicurezza, Rass. It. Criminol., anno VI, n°2, 1995, 189
7 Russo G., Salomone L., Il malato di mente nel sistema giudiziario, Rass. Penitenz. e criminologica, anno III, 2-3, 1999, 127, p.139
8 "Le personalità psicopatiche raggruppano tutti quegli individui il cui 'stile di vita' è caratterizzato in maniera abituale da modalità abnormi di risposta agli stimoli ambientali". Fornari U., Trattato di Psichiatria forense, UTET, Torino, 1997, p. 292
9 Zavatti P., Barbieri C., La c.d. "personalità antisociale" in psicopatologia forense: un discorso sul metodo? Rass. It. Criminol., n°2, 2000, 291, pp.291-292
10 Manna A., Editoriale: Diritto penale e psichiatria di fronte alla malattia mentale, Rass. It. Criminol., n°3-4, 2000, 327, p.352
11 Ferrannini L., Peloso P.F., Il comportamento violento in psichiatria e il disturbo antisociale di personalità: problemi e prospettive nell'intervento del dipartimento di salute mentale, Rass. It. Criminol., anno XI, n°3-4, 2000, 423
12 Beconi A., Boidi G., Calderaro N., Iozzia P., Monteverde L., Peloso P., Il malato di mente autore di reati: nuove prospettive. Un contributo interdisciplinare alla discussione sull'abolizione dell'ospedale psichiatrico giudiziario e sulle norme relative all'imputabilità dei malati di mente, Riv. Sper. Freniatr., vol. CXXIII, n°3, 1999, 190, p.191
13 Zavatti P., Barbieri C., La c.d. "personalità antisociale" in psicopatologia forense: un discorso sul metodo? Op.cit., p.292
14 A.P.A., DSM-IV, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano, 1996, p.687
15 I criteri diagnostici generali per i disturbi di personalità sono: "A. un modello abituale di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell'individuo. Questo modello si manifesta in due (o più) delle aree seguenti: 1) cognitività (cioè modi di percepire e interpretare se stessi, gli altri e gli avvenimenti); 2) affettività (cioè, la varietà, intensità, labilità e adeguatezza della risposta affettiva); 3) funzionamento interpersonale; 4) controllo degli impulsi. B. Il modello abituale risulta inflessibile e pervasivo in una varietà di situazioni personali e sociali. C. Il modello abituale determina un disagio clinicamente significativo e compromissione del funzionamento sociale, lavorativo e di altre aree importanti. D. Il modello è stabile e di lunga durata, e l'esordio può essere fatto risalire almeno all'adolescenza o alla prima età adulta. E. Il modello abituale non risulta meglio giustificato come manifestazione o conseguenza di un altro disturbo mentale. F. Il modello abituale non risulta collegato agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (es. droga di abuso, farmaco) o di una condizione medica generale (es. trauma cranico)", A.P.A., DSM-IV, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, op. cit., pp. 691-692
16 Bergeret J., La personalità normale e patologica, Cortina, Milano, 1984
17 Eisenstein V.W., Psychotherapie différentielle des états limites, in, Techniques spécialisées de la psychotherapie, P.U.F., Paris, 1956; - Kernberg O.F., Disturbi gravi della personalità, Bollati Boringhieri, Torino, 1987
18 Bergeret J., La personalità normale e patologica, cit. in, Zavatti P., Barbieri C., La c.d. 'personalità antisociale in psicopatologia forense, op. cit., p.301
19 Bruno F., Costanzo S., Calabrese B., Il quadro clinico del disturbo antisociale di personalità, Rass. It. Criminol., anno XII, n°1, 2001, 9
20 Herpertz S., Gretzer A., Steinmayer E.M., Muhlbauer V., Shuerkens A., Sass H., Affective instability and impulsivity in personality disorder: risults of an experimental study, J. of affect disease, 44, 1997, 31; - Barrat E.S., Standford M.S., Kent T.A., Felthous A., Neuropsychological and cognitive psychophysiological substrates of impulsive aggression, Biological Psychiatry, 41, 1997, 1045
21 Zuckerman M., P-impulsive sensation seeking and its behavioral psychophysiological and biochemical correlates, Neuropsychobiology, 28, 1993, 30
22 Cherel D.R., Moeller G., Dougherty D.M., Rhoades H., Studies of violent and nonviolent male porolees: laboratory and psychometric measurements of impulsivity, Biological Psychiatry, 41, 1997, 523
23 Rossi R., Uomo colpevole e uomo tragico (Lo psicoanalista di fronte alla perizia giudiziaria: nota sui rapporti tra psicoanalisi e criminologia), Riv. di Psicoanal., 1983, 4
24 Kohut H., Narcisismo e analisi del Sé, Boringhieri, Torino, 1976, p.146
25 Ballerini A., Pazzagli A., Il crimine e il sintomo. Considerazioni sulla articolazione fra ospedale psichiatrico giudiziario e servizi di psichiatria nel territorio, Riv. Sper. Freniatr., vol. CXII, 1988, 4
26 Muscatello C.F., Scudellari P., Il paziente borderline fra "rabbia" narcisistica e depressione anaclitica, Riv. Sper. Freniatr., vol.CXX, n°2, 1996, 278, p.283
27 Luberto S., Zavatti P., Ospedale psichiatrico giudiziario e spazi terapeutici, op. cit., p. 171
28 Beconi A., Boidi G., Calderaro N., Iozzia P., Monteverde L., Peloso P., Il malato di mente autore di reati: nuove prospettive. Un contributo interdisciplinare alla discussione sull'abolizione dell'ospedale psichiatrico giudiziario e sulle norme relative all'imputabilità dei malati di mente, op. cit., p.198
29 Russo G., Salomone L., Il malato di mente nel sistema giudiziario, op. cit.
30 Chiozza M.B., Psichiatria e controllo sociale: una ricerca sui trattamenti sanitari obbligatori effettuati presso il S.P.D.C. dell'Ospedale Galliera di Genova nel periodo 1978-1986, Rass. di Criminol., 1, 1989, 119
31 Monari M., Berti Cerone F., I pazienti con grave disturbo di personalità e i Servizi Psichiatrici: quale cura è possibile? Riv. Sper. Freniatr., vol.CXXV, n°4, 2001,187, p.188
32 Muscatello C.F., Scudellari P., Il paziente borderline fra "rabbia" narcisistica e depressione anaclitica, Riv. Sper. Freniatr., vol. CXX, n°2, 1996, 278
33 Symington N., The response aroused by psychopath, Int. Rev. of Psychoanal., 7, 1980, 291
34 Tramite l'incredulità, lo psichiatra tende a nascondere la propria lacerazione, il proprio scacco, negando che il paziente possa essere veramente così incorreggibilmente "cattivo" e perseguendo quindi, attraverso la sottovalutazione della gravità dei suoi comportamenti passati e del rischio di recidive, un'operazione mistificatoria tesa a riassumere artificialmente il paziente all'interno dell'area della comprensibilità e della curabilità. Di queste operazioni può far parte anche una certa resistenza a fare diagnosi, per proteggere il paziente dalle sue implicazioni morali e prognostiche stigmatizzanti e negative. La collusione rappresenta sostanzialmente un'esasperazione dell'incredulità, nel senso che consiste nell'insistere nel non voler prendere atto del comportamento del paziente e dell'impotenza dei propri sforzi a migliorarlo, fino a colludere con i suoi atti o nasconderli (ai colleghi, alle agenzie di controllo sociale, ma anche a se stessi), nel desiderio di non rinunciare alla propria relazione di cura e nella convinzione di essere in questo modo di aiuto. La condanna, invece, rappresenta il rifugio a corto circuito in un assoluto convincimento di incurabilità e di estraneità alla "pertinenza" psichiatrica. Il paziente rischia quindi di rimanere inchiodato al proprio stereotipo, oggetto di proiezioni soltanto negative che possono farlo percepire peggio di quanto non sia. "L'alternativa dicotomica che sembra quindi aprirsi agli operatori psichiatrici e ai servizi è quella tra un giustificazionismo totale nei primi due casi e un colpevolismo assoluto ed altrettanto rigido nel terzo." Cfr., Ferrannini L., Peloso P.F., Il comportamento violento in psichiatria e il disturbo antisociale di personalità: problemi e prospettive nell'intervento del dipartimento di salute mentale, op. cit., pp.441-442
35 Ferrannini L., Peloso P.F., Il comportamento violento in psichiatria e il disturbo antisociale di personalità, op. cit., pp.439 e 441
36 Beconi A., Boidi G., Calderaro N., Iozzia P., Monteverde L., Peloso P., Il malato di mente autore di reati: nuove prospettive. Un contributo interdisciplinare alla discussione sull'abolizione dell'ospedale psichiatrico giudiziario e sulle norme relative all'imputabilità dei malati di mente, op. cit.
37 Questo tipo di percorso, è stato recentemente descritto da uno studio condotto su soggetti detenuto nella casa circondariale di Messina e internati nell'OPG di Barcellona P.G., Cfr., Russo G., Salomone L., Il malato di mente nel sistema giudiziario, op. cit.
38 Luberto S., Zavatti P., Ospedale psichiatrico giudiziario e spazi terapeutici, op. cit., p.176
39 Manna A., Editoriale: Diritto penale e psichiatria di fronte alla malattia mentale, op. cit., p.343
40 Gabbard G.O., Psichiatria psicodinamica. Nuova edizione basata sul DSM-IV, Cortina, Milano, 1995, pp.421-466 - Cleckley H.M., Gli stati psicopatici, in, (a cura di) Arieti S., Manuale di psichiatria, Boringhieri, Torino, 1969, pp.558-580
41 Tantalo M., Colafigli A., Controllo o trattamento del reo malato di mente. Riflessioni critiche sul sistema giudiziario italiano, Rass. It. Criminol., anno V, n°4, 1994, 565, p.566
42 Holmes J., Approcci psicoterapeutici alla gestione dei gravi disturbi di personalità nei setting della psichiatria generale, Riv. Sper. Freniatr., vol.CXXIV, n°3, 2000, 157, p.158
43 La descrizione dell'attività e dell'organizzazione dell'Henderson Hospital di Londra, struttura terapeutica autonoma dal 1959, è tratta da: Norton K., A culture of enquiry - its preservation or loss, Therapeutic Communities, vol. 13, n°1, 1992, 3; - L'autore dell'articolo, Prof. Kinsley Norton, psichiatria e psicoanalista, già Presidente della Association of Therapeutic Communities (ATC) britannica, fondata nel 1972, ne è l'attuale direttore, succedendo ai Proff. Maxwell Jones e J. Stuart Whiteley.
44 Whiteley J.S., The response of psychopaths to a therapeutic community, British Journal of Psychiatry, 116, 1970, 534
45 Main T., The hospital as a therapeutic istitution, Bull. Menninger Clinic, 10, 1946, 66-68
46 Jones M., The Therapeutic Community: a New Treatment Method in Psychiatry, Basic Books, New York, 1953
47 Robert Rapoport, negli anni '60, identificò quattro presupposti per il trattamento in comunità: 1) la "democratizzazione": coinvolgimento paritario di tutti i membri della struttura nell'esercizio del potere e nella presa delle decisioni riguardanti sia la terapia, sia l'amministrazione. Per raggiungere questa forma egualitaria di partecipazione, è necessario un "appiattimento" dell'usuale gerarchia ospedaliera. 2) La "permissività", valevole per tutti i componenti comunitari, con una tolleranza reciproca di un ampio spettro di comportamenti percepiti come penosi o devianti in riferimento alle norme "ordinarie". Ciò permetterebbe, da un lato, agli uni di esprimere liberamente le difficoltà comportamentali e, dall'altro, agli altri di potervi liberamente reagire a, con la possibilità di poter esaminare i pattern di relazione sociale da entrambi i punti di vista. 3) La "messa in comune": il funzionamento della comunità è caratterizzato da gruppi di relazioni intercomunicanti e intimi, uno stile confidenziale nelle relazioni, una condivisione di tempo e spazio e una comunicazione aperta. 4) Il "confronto con la realtà": i pazienti sono continuamente messi a confronto con le interpretazioni del loro comportamento, da parte della maggioranza degli altri, allo scopo di contro-agire le loro tendenze ad usare negazione, distorsione, ritiro o altri meccanismi, che interferiscono con la capacità di relazionare con gli altri nel mondo. Rapoport R., The community as doctor, Tavistock, London, 1960
48 Main T., The concept of the therapeutic community: variations and vicissitudes, in, Pines M., (ed.), The evolution of group analysis, Routlegde and Kegan Paul Ltd, London, 1983


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