Evoluzione del concetto di Comunità TerapeuticaGustavo Pietropolli CharmetQuesto articolo è ricavato dalla Lettura Magistrale tenuta dal prof. Gustavo Pietropolli Charmet al Meeting annuale organizzato, presso l'Università Statale di Milano, dal Gruppo di Ricerca Clinica Istituzionale, promotore, tra l'altro, nel 1996 del Convegno Internazionale: "La Comunità Terapeutica tra Mito e Realtà" e curatore del volume omonimo, pubblicato nel 1998 dall'Editore Cortina, che in breve tempo è diventato una sorta di voluminoso Vademecum per tutti coloro che lavorano o si interessano di Comunità Terapeutiche in Italia. L'autore, che è stato fra i protagonisti del Movimento di Comunità negli anni '60 -'70, attualmente è docente di Psicologia Dinamica all'Università Statale di Milano e dirige l'Istituto "Il Minotauro".
Non so se le mie credenziali siano del tutto in regola per potermi esprimere in tema di trasformazioni del concetto di Comunità Terapeutica. Da tempo non sono più impegnato "in prima linea" nel lavoro di Comunità e me ne occupo, per così dire, dalla periferia, per motivi di ricerca o in veste di supervisore. Avendo lavorato abbastanza a lungo in Comunità, all'epoca delle prime, storiche esperienze italiane, so che per poterne parlare, per poter metacomunicare su di essa, occorre lavorarci all'interno, di giorno e di notte, compresi il Sabato e la Domenica.
Dal di fuori, al limite della percepibilità, è difficile pensare i pensieri della Comunità. Ad uno sguardo esterno esse finiscono per somigliarsi tutte l'una all'altra, appaiono fuori dal tempo, dalle mode e dalle idolatrie; suscitano spesso l'impressione di un magma confuso di persone che si agitano in attività di cui non si capiscono bene la trama, i contenuti, le prospettive e le strategie. E' soltanto dall'interno, partecipando alla vita di un organismo vivente così delicato e complesso, che se ne può cogliere il senso: solo così si possono avere i sensori collegati con il Sé mentale di un apparato che distilla pensieri e avvia nuove procedure, per potersi esprimere sulle possibili trasformazioni del concetto di Comunità. Riferendomi alla letteratura più attuale e, in particolare a un'indagine di grande utilità riportata in un volume di recente pubblicazione ("La comunità Terapeutica. Mito e Realtà" - Raffaello Cortina Editore, Milano, 1998), credo si possa affermare che sulla validità e attualità del termine "Comunità" tutti concordino. Coloro che lavorano all'interno della Comunità o che con essa interagiscono dai suoi dintorni, condividono il fatto che quel luogo, quello spazio, quel tempo, quelle procedure con le loro regole si possano definire comunitari, perché sono essenzialmente orientati a creare percorsi di accomunamento affettivo e simbolico fra tutte le persone che partecipano alla danza interattiva messa in scena all'interno della Comunità. A differenza quindi di altri modelli terapeutici o assistenziali in Psichiatria, quello comunitario gioca le sue carte nel facilitare opportunità di compartecipazione, di condivisione, pur con tutti i rischi che ciò comporta in termini di confusività e di differenziazione dei ruoli.
Mi sembra quindi che il termine "Comunità" sintetizzi ancor oggi validamente le caratteristiche di questo modello. Oltre tutto esso è sostanziato dalla forte tensione, condivisa dalla maggior parte delle esperienze in corso, verso la gruppalità come espressione di una scelta che si manifesta in maniera emblematica nelle assemblee, nelle riunioni di gruppo e di équipe. Questi si possono definire gli aspetti "monumentali" che sono entrati a far parte stabilmente della vita di ogni Comunità, finalizzati ad una cogestione della quotidianità.
Dalla ricostruzione storica dell'esperienza comunitaria in Italia, risulta evidente che le prime Comunità nacquero in contrapposizione allo straordinario potenziale jatrogeno del Manicomio e al potenziale patogeno della famiglia dello psicotico, proponendo un modello di istituzione alternativa e di famiglia sana. Per venire ai giorni nostri, dalla mia attuale posizione di osservatore del "fenomeno" Comunità, ho l'impressione che anche le odierne strutture a carattere comunitario continuino ad ottenere risultati importanti e significativi. Il semplice inserimento di un nuovo ospite, attraverso le procedure caute e progressive adottate più o meno da tutte le Comunità, produce dei risultati straordinari in un buon numero di casi, modifica la quantità di manifestazioni sintomatiche, riduce il livello di angoscia e così via, in misura incomparabile rispetto a qualsiasi altro modello d'intervento, a qualsiasi altra proposta di relazione. Tuttavia non mi sembra che, oggi come oggi, il soggetto Comunità coltivi soverchie illusioni a questo riguardo.
Le Comunità oggi guardano a questi fenomeni con attenzione, con interesse, con legittima soddisfazione, ma non mi pare che essi costituiscano l'ingrediente base su cui fondano il culto della propria grandezza terapeutica. Credo che ciò dipenda da tanti fattori, primo fra tutti da quell' "apprendere dall'esperienza" che ha portato ad un ridimensionamento dell'enfasi terapeutica, ma anche dal fatto che la Comunità sembra non avere più avversari. La caduta dei "muri" e delle ideologie ha fatto sì che sia rimasta la sola proposta vincente. Oggi, se si vuole realizzare qualche struttura, una "casetta per i matti", è difficile che vengano in mente dei modelli diversi e si finisce col proporre una Comunità: è molto improbabile che a qualcuno venga voglia di riproporre il modello del Manicomio o di qualche suo significante, almeno nominalmente.
In origine la Comunità si caratterizzava, tout court, per la sua vocazione e intenzione terapeutica: la tattica era comunitaria, ma l'obiettivo strategico era la Guarigione, attraverso la "somministrazione" di esperienze correttive dei danni originari. L'illusione della Comunità era sicuramente questa. Attraverso la tattica comunitaria, seguendo le strade più disparate e diverse procedure, mediante riflessione, determinazione, sviluppo di capacità, si perseguiva un obiettivo terapeutico che portasse alla guarigione.
Dalle impressioni che posso ricavare dalla mia attività di supervisore di gruppi comunitari, di ricerca sui modelli culturali e funzionali delle attuali Comunità Terapeutiche e, in un certo senso, di "utente" delle Comunità come inviante di pazienti psicotici per programmi di recupero di medio-lungo periodo, penso valga la pena di avviare una riflessione su questo interrogativo.
I risultati dell'indagine riportati nel libro che ho prima citato, consentirebbero di classificare le nostre Comunità in diverse tipologie, in base alla composizione dello staff. Verificando il tipo di professionalità prevalente, i ricercatori ipotizzano che ad una forte presenza di operatori di cultura e provenienza sanitaria (psichiatri, infermieri) faccia seguito verosimilmente una conduzione di tipo "sanitario", mentre invece ad un'elevata presenza di operatori che provengono per formazione e attitudine dall'area delle scienze umane (psicologi, sociologi, psicoeducatori), corrisponda una conduzione di tipo "psico-socio-educativa".Ê
Oggi come in origine la prospettiva della Comunità rimane quella di aiutare i propri ospiti a riprendere una crescita interrotta; se però mi chiedo quale tipo di interruzione si tenda a prendere in considerazione, quale momento della crescita dell'individuo, la domanda porta inevitabilmente a considerare quale sia il modello di sviluppo su cui la Comunità opera, fondando la sua prassi.
Ho l'impressione che l'obiettivo oggi sia quello di aiutare degli "adolescenti falliti" a riprendere la loro crescita e che tutto il dispositivo comunitario non abbia la finalità di rimettere in sesto dei "bambini impazziti" dal terrore delle relazioni primarie, ma quella di mettere nelle mani di un "paziente-adolescente" riabilitato, il destino del bambino che è stato. E questo mi sembra che sia coerente col dispositivo e le procedure attualmente adottate dalle Comunità.
Da questo riferirsi a momenti diversi del processo di crescita si origina, a mio avviso, l'evoluzione del concetto di Comunità Terapeutica che, in origine, fondava la sua prassi sul trauma della rottura della simbiosi originaria, in fasi più precoci dello sviluppo dell'individuo, con tutte le differenze d'impostazione che ne derivavano. La Comunità può riuscire in questo intento perché, pur rendendosi conto che la partita definitiva si gioca attorno alla ripresa di un processo che consenta di simbolizzare l'oggetto assente, tuttavia propone e favorisce l'implementazione e lo sviluppo di maggiori capacità di rappresentazione. Tutta la pratica comunitaria, col suo gioco di rispecchiamenti, a mio avviso, va oggi in questa direzione. Essa cerca di favorire l'acquisizione di rappresentazioni di Sé più nitide, che abbassano molto il livello di confusività e di angoscia di frammentazione, consentendo non tanto l'integrazione fra i vari Sé rappresentati, ma una specie di convivenza pacifica che evita la gravità dei processi scissionali. A me pare che l'odierna cultura comunitaria si renda conto che il lutto è irrimediabile, che non vi è possibilità di elaborarlo in maniera esaustiva, perché questo comporterebbe un incremento dei processi di simbolizzazione e allora propone una singolare ed efficace procedura consolatoria. Dichiarando solennemente irreparabile il lutto, offre una relazione d'appoggio, una relazione sostitutiva che consente in qualche modo l'illusione di aver in parte ritrovato l'oggetto. Il paziente non è ancora in grado di simbolizzarlo, però lo può usare da una distanza di sicurezza che gli consente una movimentazione sicuramente molto maggiore rispetto a prima, quando mancavano delle rappresentazioni più nitide del Sé.
Credo che oggi la Comunità lavori prevalentemente in questa prospettiva di ripristino di alcune funzioni di tipo adolescenziale, nel tentativo di portare avanti la definizione dei valori d'identità di genere maschile e femminile che era stata interrotta dalla tempesta psicotica, utilizzando e sfruttando l'ambiente promiscuo della Comunità e tutta quella serie di giochi, di procedure, di animazioni, di spinte alla crescita e alla definizione dei valori di identità di genere di cui è spesso ricchissima. E ovviamente propone la ripresa della socializzazione tra pari come antidoto al ritiro narcisistico che ha fatto seguito al breack-down psicotico tardo-adolescenziale o della prima fase della età adultà.
Se le cose stanno così e questo è quel che effettivamente la Comunità si dispone a realizzare, non so se si possa usare ancora l'aggettivo "Terapeutica". Io penso di sì. Non mi sembra che dietro questo mandato vi sia un'aspettativa di guarigione quanto piuttosto l'aspettativa che la Comunità favorisca un processo molto soft di pseudo-separazione, senza mettersi in antagonismo con la Società, la Famiglia, il Sistema Sanitario come invece era all'origine del Movimento Comunitario. Senza mettersi quindi in alternativa e in competizione e senza irruzioni distruttive nelle trame della vita di relazione familiare, oggi le Comunità effettuano, con un atteggiamento più cooperativo, una specie di "parto" sociale, di distacco dalla famiglia, divenuta un ambiente invivibile, se non per motivi originari, a seguito dell'insorgenza della sofferenza mentale. Quando si vengono a stabilire queste condizioni che impediscono una convivenza, diventa indispensabile una separazione, possibilmente non traumatica, che richiede la disponibilità di strutture adeguate a questo scopo.
Ecco allora che la Comunità può svolgere la propria funzione "ostetrica" facilitando un parto molto dolce e poi un reinserimento a distanza di sicurezza. Il mito dell' "appartamentino" che un giorno il paziente possa andare ad abitare dopo il lavoro protesico svolto dalla Comunità, è l'emblema di questa prospettiva. Diciamo allora che essa fa da transizione fra un'appartenenza tossica e una pseudo-autonomia, una pseudo-socialità.
A.Ferruta, G.Foresti, E.Pedriali, M.Vigorelli (a cura di): "La Comunità Terapeutica. Mito e Realtà", Raffaello Cortina Editore - Milano, 1998.
L'articolo coglie alcuni aspetti di cambiamento del concetto di Comunità per quanto attiene la realtà italiana. L'autore si interroga innanzi tutto sulla reale corrispondenza esistente fra l'espressione stessa "Comunità Terapeutica" e i presupposti teorici e le metodologie realmente praticate dalle attuali Comunità. Esse conservano infatti l'orientamento gruppale, la condivisione della vita quotidiana, la compartecipazione, la corresponsabilizzazione nella vita comunitaria e in generale tutte quelle procedure di accomunamento che promuovono esperienze correttive dei danni originari dei residenti, per cui la dizione "Comunità" conserva ancor oggi il suo significato. E' sulla connotazione "Terapeutica" che vengono proposti alcuni interessanti spunti di riflessione. Da questo punto di vista infatti qualcosa sembra essere cambiato. Se in Italia, quella della Comunità Terapeutica è rimasta fino a pochi anni fa una Cultura debole, che faticava ad affermarsi ed incontrava forti resistenze da più parti, oggi si assiste ad un sorprendente proliferare di esperienze che si propongono con questa denominazione. L'autore attribuisce tale fenomeno al crollo delle ideologie in Psichiatria ed alla evidente carenza di altri modelli istituzionali validi, ma anche ad un diverso atteggiamento delle Comunità riguardo la natura dei bisogni che le vengono presentati, gli obiettivi che si propone di raggiungere e nei confronti del mandato che le viene affidato dalle famiglie, dal sistema sanitario e dalle istituzioni sociali in genere. A differenza delle prime storiche esperienze degli anni '60-'70, che si contrapponevano al potenziale jatrogeno del manicomio e a quello patogeno della famiglia, proponendo un modello di istituzione alternativa e di famiglia sana, oggi le Comunità sembrano porsi in posizione decisamente meno antagonistica, proponendo obiettivi meno radicali, ridimensionando l'enfasi terapeutica e garantendo una transizione meno traumatica per il paziente e per il contesto sociale e familiare. Dietro questa strategia si delinea un diverso riferimento al modello di sviluppo dell'individuo e soprattutto una diversa considerazione del momento di breack-down psicotico. Se in origine l'intenzione e l'ambizione della Comunità era quella di intervenire sul "paziente-bambino" che aveva vissuto l'impossibilità della separazione o l'effetto di relazioni traumatiche originarie, oggi invece essa tende ad operare sul secondo processo di separazione, sullo scacco del processo di simbolizzazione e di elaborazione del lutto a livello di sviluppo adolescenziale e l'autore ritiene che a poco a poco la Comunità stia elaborando una nuova teoria etiopatogenetica della psicosi, come espressione del fallimento del processo di separazione-individuazione adolescenziale. E' a questo punto che la Comunità interviene per riprendere un processo di crescita interrotto. Ciò le permette delle strategie che consentono al "paziente-adolescente" di elaborare la separazione in maniera più soft, con una procedura che, per certi versi, riproduce e ricapitola il processo fisiologico di separazione dalla madre e che rassicura entrambe le parti in causa. Tutto ciò oltretutto è maggiormente in sintonia col mandato che le viene dato da chi ad essa si affida. Il parere dell'autore è che sia legittimo sostenere che una strategia di riattivazione di funzioni che si erano in parte sviluppate, ma che poi sono state spazzate via dal breack-down, meriti ancor oggi la dizione "Terapeutica".
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