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L'operatore di comunità, una professione impossibile?

di Marino de Crescente



Rilevamenti statistici recenti indicano che i valori motivanti la scelta di un lavoro sono:

1)Il prestigio sociale legato all' immagine della professione, e quindi l'appartenenza ad una categoria,
2) L'alta retribuzione , fungente anch'essa come immagine.

Presupposti questi valori sarebbe non solo inopportuno consigliare qualcuno ad intraprendere il lavoro in una comunità terapeutica, non potendo questa occupazione soddisfare quei principi, ma si correrebbe il rischio di introdurre il malcapitato in una di quelle attività che Freud ha annoverato tra le " professioni impossibili", ritenute tali per il fatto che nell'iniziarle si può già essere sicuri in partenza che i risultati saranno insoddisfacenti, e che per livello di difficoltà possono essere paragonate all'educazione dei figli e al governo dei popoli.
Se gli argomenti suggeriti non bastassero a scoraggiare il postulante , sarebbe forse di maggior efficacia ricordargli che la maggior parte delle comunità terapeutiche opera nell'area del privato sociale, corrispondente, dal punto di vista delle garanzie di lavoro, alla precarietà assoluta.
Dopo aver tentato un profilo motivazionale dell'operatore , per così dire al negativo, tramite una sintesi delle aspettative che non verrebbero soddisfatte, è d'obbligo enumerare invece ora le motivazioni consce e non, per le quali una persona sceglie o dovrebbe scegliere questa attività.

Il lavoro in comunità, per l'impegno di tempo e per il tipo di investimento affettivo che sono necessari a stabilire rapporti significativi con persone che vivono disagi psichici , si configura come una precisa scelta esistenziale che ha come contropartita la gratificazione derivante dall'aiuto prestato ad un altro essere umano, dall'essere partecipe del suo processo di trasformazione, con tutte le responsabilità etico -pedagogiche che un rapporto di questo tipo comporta.

Le stategie del trattamento comunitario, è forse utile ricordarlo, si basano sui processi di apprendimento sociale necessari a contrastare i nefasti processi di deculturazione intimamente legati al decorso del disagio psichico, al fine di un riapprendimento e di una riacculturazione diretti alla riabilitazione e al reinserimento del cliente nella realtà esterna.
Opportunità quindi per l'operatore di soddisfazione di bisogni profondi reali nel vedere effettive modifiche dovute al proprio operato in una situazione sociale che non offre certo molte chances occupazionali con tali caratteristiche.

Per chi guardasse con occhio più professionale al lavoro in comunità terapeutica, essa offrirebbe oltre ad un aspetto di tutto merito nella storiografia psichiatrica per essere stata definita " la terza rivoluzione" , l'essere un effettivo campo di ricerca multidisciplinare , luogo dinamico di necessarie e costanti revisioni rispetto alla staticità e alle cristallizzazioni di molte istituzioni.
Ma al di là di queste motivazioni più estrinseche senz'altro fattori più profondi possono giustificare tale scelta ed è bene viste le implicazioni già citate che essa comporta fare una breve disamina dei motivi, non necessariamente negativi, che possono determinarla.

E' spesso un indefinibile desiderio di cura che, tramite l'acquisizione dei saperi necessari a comprendere il disagio, permette a chi opera in comunità terapeutica una vicinanza priva di conoscenza di propri problematici contenuti inconsci.
Puo essere altresì un'inquietudine interiore espressa spesso da domande ontologiche a motivare la scelta di occuparsi delle sofferenze altrui.
Va da se' che in entrambe i casi la comunità non può rappresentare il luogo di elaborazione di tali problematiche che vanno invece risolte esclusivamente con una maggiore conoscenza del "proprio" disagio ,preferibilmente in ambito psicoterapico.
A questo proposito risulta non casuale che in molte comunità venga richiesto ai collaboratori di intraprendere un' esperienza di tipo analitico.
Bisogna inoltre tener presente che la conoscenza interiore dell' "altro ", presupposto di ogni relazione ospite operatore, può essere un derivato del desiderio di onnipotenza , ed anche un utile mezzo per superare l'angoscia dell'ignoto.

Il desiderio di trasmettere la conoscenza necessaria all'evoluzione dell'ospite, unito alla comprensione dei vissuti di quest'ultimo, può essere connessa a impulsi libidici o aggressivi ed essere inconsciamente percepita come aiuto o come attacco. Può inoltre divenire fonte di piacere o di ulteriore sofferenza.
La comprensione può inoltre rappresentare un atto di maternage o una forma di nutrimento, di protezione o di insegnamento.
La trasmissione all'ospite di questa comprensione può a volte divenire uno strumento utile a superare un proprio stato depressivo, ma può inoltre rappresentare un atto generativo.
Curare la sofferenza può anche rappresentare un'attività controfobica: occuparsi del disagio altrui per tenere sotto stretto controllo la propria paura di esso, ovvero cercare in modo attivo ciò che si teme di poter subire passivamente.

Bisogna inoltre aggiungere che forti presupposti motivazionali costituiscono la condizione necessaria ma non sufficiente per operare in una comunità terapeutica.
Solo se ad essi saranno uniti specifici requisiti personali ( propri della persona, del suo carattere) e professionali si creerà quello che Paul Bernard ha definito " atteggiamento terapeutico " consistente nell'educazione dei propri atteggiamenti verso la comprensione delle manifestazioni dell'ospite, e l'adozione di un comportamento che nell'insieme abbia un valore terapeutico: " che è la forma più breve di psicoterapia " (P.Bernard 1980).
Per quanto riguarda la formazione teorica l'operatore di comunità terapeutica dovrà avere piena consapevolezza che avendo il privilegio di lavorare in un ambito di ricerca la sua formazione professionale non potrà che essere permanente .
Le correnti nozioni di anatomia e fisiologia, unite alla conoscenza dell'organizzazione dinamica della personalità, dei suoi processi inconsci di regolazione e di difesa , costituiscono gli elementi minimi di approccio alla sofferenza psichica.
Operando inoltre in un contesto di gruppo allargato costituito da operatori e da ospiti, ed essendo la comunità immersa nel tessuto sociale del territorio, è quasi sempre necessario fare riferimento alle teorie psico-sociologiche dei gruppi, facendo utilizzo, lì dove le ipotesi non facessero giustizia delle variabili in gioco , delle teorie della complessità e del caos.

Per quanto riguarda invece le caratteristiche individuali che costituiscono un requisito imprescindibile per intraprendere questa attività quella senza dubbio più importante è la capacità di entrare in empatia. A questo proposito va ricordato che l'empatia , fenomeno appartenente alla sfera del pre-conscio,è un modo di conoscere "l'altro" attraverso una temporanea e parziale identificazione.
Per poterne fare uso l'operatore deve rinunciare per breve tempo alla propia identità, ed avere quindi un'immagine di sè mobile e flessibile.
L'empatia per di più non è una facoltà a priori, una nuda capacità, ma per far sì che sia fruttosa l'operatore deve dar fondo al suo bagaglio di esperienze.
La comprensione dell'ospite richiede infatti una viva immaginazione e una ricca vita fantasmatica che va alimentata continuamente con la dedizione alla letteratura al cinema , al teatro, alla poesia.

Altro requisito indispensabile è la capacità di interessarsi ai problemi dell'ospite , ai suoi bisogni essenziali, in un clima di interesse compartecipazione e calore umano.
Ogni startegia di intervento in c.t. se iniziata in un clima di non coinvolgimento emotivo
è votata al fallimento. A chi fosse impedito in tali capacità va sconsigliato di intraprendere il lavoro in comunità.
Chi è incapace di investimenti emotivi quasi sempre lotta contro sentimenti di rabbia e ostilità molto intesi, ed ha quindi necessità di mantenersi distante per evitare l'emersione di furore e panico.

Un'ultima dote caratteriale necessaria è la capacità di tollerare le frustrazioni.
Sé infatti la comunità è adatta principalmente per il trattamento di pazienti che attraversano una fase sintomatica remissiva, e che posseggono potenzialità esplorabili dal trattamento comunitario, esse spesso propongono progetti riabilitativi a pazienti il cui disagio si è consolidato in coronicità , e per i quali la speranza di una guarigione "sociale" è un risultato
sperabile, ma non facilmente ottenibile.
Solo adottando una diversa prospettiva filosofica e una maggiore sensibilità etica , non anteponedo le proprie aspettative terapeutiche alle reali possibilità evolutive dell'ospite,si eviterà di andare incontro a un senso di frustrazione e inutilità.
Bisognerà quindi rinunciare ai valori produttivistico efficientisti insiti nella cultura diffusa e guardare al disturbo come mero problema esistenziale.
Detto altrimenti: bisognerà curare senza guarire, guardare alla cronicità come un nuovo modo di vita caratterizzato sì dalla riduzione ad un codice comportamentale e a performance sociali più rigide e ridotte ,ma dotate di una loro fisionomia esistenziale.
Da quanto affermato è utile domandarsi : l'operatore di comunità è una professione impossibile?
Potremo rispondere affermativamente ma senza alcun sentimento di rinuncia se ci faremo pienamente e consapevolmente carico di questa impossibilità ,provvisti quindi di un sentimento di razionale utopia.
In fondo l'ospite con il suo sentimento di impossibilità non è questo che continuamente ci chiede?


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