PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> COMUNITÀ TERAPEUTICHE

PSYCHOMEDIA
COMUNITÀ TERAPEUTICHE
CT Salute Mentale



The 1999 Windsor conference of the A.T.C.
Association of Therapeutic Communities
Cumberland Lodge, 13-16 settembre 1999

"Intervento parziale" e "buone pratiche".
Descrizione di un progetto pilota in una circoscrizione romana.

Giuseppe Mannu, psichiatra, ASL RM/B
Nuala Ballinger, assistente sociale



Questo lavoro nasce come risultato di un percorso di riflessione e di ricerca che ci ha portato a definire o tentare di definire il ruolo di una Comunità Terapeutica all'interno della rete dei servizi di un Dipartimento di Salute Mentale ed il ruolo di quest'ultimo all'interno di una rete sociale che coinvolge i quartieri di una città.
Il nostro punto di vista si colloca in maniera diametralmente opposta rispetto al punto di vista che portò Pinel ed Esquirol alla definizione dei primi manicomi in Francia.
Pinel sosteneva che la persona alienata poteva essere curata solo se veniva allontanata per un certo periodo dal proprio ambiente di vita ed inserita in un ambiente sicuramente migliore che avrebbe prodotto la sua guarigione.
Secondo il nostro punto di vista questi due termini: separazione e guarigione hanno contribuito in maniera decisiva alla costituzione dei manicomi così come li abbiamo trovati prima della riforma degli anni 60/70 in Italia e nel mondo.

La drasticità della separazione e l'ambiguità della guarigione hanno prodotto l'interminabilità della cura.
Per noi la Comunità Terapeutica è un luogo che non produce guarigioni ma dove è possibile costruire un nuovo processo di cura che continuerà altrove e non produce separazioni ma imposta e favorisce la costruzione di nuovi legami con il proprio ambiente di vita.
Di qui l'ipotesi che se la Comunità Terapeutica si caratterizza per la parzialità del suo intervento, allora occorre lavorare per la costruzione di una complementarietà con altri servizi e con il territorio nell'idea che nel processo terapeutico ogni strumento utilizzato (e la Comunità è uno strumento) è parziale rispetto al percorso di cura della persona affetta da disturbo psichico.
In questa prospettiva va visto il lavoro che stiamo portando avanti a Roma e che presentiamo qui.


La Comunità Terapeutica

La Comunità Terapeutica si caratterizza per la presenza di un'utenza il cui disturbo psichico non trova più nel proprio ambiente le risorse necessarie per mantenere attivo il percorso di cura.
La Comunità può essere quindi definita come luogo di mediazione per riattivare il processo terapeutico.
Mediazione possibile all'interno di un clima che sia in grado di contenere le angosce senza esserne distrutto, di accogliere e tollerare i sintomi, di consentire l'espressione dei propri bisogni, di facilitare la comunicazione utilizzando i canali accessibili alla persona, di facilitare un confronto con la realtà realistico, di stimolare progetti concreti.
Il percorso di cura comunitario è volto prioritariamente, secondo noi, al recupero delle capacità relazionali attraverso il gruppo, alla ridefinizione dei problemi psichici individuali all'interno della "matrice" gruppale, all'individuazione di canali alternativi di espressione delle proprie emozioni e dei propri comportamenti, nonché al recupero del rapporto con il proprio corpo attraverso un percorso riabilitativo individualizzato che porta ad una maggiore cura di sé ed al miglioramento della cura dei propri spazi nella comunità.
La Comunità Terapeutica (CT) quindi, non produce guarigioni, riapre possibilità, non traccia percorsi, li rende possibili.
In questo senso la CT si colloca come "intervento parziale" all'interno di un percorso terapeutico che inizia prima dell'inserimento in CT e terminerà dopo la dimissione da essa.

Un autore francese come Sassolas avverte la necessità di prevenire la seduzione narcisistica cui possono andare pericolosamente incontro strutture così forti come le Comunità Terapeutiche. Rinunciare al rapporto terapeutico esclusivo ed inserire l'intervento comunitario all'interno di un progetto terapeutico che comprenda, dice Sassolas, "i suoi medici personali, la sua famiglia, gli attori sociali del suo reinserimento". "La codificazione dei rapporti tra le varie istanze che entrano nella terapia è allora il fine che si dovrebbe porre un Dipartimento di Salute Mentale che lavora con queste persone così problematiche", propone ancora Sassolas.
Se la CT è da intendersi come un momento di un processo, con precisi obiettivi da raggiungere per le persone che diventano ospiti, quindi con anche una necessaria utilizzazione di strumenti valutativi, con una necessaria consapevolezza dei limiti dell'intervento, è tuttavia altrettanto importante tener presente che l'intervento comunitario è un nodo centrale nel processo terapeutico di una persona, rappresenta cioè il luogo dove si riattivano percorsi, dove si recuperano risorse, dove si "previene" la cronicizzazione attraverso la rottura della spirale relazionale cronicizzante in cui è coinvolta la persona con il suo disturbo, la famiglia, la rete sociale, l'operatore, la rete dei servizi.
Per questo è necessario che, dal punto di vista dell'intervento, la persona sia intesa come un insieme complesso di elementi tra cui la famiglia, la rete dei servizi, la rete sociale, l'operatore o l'équipe di riferimento territoriale; noi consideriamo il lavoro con la rete sociale un lavoro che fa parte dell'intervento comunitario così come il lavoro con le famiglie ed il lavoro con gli altri servizi del dipartimento.
Di qui un progetto che sta coinvolgendo una circoscrizione romana e che può considerarsi nella realtà metropolitana dei Dipartimenti di Salute Mentale, un progetto pilota.


Progetto pilota

Il progetto nasce dal lavoro di alcuni operatori della ASL RM/B, del servizio sociale della V° Circoscrizione, di volontari, operatori del privato sociale insieme ad un coinvolgimento dell'Amministrazione della V° Circoscrizione oltre che dell'Assessorato alle Politiche Sociali e dei Servizi alla Persona del Comune di Roma.
L'area presa in considerazione ha una popolazione di 181.000 abitanti circa, il reddito
pro-capite è medio basso, nel territorio è presente la seconda stazione ferroviaria romana in ordine di importanza e l'importante Istituto penitenziario di Rebibbia.
Il Servizio Dipartimentale di Salute Mentale presente nel territorio è abbastanza articolato essendo composto da due presidi ambulatoriali (aperti 12 ore al giorno per cinque giorni e la mattina del sabato) cui afferiscono circa 350 nuove utenze l'anno (dati 1997), un servizio ospedaliero di pronto soccorso aperto sulle 24 ore per le situazioni di emergenza con un reparto di 15 posti letto; un Centro Diurno riabilitativo con 5 laboratori in grado di assorbire circa 40 utenti cui è associata una cooperativa sociale, un Centro Diurno terapeutico in grado di ospitare 10 pazienti al giorno, una Comunità Terapeutico-Riabilitativa con 15 posti letto, un Gruppo Appartamento con 10 posti letto, una rete di appartamenti con livelli diversi di supporto per un totale di circa 20 posti.
Sebbene il servizio di salute mentale sia molto articolato e con un numero di operatori elevato, il problema del disagio diffuso e della qualità della vita non è risolvibile dal solo servizio specialistico perché se tutti i problemi possono essere letti in chiave psicologica non tutti i problemi sono psicologici o legati alla malattia.
Di qui l'attivazione di tutta una serie di risorse presenti nel territorio che ha coinvolto oltre ai servizi sanitari, sociali, anche le risorse del terzo settore (volontariato e privato sociale).
Lo scopo è stato quello di promuovere una buona pratica intesa come risultato di un lavoro sinergico dei servizi pubblici, del privato-sociale e delle associazioni di volontariato.

La definizione di "buona pratica" è sempre stata controversa specialmente nell'ambito psichiatrico, la nostra convinzione è che la singola Unità Operativa (Ambulatorio, Centro Diurno, ecc.) definisce alcuni obiettivi, stabilisce gli strumenti per valutare se sono stati raggiunti, dimette la persona, in una parola stabilisce la sua efficacia. Questo secondo noi non è una buona pratica, è compreso in una buona pratica ma non la definisce.
Una buona pratica si costruisce attraverso la complementarietà degli interventi che insieme definisce un percorso e conferisce al singolo intervento un senso.
La buona pratica si costruisce allora su più livelli.
Il primo può essere quello della cura, intervento specialistico effettuato da una rete di unità operative all'interno delle quali opera un'équipe multidisciplinare composta da diverse figure professionali: psichiatra, psicologo, assistente sociale, infermiere.
Il secondo livello è quello dell'ambiente familiare che deve raggiungere un livello di accettazione del proprio membro in difficoltà tale che consenta la crescita ed il benessere di tutti; lavorare con le famiglie attraverso l'attivazione di gruppi di auto-aiuto o di gruppi volti ad un lavoro di crescita personale, parallelamente al percorso del congiunto in difficoltà, è imprescindibile per un corretto lavoro nel trattamento dei disturbi psichici gravi.
Il terzo livello è quello del processo sociale e lavorativo da svilupparsi attraverso l'inserimento, quando possibile, in un'attività lavorativa più o meno supportata o in un'impresa sociale afferente ad un Centro Diurno riabilitativo.
Il quarto livello è quello del supporto sociale volto ad aumentare l'empowerment della persona o, per meglio dire, la sua capacità.
Aumentare le capacità delle persone significa consentire loro di usufruire di risorse il cui accesso sarebbe altrimenti molto difficoltoso se non impossibile.
E' utile ricordare qui come anche tra i nuovi economisti come Amartya Sen viene sottolineato come sia importante rivolgere l'attenzione non tanto alle risorse che possono essere fornite ad un gruppo sociale ma alle capacità di questo gruppo di usufruire delle risorse stesse. Non è cioè tanto importante migliorare il Prodotto Interno Lordo di un paese ma è invece fondamentale che le persone siano messe in grado di migliorare il proprio tenore di vita .
Se questi quattro livelli non sono attivi e/o sono isolati, ovvero non riescono a trovare un canale comunicativo tra loro colludendo inevitabilmente nel mantenere uno stato di "cronicità", non si può parlare di "buona pratica", secondo noi.

Esistono degli esempi "casuali" che si sono verificati nella nostra CT e che hanno portato all'elaborazione del progetto: alcuni ospiti della CT hanno avuto la possibilità di essere accolti presso il gruppo di volontari della parrocchia del quartiere con effetti notevoli per quanto riguarda il processo di crescita personale. Un ospite in particolare è stato inserito nel coro della parrocchia entrando quindi in una situazione che non prevede l'esclusivo accoglimento di persone affette da disturbo o disagio psichico. Gruppo del coro che, attraverso una collaborazione e scambi con gli operatori, si è dimostrato accogliente e tollerante di fronte all'incostanza dell'ospite tanto che poi quello che si è verificato è una partecipazione costante e puntuale dello stesso alle prove ed alle rappresentazioni.
Di qui l'idea che costruire situazioni non "specialistiche" ma "normali" di accoglienza è sicuramente arricchente per la persona in difficoltà e rappresenta o può rappresentare un impulso al cambiamento o un attivatore di risorse non prevedibili a-priori.
La "presenza di situazioni normali di accoglienza" è qualcosa che, secondo noi, non nasce spontaneamente ma richiede un grosso lavoro di sensibilizzazione e di apprendimento per arrivare a "imparare a vedere" il disagio psichico attraverso una "donazione di senso" alle espressioni di sofferenza; imparare quindi a passare da un "tollerare", ad un "riconoscere la presenza" della persona, riuscire a cogliere gli elementi di ricchezza che può fornire, facendoli uscire dall'ombra dell'indifferenza.

L'intervento con il "terzo settore" è stato impostato secondo un progetto che ha individuato come popolazione target il volontariato cattolico. Questo per la peculiarità della realtà romana che vede nelle parrocchie uno dei centri più importanti e più presenti nei quartieri della città.
E' un progetto iniziato quattro anni fa con l'attivazione di un corso per volontari Caritas effettuato presso il Vicariato con lo scopo di far entrare nella problematica della salute mentale volontari che poi lavorando ciascuno nel proprio territorio di appartenenza portassero un nuovo interesse nel mondo del volontariato per il settore della salute mentale ed una nuova possibilità operativa.
Non solo, il corso, attraverso un tirocinio presso i Servizi Dipartimentali di Salute Mentale territoriali, ha contribuito a far conoscere i servizi, il loro lavoro, i loro canali di accesso.
Contemporaneamente nel nostro territorio è stata coinvolta l'Amministrazione Comunale ed è stata costituita una e Consulta delle associazioni di volontariato, del privato sociale e dei servizi sanitari presenti nel territorio cui hanno aderito, oltre ai servizi pubblici, 98 fra associazioni e cooperative presenti nel territorio.
Una sorta di "patto territoriale" volto ad un miglioramento della qualità della vita.

Il progetto parte dalla costituzione di quella che abbiamo chiamato "Casa del Volontariato", punto di coagulo di pubblico e privato, in grado di introdurre un reale approccio innovativo allo sviluppo locale.
Si articola in diversi momenti da svilupparsi parallelamente.
Un primo momento è quello dell'attivazione di un gruppo di volontari da formare per un lavoro di "ricerca-intervento" nella circoscrizione. Il contatto diretto con le risorse presenti nella Consulta e con eventuali altri gruppi o Associazioni deve produrre una sensibilizzazione da parte di tutti al lavoro di rete sociale che stiamo costruendo ed una reale informazione sull'entità e consistenza delle risorse stesse.

Il risultato di questo si deve concretizzare in una Banca Dati che sia in grado di individuare le risorse capaci di rispondere ad un determinato bisogno, la loro capacità a rispondere e la loro disponibilità a farlo. Analizzare ed individuare le risorse che si collocano nella rete sociale, è la premessa per elaborare un progetto che non si occupi solo dell'emergenza ma tenti di strutturare un sistema in grado di fornire supporti per affrontare gli inevitabili momenti di difficoltà cui vanno incontro le persone.
Una Banca Dati che contenga non solo il nome della singola risorsa o servizio, la funzione principale, l'area di intervento, ma anche gli eventuali cambiamenti nell'operatività, le modalità di accesso, le risposte possibili, i progetti futuri ed i tempi di realizzazione, il tipo di rapporto con le altre risorse e servizi; una Banca Dati che consenta l'accesso alla risorsa a partire dal bisogno, dovrebbe inoltre contenere e memorizzare i bisogni emergenti, le risposte mancate, le risposte auspicabili. Una banca dati definita "attiva" nel senso che dal confronto tra i bisogni e le risposte si possano trarre indicazioni per promuovere nuove risorse o per indirizzare nuove operatività.
Il mantenimento della Banca Dati sarà affidato agli stessi volontari che hanno lavorato nella "ricerca-intervento" insieme ad altre figure di non-professionali con lo scopo di aumentare le capacità delle persone in difficoltà, rendendo così possibile la scelta di un proprio modo di vivere.
L'ipotesi da cui partiamo è quella per cui si sostiene che il territorio è un insieme di luoghi vicini e lontani, organizzati secondo relazioni di inclusione/esclusione o di vicinanza/lontananza.

Per luoghi intendiamo quegli spazi dove si attivano risorse, dove le persone trovano una loro identità perché sono spazi riconosciuti come propri, dove le persone possono costruire la loro storia.
Un territorio che consente l'utilizzazione di luoghi diversi, perché attiva molteplici risorse, è generatore di ricchezza di rapporti e, per noi, di benessere.
Migliorare l'articolazione sociale e la capacità di accesso alle risorse consente una migliore possibilità di scelta del funzionamento sociale in quel momento cosa che noi assumiamo essere alla base della percezione da parte della persona di una migliore qualità di vita.
Questo principio è alla base del documento dell'Organizzazione Mondiale della Sanità del 1995 sulla definizione della qualità di vita di un individuo: "La qualità di vita è definita come la percezione da parte delle persone della loro condizione di vita, nel proprio contesto culturale e nel proprio sistema di valori, in rapporto ai loro obbiettivi, aspettative, standard e tenore di vita. E' un concetto molto ampio che copre la salute delle persone, lo stato psicologico, il livello di autonomia, le relazioni sociali, le convinzioni personali e i loro rapporti con gli elementi caratterizzanti il proprio ambiente di vita" (WHOQOL Group, 1995).

D'altra parte la possibilità di utilizzare la molteplicità delle risorse di un territorio, varia a seconda delle persone; se per alcuni, infatti, l'utilizzazione del territorio nella sua complessità è qualcosa di possibile, per le fasce più deboli un territorio si può ridurre ad un confinamento in un "monoluogo" che può essere la propria abitazione come avviene per gli anziani e per alcune fasce di adolescenti, fino ad un confinamento in un "non luogo" per le fasce più marginali come i senza dimora ed i malati mentali.
Non luogo inteso, come sostiene Marc Augé, spazio in cui non è consentito attivare relazioni, dove non si costruisce un'identità ma solo solitudine.
Se quindi un territorio si presenta con proprietà specifiche di pluralità di risorse-luoghi, gli abitanti a loro volta si presentano con diversi livelli di capacità per utilizzarle. Un territorio cioè può essere ricco di servizi ma per alcune persone rimanere poverissimo.

Terzo momento è quello formativo rivolto al gruppo di volontari ma anche tra servizi, una sorta di formazione tra pari.
La formazione deve cioè essere rivolta ai non professionali per migliorarne le capacità ma anche rivolta a costruire canali comunicativi e di conoscenza reciproca tra servizi e tra risorse attraverso la promozione ed attivazione di momenti seminariali e di discussione tra le associazioni, i servizi pubblici ed il privato sociale.
Gli operatori della nostra Comunità stanno già da qualche tempo operando come consulenti formatori delle realtà parrocchiali del territorio e delle associazioni laiche che si occupano dei problemi dell'emarginazione, della tossicodipendenza e dell'alcolismo.
La Casa del Volontariato sulla quale stiamo lavorando è un edificio fino a poco tempo fa adibito a scuola materna. La diminuzione delle nascite ha determinato lo svuotamento dei locali che comprendono quattro grandi sale, una cucina, tre bagni grandi. Il progetto comprende l'attivazione di gruppi di autoaiuto sia delle persone in difficoltà sia dei familiari, oltre che il lavoro di rete sociale.

Conclusioni

Il lavoro di rete che abbiamo attivato nella nostra circoscrizione da ormai quattro anni ha prodotto alcuni risultati che stiamo formalizzando nelle loro componenti. Per il momento possiamo affermare che delle persone che sono transitate nella Comunità noi continuiamo ad averne notizia anche perché gli ospiti sono per la quasi totalità appartenenti al nostro territorio. Stiamo pertanto lavorando sugli esiti ed abbiamo per il momento risultati abbastanza confortanti con follow up di due anni senza ricadute e con un netto miglioramento della qualità della vita.
Gli ospiti hanno per il 90% una diagnosi di schizofrenia e per il 10% una diagnosi di disturbo grave di personalità di tipo borderline.

Quello che qui ci premeva sottolineare è che il lavoro nella Comunità Terapeutica deve considerarsi parte di un lavoro che deve coinvolgere altri servizi, la famiglia ed il territorio.
La parzialità del lavoro comunitario impone la ricerca di complementarietà al fine di tracciare un percorso terapeutico "dotato di senso".
Oggi prevale, giustamente, l'attenzione sull'obiettivo e sugli esiti e quindi sulla loro verificabilità; crediamo, infatti, sia importante che l'intervento singolo centri l'attenzione sugli obiettivi da raggiungere. Crediamo tuttavia che questo non possa definirsi come "buona pratica".

Qualsiasi intervento è più o meno efficace a seconda che sia inserito in un progetto e processo terapeutico dotato di senso per quella persona.
Il processo terapeutico di una persona è la sua storia, fare in modo che si sviluppi fa parte quindi del lavoro clinico. Noi non possiamo pensare che il nostro lavoro si fermi dentro le mura della Comunità Terapeutica dove lavoriamo o nel momento in cui abbiamo raggiunto gli obiettivi prefissati, li abbiamo verificati e validati. Il microcosmo comunitario non ha senso se non trova all'esterno un adeguato supporto. La Comunità non dimette pazienti guariti, dimette pazienti con nuovi progetti e lavora per fornire supporti nei servizi, nelle famiglie, nella rete sociale, a persone che se non li trovano non potranno sviluppare una qualità di vita soddisfacente.

BIBLIOGRAFIA

M. Augé: "Non-lieux", Seouil, Parigi, 1992

J.E.D. Esquirol: "Des Passions", Parigi, 1805

P. Pinel: "Traité médico-philosophique sur l'alienation méntale ou la manie", Parigi, 1800

M.Sassolas: "Interazione tra Comunità Terapeutiche e altre strutture di cura" in A.Ferruta, G.Foresti, E.Pedriali, M.Vigorelli: "La Comunità Terapeutica", Raffaello Cortina, Milano, 1998

A. Sen: "Inequality Reexamined", Oxford, Oxford University Press, 1992

WHOQOL Group: "The World Health Organization Quality of Life Assessment. Position paper from the World Health Organization Social Science and Medicine" 41,1403-1409, 1995




PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> COMUNITÀ TERAPEUTICHE