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PSYCHOMEDIA
COMUNITÀ TERAPEUTICHE
CT Salute Mentale



Le competenze dell’operatore di comunità: dalla formazione di base alla supervisione*

di Marino de Crescente

Comunità terapeutica Passaggi oricola (Aquila)

Lavoro presentato alla Conferenza di Windsor dell'anno 2002

*ATC WINDSOR CONFERENCE 2002: "The professional requirements of TC worker from basic training to supervision"




La complesssità della formazione dell’operatore di comunità.

La specificità e la complessità del lavoro nelle comunità terapeutiche obbliga chi opera nel loro contesto ad una formazione altrettanto complessa che è inoltre di carattere permanente.
Va preliminarmente specificato che chi presta opera in una comunità ha che fare con un contesto alquanto particolare che poco ha in comune con la maggior parte delle caratteristiche dei settings del lavoro clinico individuale e gruppale.
Ciò è soprattutto dovuto al fatto che la comunità è innanzitutto un ambiente di vita per gli ospiti che vi risiedono e in parte per chi vi presta opera, e questa circostanza obbliga anche gli operatori ad intervenire spesso direttamente nella dimensione quotidiana degli ospiti e a dover rinunciare ai tradizionali strumenti di intervento a carattere interpretativo verbale e accedere alle “azioni parlanti” così ben descritte da Recamier ( 1972). Il setting delle comunità si presenta quindi piuttosto come un setting agito in cui , ogni programmazione deve consentire innanzitutto che i “ FATTI”, spontaneamente “ACCADANO”, come in un contesto di vita ordinario, e successivamente creare le condizioni che permettano un operazione elaborativa significante. Si intuisce facilmente che il paradigma qui proposto è diametralmente opposto al paradigma dell’ospedale psichiatrico, vincolante chiuso e aproblematico. Così all’armamentario della teoria Clinica , di cui parleremo in seguito, deve aggiungersi un quantum di esperienza che non può essere appresa che con uno specifico training esperito sul campo. Questa circostanza fa del lavoro nelle comunità terapeutiche un contesto altamente formativo, e non a caso in altri paesi europei (l’inghilterra ne è un esempio) in cui è presente una tradizione teorica che nasce da presupposti empirici , perfino il training degli specializzandi in psichiatria prevede un periodo di pratica nelle comunità terapeutiche. A dire il vero anche in Italia , paradossalmente, fino ad alcuni anni fa, era richiesto agli specializzandi un periodo di “ internato” nell’ospedale psichiatrico, per consentire loro di fare esperienza sensoriale diretta degli elementi primitivi che sono alla base delle patologie gravi.

Necessità dell’integrazione tra la teoria e la prassi.

A questo proposito va ricordato innanzitutto che le comunità terapeutiche che fanno riferimento a tradizioni scientifiche riconosciute e maggiormente condivise , si basano sui principi teorici e sulla cultura del “social living” e del” social learnig” ,ovvero su forme di apprendimento che si riferiscono principalmente non tanto all’acquisizione di informazioni , quanto piuttosto alla trasmissione diretta di esperienze che sono fortemente influenzate dall’interazione con gli altri e che per questo hanno un carattere di maggiore complessità e di maggiore permanenza dell’esperienza acquisita. Enrico Perdriali nel lavoro presentato alla conferenza di Windsor nel 1997 ha rilevato l’importanza dell’integrazione tra teoria e prassi nella formazione dell’operatore di comunità. In questa esemplare esposizione della complessità della formazione necessaria a chi decide di lavorare in una c.t. per pazienti psichiatrici egli ha distinto tre diversi modelli formativi, e ha sottolineato i rischi di una accettazione unilaterale di apprendimento fatto esclusivamente
“ sul campo “ che egli definisce “in presa diretta “ (E.Pedriali ), che “attribuisce minore importanza al possesso di un bagaglio teorico (anche se non lo esclude) e privilegia l’acquisizione di conoscenze attraverso l’assimilazione giorno dopo giorno della prassi e dello stile di vita della comunità” ( E.Pedriali 1997). Tali rischi consisterebbero nella creazione di una monocultura poco aperta al confronto, un’adesione fideistica ad un unico modello ,l’instaurarsi di meccanismi di dipendenza all’interno dello staff, e tra lo staff e i pazienti.
Pedriali individua inoltre i rischi di una formazione che privilegi esclusivamente l’acquisizione di un bagaglio teorico. Facendo riferimento alle ricerche di A. Orsenigo egli sottolinea come tali rischi consisterebbero nella tendenza a sottostimare l’apprendimento in gruppo , nell’ostacolare l’assunzione diretta di responsabilità , nello stabilirsi di una frattura tra la lettura dei fenomeni e la concretezza che occorre per affrontarli, nella creazione di difese intellettualistiche contro il coinvolgimento emotivo . In fine egli rileva l’ inutilità che una formazione teorica puo avere nella creazione di quello strumento determinante nel lavoro di comunità che è la capacità di insight, e nell’accrescimento della conoscenza del proprio funzionamento come operatore.
A questo riguardo è utile qui riportare le ricerche di Jonhn Collins e Mary Collins che hanno problematizzato il concetto di insight specificando che per quanto riguarda il lavoro sociale e ,quindi il lavoro delle comunità,bisogna fare riferimento ad un concetto di insight che è diverso dalll’accezione comunemente usata di “ comprensione profonda “ o di quella in uso in ambito psicoanalitico, ma bisogna far riferimento ad una terza accezione in cui : “ il termine è usato per designare la consapevolezza delle proprie emozioni, il loro ruolo nel comportamento e l’effetto che questo può avere sugli altri”.( J Collins , M Collins 1992 ).

Dalle ricercha riportata credo risulti chiaro che una”buona”formazione possa risultare tale solo se :
1) l’operatore è fornito di una sufficiente esperienza sul campo, acquisita in fase di tirocinio con un apposito training.
2) L’operatore possegga o venga informato della necessità e acquisisca le competenze teoriche “ di base” necessarie alla comprensione dei fenomeni psicopatologici degli ospiti e delle dinamiche gruppali.
3) la comunità richieda o fornisca gli strumenti per far si che tale formazione possa essere
acquisita allestendo i contesti adeguati . Tali contesti possono consistere in corsi teorici interni su problematiche specifiche, momenti gruppali quali riunioni di equipe e naturalmente la supervisione istituzionale di cui parleremo in seguito. Naturalmente tali contesti gruppali devono possedere le caratteristiche per consentire una buona integrazione tra la prassi e la teoria e devono consentire l’espressione della molteplicità dei punti di vista e delle professionalità per fare in modo che la equipe assuma realmente un assetto multidisciplinare.
In ultimo va sottolineato che le comunità , per le caratteristiche formative e quindi professionali già citate , possono rappresentare di fatto , il superamento della alienante divisione tra il tra il lavoro intellettuale e il lavoro manuale.

La specificità della formazione di base in c.t.

Per formazione di base vogliamo qui interdere il corpus teorico necessario all’operatore per creare ipotesi sulle condizioni dell’ospite e per riuscire a comprendere e gestire nel miglior modo possibile le dinamiche gruppali e istituzionali in cui egli è immerso e che quasi sempre definiscono la sua condizione di insoddisfazione- soddisfazione professionale.
Innanzitutto , per quando riguarda la formazione teorica , l’operatore dovrà essere consapevole che il lavoro nella comunità ha tutte le caratteristiche di un genuino lavoro di ricerca scentifica, e in quanto tale la sua formazione non potrà che avere un carattere di continuo aggiornamento. Solo la continua interrogazione di saperi diversi può dare ragione della complessità irriducibile dell’intervento in una comunità terapeutica:

“ Le correnti nozioni di anatomia e fisiologia , unite alla conoscenza dell’organizzazione dinamica della personalità, dei suoi principi inconsci di regolazione e di difesa , costituiscono elementi minimi di approccio alla sofferenza psichica. Operando però in un gruppo allargato costituito da operatori e ospiti , ed essendo la comunità immersa nel tessuto sociale del territorio, è spesso, se non sempre, necessario far riferimento a teorie sistemiche, facendo utilizzo, li dove le ipotesi non facessero giustizia delle variabili in gioco , delle teorie della complessità e del caos” ( De Crescente 1991).

E . Pedriali ( 1997) ha suggerito , in aggiunta alle competenze sopra elencate, la storia della psichiatria, la storia delle comunità terapeutiche , e facendo riferimento alle riflessioni di D. Kennard , suggerisce la conoscenza oltre che del modello psicodinamico già citato, di quello cognitivo , comportamentale , biologico e sistemico famigliare, nelle diverse modalità con cui essi vengono utilizzati in comunità.
In fine bisogna ricordare che uno degli strumenti necessari più importanti per chi lavora in c.t. è l’empatia e l’empatia non è una facoltà a priori , una nuda capacità , ma per far si che sia fruttuosa l’operatore deve dar fondo al suo bagaglio di esperienze . La comprernsione dell’ospite richiede una viva immaginazione e una ricca vita fantasmatica che va alimentata continuamente con la dedizione alla letteratura, al teatro, alla poesia alle favole al foklore e ai giochi. ( De crescente 1991).

Specificità della supervisione in c.t.

Precedentemente era stato sottolineato come la comunità nel suo qualificarsi come un ambiente di vita per gli ospiti, e in parte per gli operatori , possa costituire un setting alquanto complesso e atipico. Questa caratteristica suggerisce a chi opera in comunità , ad individuare meccanismi di supervisione che prescindano dalla scadenza della supervisione quindicinale o mensile con un supervisore esterno, che come vedremo in seguito, rimane, in ogni caso,uno strumento imprescindibile. Innanzitutto va rilevato che la serie di accadimenti che coinvolgomo la vita vissuta di questa particolare istituzione, la necessità di attribuire ai fatti un significato , obbliga gli operatori ad una continua opera di risignificazione ,operazione che costituisce probabilmente la caratteristica più importante del lavoro in comunità . Essendo gli operatori coinvolti direttamente nella quotidianità , si può affermare che essi sono costantemente alle prese con un confronto continuo con i colleghi, confronto che costituisce una sorta di co- visione degli accadimenti reali e psichici degli ospiti e dell’istituzione. Questo processo “condiviso” di significazione costituisce una prima forma di supervisione poiché consente il superamento del punto di vista individuale. Ma esistono diversi momenti della vita istituzionale che possono avere caratteristiche simili a quella descritta e costituire di fatto , seppure sempre all’interno di una dinamica gruppale, una sorta di supervisione. Le riunioni settimanali delle equipe costituiscono ad esempio un momento di riflessione gruppale che consente una integrazione di molteplici vertici osservativi e che favorisce una ricostruzione degli accadimenti estremamente complessa: anche in questo caso credo si possa dire sia in atto una sorta di supervisione implicita.
Ma anche i momenti non propriamente istituzionali, non codificati, quegli spazi della vita comunitaria definiti “interstiziali” , come i cambi di turno degli operatori , o gli spazi vuoti tra una riunione e l’altra , o momenti totalmente al di fuori delle vita istituzionale, possono costituire un momento di confronto e di risignificazione della vita istituzionale.
Tutti questi momenti , sono comunque inseriti all’interno di una dinamica gruppale e quindi non possono far a meno di un vertice esterno, di un supervisore estraneo alla vita istituzionale che permetta il superamento della tendenza all’autoreferenzialità delle ipotesi create.

J .Knowles ha osservato che “ Nella struttura di una comunità terapeutica il personale è più esposto ai clienti di quanto accada in un gruppo di pazienti esterniÉ..ciò significa che la teoria deve essere ampliata per adattarsi al contesto e la supervisione deve riflettere tale espansione” ( 1995).
Credo che con questa affermazione l’autore voglia sottolineare come la la specificità e complessità del lavoro comunitario indichi la necessità di una modifica della teoria della supervisione istituzionale. Il supervisore si trova infatti alle prese con un assetto gruppale permanente di ospiti ed operatori che costituisce un grado di complessità istituzionale poco comparabile con gli assetti gruppali delle altre istituzioni che solitamente vengono prese in esame. Se è vero che esiste un certo isomorfismo tra i gruppi istituzionali e verò altresì che la comunità terapeutica per la sua organizzazione autonoma e per il suo assetto residenziale e permanente costituisce una specificità che non la rende analoga ad altri contesti di terapia. Questa circostanza obbliga il supervisore , se egli non ha fatto diretta esperienza del lavoro di comunità e del suo complesso sistema di funzionamento, ad acquisire le informazioni necessarie che consentano di individuare in quale modo ogni singola comunità si colloca all’interno della cultura più generale di quello che è stato definito il “movimento delle comunità terapeutiche”. Nello specifico è necessario comprendere a quali esperienze ogni comunità fa riferimento, e in che modo sintetizza questi prestiti concettuali nella sua cultura.
Questo è necessario principalmente per poter individuare la cultura specifica di ogni singola esperienza .
Inoltre è importante che il supervisore attribuisca l’importante rilevanza e il ruolo che gioca l’angoscia in quella particolare istituzione che è la comunità terapeutica. Essendo le comunità strutture che operano sulle 24 ore e avendo quindi la responsabilità di una presa in carico “ forte” l’angoscia profonda del paziente psicotico proiettata sull’equipe curante abbisogna di un dispositivo di contenimento alquanto articolato. Il meccanismo di contenimento , può far pensare ad un sistema di scatole cinesi: l’angoscia del paziente è contenuta dagli operatori che si trovano a piu stretto contatto con lui; l’angoscia dei pazienti e degli operatori è contenuta dai responsabili della struttura; l’angoscia di pazienti operatori e responsabili è contenuta dal supervisore ; l’angoscia del supervisore è contenuta dall’istituzione scientifica a cui appartiene e dall’armamentario teorico a cui fa riferimento. Come ha affermato Pagliarani (1972) l’angoscia del paziente psicotico è gestibile solo se è cogestita.
In ogni caso la supervisione , dal punto di vista della formazione ,risulta come un contesto privilegiato, un sistema estremamente dinamico che permette agli operatori di trovare nuove relazioni tra il proprio operato nella comunità e e le teorie che sono state apprese nei diversi contesti di formazione teorica, interni ed esterni alla comunità.
Infine vorrei riportare per esteso le considerazioni di C. Barnà e coll. ( C. Barnà et. All. 2002) ,
sulla supervisione delle comunità terapeutiche.

“ la supervisione si prende cura del gruppo sul piano motivazionale e lo porta a sentirsi più qualificato sul proprio lavoro, attivando una vitalità maggiore e mettendo a lucido gli strumenti operativi in uso. Quando la supervisione funziona si assiste ad una sottile trasformazione del gruppo che diviene più capace di usare i momenti di riunione come momenti in cui si possono lasciare più liberi i pensieri, in cerca di una migliore comprensione del paziente. Una supervisione riuscita ha anche degli effetti terapeutici nel gruppo ; un buon funzionamento gruppale nella supervisione sembra avere ricadute interne nei singoli partecipanti e produrre una maggiore integrazione con se stessi e con gli altri”.

Bibliografia

Recamier, C.P. (1972) “ Lo psicoanalista senza divano” Cortina 1972

Pedriali ,E. ( 1997) “ An integration between theory and praxis in the community operator training. ( paper presented to the Windsor Conference 1997)

Orsenigo, A. “ il lavoro di comunità” in Kaneclin C. Orsenigo A.
Roma, nuova italia scientifica

Collins, J. Collins Mary. ( 1992) “ Social skills training and professional helper “
John Wiley & sons Ltd 1992

De Crescente , M. ( 1991) “ L’operatore di comunità una professione impossibile? “
In Reverie october 1991 Rome

De Crescente, M. (1991) “ L’operatore di comunità una professione impossibile?”
In Reverie october 1991 Rome

Knowls, J. (1995) “ la supervisione nelle comunità terapeutiche “
In Sharpe, M. The third eye London Routledge 199

Pagliarani, L. (1972) “ La cogestione dell’ansia , aspetti e problemi della comunità terapeutica visti secondo l’ottica socioanalitica “
Minerva Psichiatrica e Psicoanalitica vol 13 supplemento N.2 apr. Giu. 1972

Barnà, C.A., Antonini, I., Bonomo,D., Brignone,A.,Casarano,L.,DeCrescente,M.,Tassoni,G.(2002)
“ la supervisione delle comunità terapeutiche: processualità, limiti e potenzialità”
Stigma 7° congresso di psichiatria sociale 18/21 aprile Roma


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