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Strumenti in Psico-Oncologia

RIVISTA SEMESTRALE

Numero 8, Maggio 2012

Riflessioni su transfert e controtransfert in un corso di Psicologia Sociale per infermieri.


Domenico A. Nesci*, in collaborazione con Pamela Banchi**

* Professore di Psicologia Sociale, Corso di Laurea per Infermiere, Università Cattolica del S. Cuore, Roma. ** Specializzanda tirocinante della Scuola Internazionale di Psicoterapia nel Setting Istituzionale (SIPSI).

Dott. Nesci: Nella lezione precedente abbiamo parlato del disconoscimento. Oggi parliamo del transfert e del controtransfert. Nelle barzellette e nelle vignette umoristiche, il transfert è l’innamoramento di una paziente (invariabilmente donna) per uno psicanalista (invariabilmente uomo). Nella realtà clinica il transfert ha ben poco a che vedere con questo stereotipo.

Il transfert è una dinamica psicologica inconscia (Freud, 1909), esattamente come il disconoscimento (Freud, 1905). La volta scorsa vi ho presentato il disconoscimento come un meccanismo di difesa per il fatto che ci consente di evitare il dolore mentale di un fatto o di un aspetto della realtà (del mondo esterno o del mondo interno) che suscita in noi un’emozione incontenibile, un pathos. Oggi vi propongo di pensare al transfert come ad un meccanismo di adattamento all’ambiente per il fatto che ci consente di proiettare su un “oggetto” esterno reale (ad esempio un infermiere) un altro “oggetto” che appartiene invece al nostro mondo interno (per esempio una figura genitoriale) orientando così il nostro comportamento (nel caso appena descritto, ad esempio, consentendo al paziente di affidarsi all’operatore sanitario con fiducia).

Come il disconoscimento così anche il transfert, essendo un meccanismo inconscio, si attiva spontaneamente. Noi non ce ne accorgiamo, oppure, se abbiamo capacità di insight, cioè di guardarci dentro ed osservare e capire ciò che ci accade, possiamo rendercene conto solo in un secondo tempo, quando tutto è già successo. Il transfert è un meccanismo universale della mente umana, è un fenomeno che a noi, a tutti noi, capita in continuazione; non è un fenomeno che si verifica solo nella relazione analitica tra un paziente ed uno psicoanalista, magari con l’aiuto del lettino. Ha luogo ogni qualvolta una persona assume un ruolo nella nostra vita, sia esso positivo o negativo. Nessuno di noi è in grado di incontrare un’altra persona in modo obiettivo, tutti noi proiettiamo inevitabilmente nell’altro qualcosa dei nostri precedenti “oggetti d’amore” (persone su cui è stato fatto un investimento affettivo) e quindi abbiamo in realtà una visione distorta che ci predispone, positivamente o negativamente, all’incontro con l’Altro.

Facciamo un esempio facile di questo processo psicodinamico complesso. Il transfert è un trasferimento. Io potrei, per esempio, trasferire inconsciamente su una delle allieve del primo banco l’imago di mia figlia, magari facilitato dal fatto che c’è una somiglianza fisica in qualche dettaglio (gli occhiali, il colore dei capelli, e così via)… Capite che voglio dire? Il transfert è il fatto che io, senza rendermene conto, posso trasferire qualcosa che sta dentro di me, a livello inconscio, su un’altra persona che sta nel mondo esterno.

Continuando a giocare con questo esempio supponiamo che io sia sfortunato ed abbia una figlia antipatica [risate della classe] che assomiglia in qualche modo a lei [indicando una ragazza al primo banco] e che per un transfert, cioè senza accorgermene, io la veda come se fosse la mia figlia antipatica e quindi possa predispormi al rapporto con lei esattamente nello stesso modo con cui mi predispongo al rapporto con la mia figlia antipatica [risate]. Voi capite che questo è un problema serio! Mi spiego meglio. Immaginiamo adesso che io sono un infermiere e vado vicino al letto di un malato ed il mio inconscio “fa” subito un transfert (se parlo di un infermiere mi capite meglio di sicuro…). Bisogna vedere che transfert fa il mio inconscio. Capitemi bene, non sono io che “faccio” il transfert. Io vado lì con scienza e coscienza in veste di infermiere e non per fare il transfert; ma il transfert mi capita! E’ questo che dovete capire: vi capita che lo vogliate o no, perché è inconscio, va da solo… Tu entri nella stanza, vedi il malato e “fai” il transfert. Che transfert fai? Questo è il problema! Cosa trasferisci sul paziente? La figlia antipatica o la figlia simpatica? Perché se tu fai un transfert, come si dice in gergo tecnico, positivo o negativo, non è la stessa cosa. Tu puoi predisporti positivamente o negativamente verso quel paziente. Questo ci interessa! Ci interessa perché noi siamo professionisti della relazione d’aiuto ma se non sappiamo neanche che esiste un transfert, che professionisti siamo?

L’ABC della relazione è che noi abbiamo una relazione a livello conscio e, allo stesso tempo, una relazione a livello inconscio, con l’altro, e questa relazione a livello inconscio è determinata dal transfert. Per cui, appena entriamo in relazione con l’altro noi trasferiamo su questa persona nuova sconosciuta l’immagine di una persona già conosciuta e ci comportiamo, senza accorgercene, come se la nuova persona fosse l’altra.

Associato al concetto di transfert c’è quello del controtransfert (Racker, 1968).

Il controtransfert che cos’è? Proviamo a vederlo nell’esempio di prima. Di nuovo… sono un infermiere, entro nella stanza, vedo un paziente e… che succede? Inconsciamente io faccio un transfert… Io faccio un transfert e l’inconscio del paziente se ne accorge. Il paziente si accorge, inconsciamente, se io lo vedo come la figlia simpatica o come la figlia antipatica… Anche questo avviene inconsciamente: non ci possiamo fare nulla. Io entro nella stanza, proietto sul paziente l’immagine di mia figlia antipatica e immediatamente quello si sente addosso il mio transfert e risponde con un controtransfert, cioè con una risposta emotiva alla proiezione che io ho fatto. Per cui si può dispiacere, risentire, arrabbiare…

Quando parliamo di amori a prima vista, da un lato, o diciamo dell’altro che “a pelle mi è antipatico”, di cosa stiamo parlando? Di transfert e di controtransfert, del fatto che ho proiettato un’immagine positiva (e quindi mi è simpatico) o negativa (per cui mi è antipatico) su qualcuno. L’altro lo sente. Non sappiamo come, ma lo sente che abbiamo fatto questo trasferimento affettivo su di lui o su di lei, e risponde in modo non verbale con un controtransfert all’affetto positivo o negativo che ha sentito.

Classicamente, nessuno insegna così il transfert e il controtransfert. Classicamente si insegna che il paziente fa il transfert, non che l’operatore sanitario fa il transfert; si insegna che il paziente trasferisce, per esempio sull’infermiere, una figura familiare: “Ah… questa è mia cugina, questa è mia nipote, questa è mia sorella, questa è la fidanzata di mio figlio…” Il paziente fa un transfert e l’operatore sanitario fa un controtransfert, cioè risponde in modo istintivo a questa sensazione che si sente messa addosso dal paziente… Questo è giusto, ovviamente, ma io preferisco spiegarvelo al contrario, farvi l’esempio dell’operatore sanitario che fa il transfert sul paziente per evitare che pensiate che fare un transfert sia una “debolezza” una “cosa da pazienti”. No. Non è vero che il transfert è una cosa patologica che riguarda i pazienti. No! Il transfert è una cosa normale che ci riguarda tutti, lo facciamo tutti… Ecco, io ci tengo molto che voi capiate questo: il transfert è un meccanismo psicodinamico normale di funzionamento mentale e lo facciamo tutti, involontariamente e inconsciamente.

Certamente a noi interessa molto il transfert dei pazienti. Arriviamo qui ad un punto importante. Il paziente si chiama paziente perché ha il pathos. E che cos’è il pathos? Il pathos, come vi ho già spiegato nella lezione precedente, è l’equivalente della passione, passione nel senso anche della passione di Cristo... Passione nel senso di dolore terribile, di una sofferenza incontenibile, oppure di un’emozione comunque molto forte che può anche essere bella ma comunque sempre sopra le righe. Il pathos è un’emozione troppo forte. Si può dire, per esempio, quel ragazzo ha la passione per la fotografia, ha il “bernoccolo” della fotografia (come se avesse presso una botta in testa…) c’ha il “pallino”, è “patito” per la fotografia, come dire che ne fa quasi una malattia, una cosa ossessiva, che pensa solo a quello. Questo è il pathos…è qualcosa sopra le righe, troppo forte, un’emozione incontenibile. Se io me la immagino come una massa fluida, questa è grossa, grossa, grossa… e il paziente è come una casetta piccola piccola… la massa rischia di farlo scoppiare! E per non scoppiare che fa il paziente? Apre la porta, le finestre, della sua casetta, per far uscire la massa fluida di fuori. Una parte di questa esce e raggiunge l’altro, e l’altro viene toccato dal transfert del pathos del paziente, perché il paziente non è in grado di contenere le sue emozioni e così queste escono fuori e vengono trasferite su chiunque si trova lì davanti, quindi anche su di noi operatori sanitari. E’ per questo che, classicamente, si insegna il transfert dicendo che il paziente ha un pathos, un’emozione incontenibile, e che la proietta, per non scoppiare, su chi gli sta intorno: amici, parenti, operatori sanitari. Verissimo! Ma quello che è importante che voi capiate è che noi funzioniamo come il paziente, non è che noi siamo un’altra cosa dal paziente: anche noi abbiamo dentro un mondo emotivo e quindi anche noi ovviamente facciamo delle proiezioni, anche noi facciamo un transfert.

Spiegare il transfert in questo modo, e cioè a partire dal transfert degli operatori sanitari invece che da quello dei pazienti, ci è utile per introdurre un altro discorso fondamentale: quello sulle motivazioni profonde, inconsce, ad abbracciare questa nostra professione, una professione in cui svolgiamo una relazione d’aiuto.

Io sono convinto che voi questo lo intuite benissimo: quando uno diventa infermiere (o comunque operatore sanitario) è perché ha avuto una vicenda di salute o malattia che lo ha coinvolto e che sta all’origine (consciamente o inconsciamente) della sua motivazione professionale. Se ancora non ne siamo consapevoli, è importante che noi ci rendiamo conto che siamo portatori di un pathos inconscio che ci spinge a ritrovare nel paziente l’oggetto d’amore perduto (quello che originariamente ci ha trasferito il suo pathos) e dunque a riparare nel paziente l’angoscia, l’impotenza, la vergogna, il senso di colpa, per non essere stati in grado di aiutare (all’epoca, l’oggetto d’amore originario). Quindi, formare continuamente la nostra professionalità significa lavorare sulla nostra capacità di riconoscere il transfert, di analizzarlo, di elaborarlo in modo tale da riconoscere grazie ad esso i nostri oggetti d’amore (perduti) che stanno alla base della nostra vocazione e che inconsciamente proiettiamo (trasferiamo) sui nostri pazienti. Il transfert dei pazienti (su di noi) ci aiuta a riconoscere il nostro stesso transfert (su di loro) innescando un circolo virtuoso in cui più aumentiamo la nostra capacità di decifrare il loro transfert più approfondiamo la nostra comprensione delle motivazioni inconsce che stanno alle radici della nostra scelta professionale. E’ l’ingresso in questi meandri labirintici della relazione inconscia (transferale/controtransferale) che nutre la nostra capacità di continuare a stupirci e incuriosirci ad ogni nuova esperienza clinica. La nostra antica ferita interna (per l’oggetto d’amore perduto) viene così riparata dalla sensazione di poter padroneggiare qualcosa di queste dinamiche inconsce, invece di esserne padroneggiati, di poter riparare qualcosa invece che sentirci del tutto impotenti, di poter accettare l’impotenza, la fragilità, la morte, invece che sentircene solo distrutti irrimediabilmente.

Vogliamo provare a raccontarci delle esperienza cliniche del vostro tirocinio per ritrovare queste dinamiche inconsce? Siete pronti? Forza!

Studentessa 1: Mi è successo, tempo fa, in un reparto normale di medicina, di incontrare una paziente di un’età media tra i 45 e i 50 anni, credo, la quale aveva un po’ di problemi di salute. Io mi sono presentata dicendo che sono una studentessa in infermieristica e che sono a sua disposizione; io sono rumena le dico, e lei mi fa ”Beh dal tuo accento ho capito che non sei italiana” e io le rispondo “si… sono rumena ma vivo qui da tanti anni…” e la signora mi risponde: “Sai, io ho avuto una ragazza rumena cha ha lavorato per me per tanti anni, però… sai non mi è piaciuto molto il suo comportamento e quindi…” Allora io ho capito che lei ha visto in me la stessa persona, ha identificato in me una persona vissuta in modo negativo, perché ogni volta che andavo da lei mi diceva se c’era la mia collega (non rumena)…

Dott. Nesci: Brava! Questo è un transfert, e non è neanche inconscio! [risate] Io penso che questa paziente ha proiettato sull’allieva infermiera l’imago della donna di servizio che si è comportata male. A quel punto la collega si trova spiazzata perché non è più lei, ma è un’altra. Allora come si gestisce questa situazione? Racconta quello che hai sentito e fatto tu e poi elaboriamo insieme cosa si potrebbe fare in una situazione così, perché questa situazione del transfert negativo, è quella che ci interessa più di tutte, ovviamente, perché è la più difficile da gestire.

Studentessa 1: Niente… praticamente parto sempre dalla premessa che io sono io e tu sei tu, ogni persona è unica nel suo modo di essere, ragione per cui non bisogna generalizzare su aspetti… ma anche pregiudizi o quant’altro. Ho provato a spiegarlo dicendo “Io capisco…”

Dott. Nesci: Che cosa le hai detto?

Studentessa 1: Le ho detto: “Io capisco questa sua esperienza, anche a me è successo di conoscere persone con cui non ci andavo d’accordo e quant’altro… però dobbiamo collaborare perché è nel suo interesse e nel mio interesse; siamo qui in un contesto [che] ce lo impone… ma è nel suo interesse più che altro e dobbiamo collaborare, insomma questo è il mio obiettivo.

Dott.Nesci: Come ti sei sentita quando lei ti ha detto questo?

Studentessa 1: Male…

Dott. Nesci: Male… cerca di farci capire l’emozione che tu hai provato, il controtransfert, cioè cerca di farci capire che tipo di male hai provato…

Studentessa 1: Delusione…

Dott. Nesci: Delusione… cioè? Spiega meglio…

Studentessa 1: Cioè delusione nel trovarmi di fronte all’ennesima persona che la pensa così…

Dott. Nesci: La tua parola (delusione) a me fa venire in mente un’altra cosa… una poesia che ho scritto tanti anni fa quando forse avevo la tua età o forse ero anche più piccolo: “Tu quanti anni hai?”

Studentessa 1: 27

Dott. Nesci: No allora avevo la tua età… Si, si… No, forse ero più piccolo… [risate]…Stavo cercando con il mio Maestro di allora di mettere in piedi un gruppo con pazienti che per motivi psicologici avevano un blocco delle mestruazioni. Io stavo aspettando una di queste pazienti che avrei dovuto vedere per la prima volta, per fare un colloquio e per farle dei test psicologici per poi inserirla in un gruppo di psicoterapia condotto dal mio Maestro (Nesci, Ferro, 1984).

In questa poesia ricordo che ad un certo punto ho scritto questo verso: “l’incontro con la Primavera…” e quindi mi sono reso conto che inconsciamente, ma non del tutto inconsciamente, perché quando tu scrivi una poesia sei a metà strada tra cielo e terra, tra sogno e realtà, mentre quando scrivi in prosa sei più razionale, la prosa è ragionata mentre i versi sono come delle libere associazioni… la poesia è una cosa che sta a metà strada, tra la coscienza e l’inconscio. Io ho riflettuto sul fatto che forse, a livello inconscio, andavo all’incontro con queste ragazze, con queste pazienti giovani che avevano l’amenorrea psicogena, questo blocco delle mestruazioni, come se fosse l’incontro con la primavera, l’incontro con una ragazza che sboccia, i fiori che sbocciano, sboccia la femminilità… il desiderio inconscio di aiutarle a superare il loro blocco.

Torniamo ora al tuo controtransfert: delusione…

La mia ipotesi è che il tuo transfert era più o meno come il mio, cioè io sognavo l’incontro con la primavera nell’incontro col paziente, e sicuramente anche tu sognavi nell’incontro con il paziente qualcosa di simile all’incontro con la primavera, metafora di una cosa bella, di una cosa che sboccia, che fiorisce, di un frutto che sarà buono. Da qui la delusione… La delusione rispetto a un transfert che ognuno di noi si porta dentro preconfigurato; è come se ognuno di noi avesse dentro un oggetto d’amore e nell’incontro professionale, a livello inconscio, si aspetta di ritrovare questo oggetto d’amore. Se l’incontro invece non è con la primavera, ma con l’inverno, quindi con il ghiaccio, la grandine, e chi più ne ha più ne metta… ecco che il controtransfert sarà un po’ rigidino, un po’ gelido.

E allora che voglio dire? Voglio dire che probabilmente, sempre a livello incoscio, tu non sei riuscita ad elaborare il tuo controtransfert perché ci sei rimasta troppo male e quindi hai risposto al tuo controtransfert in modo razionale, logico, probabilmente non ti sei fatta carico di questa emozione che avevi provato. Quando sentite un controtransfert, che di solito capita sempre quando il paziente fa un transfert negativo, state attenti al vostro controtransfert, non preoccupatevi di dare una risposta razionale, perché non è questo che può risolvere la relazione con il paziente, perché il transfert del paziente avviene a livello inconscio e quindi in automatico, quindi non riuscite a curarla questa nevrosi di transfert del paziente spiegandogli le cose. Se lo fate, non serve a niente: da una parte gli entra e dall’altra gli esce. Si tratta invece di riconoscere il proprio controtransfert “CHE DELUSIONE” e al momento in cui l’operatore lo riconosce, fa la cosa giusta. Faccio un esempio, faccio una fantasia… mi viene in mente la fantasia che tu avresti potuto cambiare atteggiamento del corpo, manifestando il dolore e la delusione, cambiare faccia, non nel senso dell’essere offesa e risentita ma nel senso della delusione, del mancato incontro con la primavera; prendere una sedia, avvicinare la sedia al letto della paziente, e dire qualcosa che esprimesse il tuo essere stata toccata emotivamente… cosa non lo so… ma so che sarebbe venuto in mente, se lo avessi fatto. Può venire in mente solo all’operatore che sta lì (seduto sulla sedia al letto del paziente, e quindi esplicitando con un gesto, in modo non verbale, la sua disponibilità) e che sente il transfert del paziente nel suo controtransfert. L’importante, nel transfert negativo del paziente, è che l’operatore capisca che non è un qualcosa che riguarda lui, che il paziente non ce l’ha con lui, che sta solo facendo un transfert, si sta rapportando all’operatore sanitario come se fosse un’altra persona. L’importante è che l’operatore capisca che l’unica via d’uscita è comportarsi in un modo diverso da come si sarebbe comportata quell’altra persona, manifestare che l’operatore sanitario, tu in questo caso, ha le sue reazioni emotive, che sono diverse da quelle di quell’altra persona, e che ha un suo transfert verso il paziente, un transfert positivo dell’operatore, che prescinde dal transfert negativo del paziente e dal controtransfert negativo dell’operatore stesso… e che l’operatore vorrebbe sul suo transfert positivo impostare la nuova relazione sognando di ritrovare il suo oggetto d’amore perduto e riuscire finalmente a ripararlo.

E a voi che viene in mente? Altre vignette?… Vedo due mani alzate… Bene! Fate a pari o dispari… [Risate]

Studentessa 2: allora io stavo in ginecologia e mi è capitato il giro della terapia che si fa una volta al mese, entravo in una stanza per somministrare ad una paziente un’iniezione di calcio-eparina.

Dott. Nesci: e dove si fa questa iniezione di calcio-eparina?

Studentessa 2: sotto cute… è un’iniezione sottocute, o nella parte alta del braccia o nella parte sotto l’ombelico, sulla pancia.

Dott. Nesci: e chi sceglie?

Studentessa 2: io di solito faccio scegliere al paziente… dico che possiamo farla sia sul braccio sia sulla pancia come vuole lei… allora… mm… ero già andata dall’altra paziente, avevo salutato come sempre e stavo per iniziare la terapia. Appena mi vede con la siringa in mano mi dice “nooo… per carità! Con la divisa blu non mi dovete più toccare, io voglio una con la divisa bianca”. Io dico… “guardi signora io faccio il terzo anno non è che è la prima iniezione che faccio, sono già tante”, e lei “no, per carità le iniezioni non le voglio fare più perché anche se tu sei brava, molti altri mi hanno fatto male quindi vi dovete proprio allontanare”. Ok… io ho pensato nella mia testa, non gliel’ho detto, se metto il camice bianco che le cambia? Allora ho chiamato l’infermiera ed è andata lei, perché mi sembrava inutile insistere anche perché le avevo pure detto che se le facevo male mi poteva anche picchiare… però lei ha rifiutato e a me non è sembrato giusto insistere su questo fatto, per cui ho lasciato stare e ho chiamato l’infermiera.

Studentessa 3: ma non si può confondere il transfert con il pregiudizio? Perché secondo me, cioè in tutte queste esperienze, sono più esperienze di pregiudizio che proprio di transfert.

Dott.Nesci: Riconoscere un transfert non è facile… Il pre-giudizio, cioè un giudizio che viene prima dell’incontro con l’altro, comunque ha a che vedere con il transfert, nel senso che il pregiudizio implica il trasferimento di qualcosa di precostituito con qualcuno su qualcun altro…

Studentessa 3: Nel pregiudizio non c’è la correlazione tra due persone ma tra la categoria e quello che rappresenta la categoria…

Dott. Nesci: certo, certo… però già siete sulla strada di vedere come in una relazione c’è una difficoltà di comunicazione, e che questa difficoltà è qualcosa che sta già nella testa del paziente o nella vostra, e che viene trasferita sull’altro, per cui l’incontro con l’altro è deformato. Il meccanismo è simile, e infatti vi vengono in mente prima esempi di transfert basato su un pregiudizio, e forse ora comincerete ad associare con esempi di transfert legati a situazioni più personali.

Studentessa 3: a me è capitato al primo anno di tirocinio, il primo tirocinio che ho fatto al primo anno, una situazione in cui io per lo shock sono svenuta… Per la prima volta su una paziente ho visto una piaga mai vista prima, bella importante, ed era molto grande! C’era lui con me nella stessa stanza [indica il collega seduto dietro] e io sono svenuta per aver visto quella cosa…

Dott. Nesci: certo…

Studentessa 3: e… diciamo… ancora adesso quando so che c’è quella situazione… un po’ mi defilo, cioè ho comunque paura, entro con l’angoscia di dire “ora mi risuccede”… magari, non so se è proprio una proiezione di transfert

Dott. Nesci: beh si…

Studentessa 3: in un certo senso è una cosa che mi tocca di più…

Dott. Nesci: tu trasferisci su una situazione nuova e su una persona nuova la tua esperienza passata: questa è una forma di transfert, assolutamente! Perché è una cosa spontanea, non è una cosa che tu fai volontariamente... È un’esperienza passata che viene proiettata anticipatamente in un’esperienza nuova al punto che può rendere impossibile l’esperienza nuova, nel senso che, come hai detto tu, puoi “defilarti”…

Studentessa 3: che poi se lo faccio, lo faccio proprio… non è che tu ti puoi tirare indietro di fronte a certe cose, la mia professione sarà abbastanza più forte di questo, e ci vado sempre… o accompagnata o guardo poco…

Dott. Nesci: la collega sta dicendo un’altra cosa preziosa, ha detto una cosa bellissima. Perché ha detto: io sono consapevole del mio transfert (che è un transfert anticipatorio negativo dell’operatore) e sono preoccupata del mio possibile controtransfert (svenire, perché quello è un controtransfert, lei ha fatto un esempio bellissimo anche di controtransfert, nel senso che a farla svenire non è stata solo la vista della ferita ma anche la sua reazione all’emozione che in qualche modo il paziente le ha comunicato). Quindi lei ha fatto l’esperienza di un controtransfert forte: è svenuta… e allora rispetto a tutto questo lei è bravissima, è consapevole, e allora lei a quel punto inventa una tecnica per diventare capace di superare questa difficoltà. Qual’é la tecnica che si è inventata? Non ci vado da sola! Non è che mi nego proprio l’esperienza, no… perché capisco che è una cosa che devo riuscire ad elaborare se voglio essere una professionista, ma visto che mi è successo che ho perso il controllo e sono svenuta, non mi va di ritrovarmi in una situazione in cui rischio di perdere il controllo di nuovo; allora ci vado con qualcuno.

Questo è un sistema geniale, che ha a che vedere alla lontana con quello che noi descriviamo in psicoanalisi come scissione del transfert (Racker, 1968). Quando il paziente ha un pathos, e questo pathos è particolarmente forte, il paziente lo scinde, fa delle scissioni e trasferisce porzioni o aspetti diversi di questo pathos su figure diverse, in modo che non capiti che una figura anneghi nel controtransfert. Se il paziente ha una sofferenza di 100, per dir così, se di fronte si trova due operatori sanitari, quelli assorbiranno 50 e 50, e quindi ecco che la difesa professionale di non essere soli è geniale: è come i Carabinieri, che vanno sempre in due! Chiamali scemi [risate]… Invece il sistema è ottimo… La raccomandazione che noi facciamo ai nostri corsi di Psico-Oncologia a tutti gli operatori sanitari, lo slogan, è: “MAI SOLI”, cioè la Psico-Oncologia è talmente patetica, cioè che suscita pathos, angosciante, che uno non ci può andare da solo, perché già se tu ci vai in due ecco che… fifty-fifty l’angoscia si divide e quindi diventa tutto più sopportabile.

Ma adesso sentiamo la sua vignetta…

Studente 5: Stavo nello stesso reparto (si riferisce al reparto della collega precedente), stavo accettando un paziente e guardandolo ho riconosciuto in lui… ho visto in lui mio zio. Mio zio è un forte fumatore, fortissimo, più di 40 sigarette al giorno e praticamente non so come, ho chiesto al paziente se fumasse… e lui mi ha detto: “Perché ci conosciamo?” E io ho risposto: “No niente, mi sono sbagliato”…

Dott. Nesci: e il paziente che ti ha detto?

Studente 5: Ci conosciamo?

Dott. Nesci: Che tono aveva, secondo te, il paziente, quando ha pronunciato quel: “ci conosciamo?”

Studente 5: tipo… “ma che vuoi!”

Dott. Nesci: a ecco… non era positivo… il transfert era negativo. A voi cosa evoca questa vignetta… che vi fa venire in mente la sua vignetta? A te che viene in mente?

Studentessa 6: boh non so… poteva rispondere in maniera positiva, cioè doveva apprezzare e non disprezzare.

Dott. Nesci: certo… però è andata così… queste osservazioni mi danno un pretesto per raccontarvi una storiella… La volete sentire la storiella?

Studenti: [in coro] Siiiiiiiiiii!!!!!

Dott. Nesci: a me piace tanto raccontare le storielle… Allora… C’erano una volta tanti porcospini e questi porcospini stavano in un paese freddo, quello dei controtransfert negativi [risate]. Allora faceva tanto freddo e per riscaldarsi si mettevano vicini, vicini, vicini; però avevano gli aculei, quindi quando si mettevano tutti vicini, comunque si pungevano, e allora sentivano dolore e a quel punto si allontanavano per evitare di pungersi; però, allontanandosi, dopo un po’ sentivano nuovamente freddo e quindi si riavvicinavano, ma riavvicinandosi si ripungevano e allora si riallontanavano di nuovo… e a furia di fare questo movimento, avvicinamento e allontanamento, ad un certo punto trovavano una distanza ottimale che consentiva loro di riscaldarsi senza pungersi.

Noi molto spesso ci troviamo in questa situazione nella relazione con il paziente, bisogna invece trovare una distanza ottimale che consente di riscaldarsi senza pungersi. Chiamiamo questa distanza, distanza terapeutica. La distanza terapeutica è quella che consente la relazione di cura in modo ottimale, perché paradossalmente una distanza troppo ravvicinata può pungere, che è quello che diceva lei. Spesso i pazienti sono spaventati dall’eccesso di intimità, non è vero che sono contenti quando noi subito ci accostiamo a loro, si possono spaventare e quindi…

Studentessa 6: anche perché loro si sentono anche privati dei loro luoghi familiari…

Dott. Nesci: certo… anche perché il paziente nel momento in cui entra in ospedale, di fatto, vive una situazione in cui ha perso tutta una serie di difese tra sé e il mondo esterno e quindi si trova molto esposto a questa angoscia che l’istituzione entri nella sua intimità in modo doloroso (Nesci e Poliseno, 1997). Il paziente ha paura delle iniezioni, della visita, del farmaco che ti entra dentro, di qualunque cosa; il paziente da un lato aspetta la cura come benefica dall’altro ha l’angoscia che invece possa essere origine di un danno, e quindi ha paura. E allora questo modo professionale, paziente, di trovare la distanza terapeutica in una relazione, è molto importante. Nello stesso tempo però il transfert è anche uno strumento diagnostico, cioè, mi spiego, nel momento in cui lui ha sentito questa reazione transferale negativa del paziente, evidentemente avrà anche pensato: attenzione, allarme rosso, questo è un paziente che comunque c’ha delle angosce persecutorie e quindi va trattato come si dice, con le molle, con le pinze; bisogna sapere che lui ha un transfert, cioè lui si aspetta che l’altro sia un intruso che gli fa del male, non si aspetta che l’altro sia il nipote che gli fa del bene, ma che sia un intruso che gli fa del male, e quindi fammi avvertire tutti i colleghi: “Attenzione, il numero 7 è molto spaventato e quindi vi avverto che con me ha reagito così, gli ho chiesto se per caso fumava e mi ha detto ‘ma perché ci conosciamo?’ e aveva l’aria anche un po’ seccata!”

COFFEE-BREAK

Dott. Nesci : Proviamo a ricominciare… secondo giro di vignette cliniche…

Studentessa 5: io, prima di continuare, avevo pensato… cioè magari, non è possibile che… il paziente ha visto che io ero giovane, ha potuto identificare in me, che ne so, suo nipote che gli ha detto di smettere di fumare in passato? Cioè… viaggio con la fantasia…

Dott. Nesci: viaggia con la fantasia, bravo! Si chiamano libere associazioni… abituiamoci a viaggiare con la fantasia, con serenità, considerandolo uno strumento tecnico e non una perdita di tempo… Si… e che ti è venuto in mente, quindi?

Studentessa 5: questo appunto, che gli ho ricordato un suo familiare, magari giovane, che gli ha detto di smettere di fumare… oppure che un giovane non è identificato spesso come professionista sanitario, ma viene visto come un giovane con poco esperienza, e quindi da tenere a distanza… Queste associazioni possono essere fatte?

Dott. Nesci: come no!

Studentessa 6: invece parlando del bisogno dell’esperienza… a me è venuto in mente che magari noi studenti, appena ci approcciamo al paziente, che non l’abbiamo mai vissuta questa esperienza, io penso che da un certo punto di vista risulti normale avere comportamenti troppo distaccati o troppo familiari, perché uno non avendo esperienza impara solo dopo ad approcciarsi al paziente, però lì per lì sembra che vada bene quello che si sta facendo ma in realtà o uno è troppo presente o dall’altra parte non c’è proprio…

Dott. Nesci: Brava! Tu stai dicendo che noi siamo come i porcospini, nessuno nasce imparato, uno ha bisogno di fare esperienza per imparare, è l’unico modo. Se uno non sperimenta le infinite possibilità delle diverse distanze terapeutiche, come fa a scoprire quale sia quella adeguata? Hai perfettamente ragione, è così, è sempre così! A questo punto mi viene da ricollegarmi alla storia che ha raccontato la collega in un’altra lezione, cioè reinterpreterei la sua vignetta clinica, che magari lei ci può ri-raccontare oggi, come un momento di un percorso di un operatore sanitario, e cioè, non come un momento di arrivo. Lei ci ha raccontato una vignetta clinica, e ora ce la ri-racconterà, in cui un’infermiera brava, ma abbastanza giovane, ad un certo punto è dovuta proprio uscire, se mi ricordo bene, dalla stanza, per un controtransfert troppo intenso. Se noi consideriamo quella vignetta clinica come punto di arrivo di quella collega, è chiaro che noi ci preoccuperemo molto del fatto che è dovuta uscire dalla stanza. Se invece noi lo consideriamo come un punto di un percorso in cui tutti noi possiamo trovarci a transitare (cioè nessuno di noi nasce imparato, ma ognuno di noi fino all’ultimo giorno di professione continua ad imparare delle cose) ecco che siamo più sereni rispetto a questa uscita di scena, quindi riusciamo a lavorare con maggiore tranquillità rispetto a questo evento, consapevoli del fatto che raffiniamo di continuo la nostra capacità di individuare la distanza terapeutica in ogni singola situazione, che questa cosa non è già data e già risolta, una volta per tutte. Dunque… ce la ri-racconti?

Studentessa 7: C’era questa infermiera, in questo reparto di medicina, un’infermiera molto brava e molto giovane, che ad un certo punto mentre stava morendo una paziente oncologica, e questa paziente era in questi ultimi istanti di vita (assistita dalla figlia che le era accanto, le teneva la mano, le sussurrava…); questa infermiera nel vedere la scena (nonostante c’era bisogno di lei in quel momento nell’assistenza) si è dovuta allontanare e ha preso a fare altre cose. Quando poi ha spiegato il suo comportamento ha detto che la paziente le ricordava la madre qualche anno prima, le ricordava anche il motivo che l’ha spinta a iniziare, a intraprendere questo percorso di laurea in infermieristica… Le ricordava tanto la madre, quel momento che lei aveva vissuto da figlia che teneva la mano della mamma che stava morendo di una patologia simile… Così insomma si è trovata dall’altra parte…

Dott. Nesci: spiega meglio come questa persona ha raccontato il suo vissuto... Lo ha raccontato ad un gruppettino di colleghe? Solo a te? Come è stato? Raccontaci meglio…

Studentessa 7: mm… praticamente l’ha raccontato a me, ma penso che gli altri già lo sapessero perché magari erano già entrati in confidenza con lei… Io non lo sapevo e mi sono trovata spiazzata; lei ha visto che io ho avuto una reazione un po’ interrogativa perché mi ha lasciata sola (nella stanza) e visto che io, tra virgolette, ero “affidata a lei” mi sono trovata un po’… poi magari ha visto in me… non so, magari dava spiegazioni anche per non essere interrogata… e si raccontano magari quelli che sono i vissuti: “Io ho intrapreso… perché ho visto mia mamma.”

Dott. Nesci: perché tu … quindi sei rimasta tu sulla scena clinica?

Studentessa 7: e… si…

Dott. Nesci: e quindi che hai fatto? Che hai dovuto fare, diciamo al posto di questa infermiera…

Studentessa 7: in realtà nulla, perché nell’essere una studentessa del secondo anno, all’inizio del secondo anno del tirocinio, le mie competenze erano comunque limitate… e quindi ho dovuto assistere la figlia (di questa signora che stava morendo) che ha avuto un esaurimento nervoso, e quindi l’abbiamo dovuta portare un attimo via, calmarla, darle delle gocce perché comunque anche se la mamma in quel momento aveva perso la coscienza, la figlia si stava lasciando andare! Comunque sia, il clima della figlia, non che non fosse adeguato, perché comunque ognuno risponde al dolore in modo diverso, però non era neanche consono, non so come spiegarlo… era troppo, nel senso che faceva più del male a se stessa, rischiava comunque di… non so, le urla, il buttarsi a terra, non era sicuro… e quindi l’abbiamo dovuta calmare. Ed io mi sono trovata un po’… era la prima volta che vedevo morire una paziente. Tra l’altro non ho visto neanche come è finita perché è stata una morte abbastanza lunga… e sono andata via, il mio turno in reparto era finito e sono andata via, però mi sono sentita un po’ sola… Non me la sono mai presa con lei comunque…

Dott. Nesci: e che cosa hai fatto quindi?

Studentessa 7: ho fatto non tanto quello che doveva fare lei… comunque ho chiesto a qualcuno se c’era bisogno di me e poi sono andata a cercare lei perché la mia referente era lei…

Dott. Nesci: sulla scena che avete fatto? avete accompagnato la figlia fuori dalla stanza?

Studentessa 7: un momentino per calmarsi, si!

Dott. Nesci: e le avete dato le gocce?

Studentessa 7: si… e poi l’abbiamo riaccompagnata…

Dott. Nesci: (parlando contemporaneamente all’allieva) e poi l’avete riaccompagnata?

Studentessa 7: si poi l’abbiamo riaccompagnata dentro.

Dott. Nesci: anche se poi tu sei andata via… non sai effettivamente dopo che veramente è morta la mamma, come è andata a finire la storia…

Studentessa 7: no… ho saputo che la figlia l’ha accompagnata fino all’ultimo sussurrandole… perché io l’ho lasciata che le stava parlando… sussurrandole qualcosa tipo: “mamma ti voglio bene”… molto commovente ovviamente. Le teneva la mano, c’era anche il marito di questa signora e qualche parente e penso se ne siano andati così, con questa signora che si è abbandonata piano piano e la figlia …

Dott. Nesci: quindi dopo questo momento di pathos, la figlia è riuscita invece a …

Studentessa 7: si… si è avvicinata con più calma, credo però che dentro di lei si stessero smuovendo delle emozioni molto, molto forti.

Dott. Nesci: chi ti ha aiutato? chi si è coinvolto in questa…

Studentessa 7: beh c’era un altro infermiere, un medico…

Dott. Nesci: quindi eravate più persone, mai da soli… torniamo al discorso di prima…

Studentessa 7: avrei comunque chiamato qualcuno…

Dott. Nesci: bravissima… certo, certo!

Studentessa 7: non sarebbe stato sostenibile, anche solo portare via la figlia, è difficile, anche per una sola questione di forza fisica...

Dott. Nesci: questo è anche molto interessante: il fenomeno di transfert e controtransfert può metterci fuori gioco, ci può spiazzare, nel senso che quest’infermiera brava, lì per lì, in quei momenti, avendo rivissuto, trasferito su quella scena, qualcosa che ha vissuto lei, può non aver retto emotivamente e quindi essersi dovuta allontanare. Ma è molto interessante ed è prezioso che questa infermiera abbia voluto poi parlare con la collega più giovane spiegandole che cosa le era accaduto. Anche questo è essere una brava infermiera, cioè un’infermiera capace di insight, cioè di quella cosa che vi dicevo altre volte: se uno ha la capacità di insight, cioè si guarda dentro e riconosce il significato profondo psicologico di quello che gli capita sulla scena clinica, è un fatto fondamentale perché questo poi gli consente di ritornare sulla scena clinica, rielaborarla, ripensarla, interessantemente, insieme a qualcun altro. Vedete di nuovo, non da soli… parlando con altri colleghi (compresa lei che aveva assistito alla sua uscita di scena) e, piano piano, così, crescendo professionalmente. Io posso con facilità immaginare che in futuro questa collega potrebbe invece essere capace di rimanere anche sulla scena, avendo già fatto l’esperienza di uscire di scena, ma anche l’esperienza di rielaborare con dei colleghi la sua uscita di scena, avendola ricollegata alla sua motivazione professionale e quindi avendo fatto un lavoro psicologico che consente appunto poi di progredire.

Non bisogna avere paura di quello che ci capita spontaneamente di fare, è normale che ci capiti di fare delle cose non ottimali, e non ci dobbiamo dispiacere se ci capita, è normale. Dobbiamo però utilizzare tutte queste occasioni, un’emozione forte che agiamo in un modo che non ci piace (mentre avremmo voluto fare di meglio e di più…) Invece di dispiacerci, arrabbiarci, rifiutare l’accaduto, bisogna utilizzare queste occasioni per guardarci meglio dentro di noi, imparando a conoscere meglio il nostro controtransfert, le emozioni che proviamo… e a quel punto, quindi, essere più a nostro agio, non turbati, non più spaesati, sulla scena clinica futura. È paradossale, ma è solo se riconosciamo situazioni in cui siamo stati inadeguati che possiamo poi effettivamente cercare di crescere professionalmente; mentre se le disconosciamo, facendo finta che non è mai successo, oppure che è successo senza nessun motivo, quella diventa l’occasione per perdere professionalità.

Ogni volta che noi disconosciamo il nostro transfert di operatori sui pazienti o il nostro controtransfert rispetto al transfert dei pazienti, noi ci scindiamo e perdiamo un pezzo del nostro Io professionale, noi perdiamo professionalità… mentre ogni volta che noi riconosciamo che c’è stata una scissione e siamo scappati via, quella diventa l’occasione per integrare il nostro Io e lasciare la difesa del disconoscimento e quindi crescere professionalmente, che è la cosa più bella che ci può succedere, che ci appassiona positivamente e che ci fa continuare a fare questo lavoro, perché diventa un lavoro in cui noi continuiamo a conoscere noi stessi e gli altri e che ci piace. Mi fermo, c’è spazio sicuramente per qualche altra vignetta clinica…

Studente 8: Praticamente ero al primo anno e preso dalla voglia di fare qualcosa dedicavo molto tempo ai pazienti… e c’era una signora che era contenta di questo, e stava sempre a letto, e la mattina si faceva mettere sulla carrozzina in modo che appena arrivavo l’avrei portata a fare un giro… cioè si è creato un buon rapporto di fiducia fino a quando, praticamente, la signora un giorno mi ha detto che le ricordavo il suo defunto marito [risate]… quindi non è stato piacevolissimo… Io che gli dedicavo molto tempo invece di andare da qualcun altro… dopo che mi ha detto così, mi sono sentito, cioè, tipo a disagio… e quindi cercavo di evitare il più possibile la situazione perché comunque io lo facevo… cioè pensavo di far bene…

Dott. Nesci: facci capire meglio l’emozione che hai provato quando la paziente ti ha detto questa cosa …

Studente 8: ho temuto in qualche modo di… cioè di farle del male in un certo senso… quindi è anche per questo che mi sentivo… cioè alla fine scappavo pure dalla situazione, mi sentivo a disagio…

Dott. Nesci: voi che ne pensate di questa cosa che ci ha raccontato il collega? Che vi viene in mente?

Studentessa 9: è un po’ comica e un po’ imbarazzante… la signora vedeva di nuovo il marito e invece lui scappava… [risate]

Studentessa 10: magari lui non si è allontanato tanto per il fatto che la signora lo ha identificato con il marito, ma perché era defunto…

Dott. Nesci: ma perché?

Studentessa 10: secondo me si è sentito lui in imbarazzo perché già quando ti identificano con una persona così intima, un po’ di imbarazzo si prova, è capitato pure a me…

Dott. Nesci: cioè?

Studentessa 10: è la stessa storia… che un paziente mi identificasse con la moglie, però lì per lì, mamma mia con una persona così intima, come fai a identificarmi con tua moglie? Però ho capito, sempre facendo tirocinio, non è che mi sono allontanata dal paziente, anzi avevo anche instaurato un buon rapporto di fiducia e mi dispiaceva pure, però magari ho cercato di capire perché gli ricordassi la moglie, gliel’ho chiesto proprio no? Perché hai modi gentili… poi il viso… hai i tratti del viso che sono identici… e magari pensa chissà quante cose… però alla fine non è niente, sono banalità…

Dott. Nesci: altre associazioni vi vengono in mente?

Studentessa 11: secondo me anche un po’ di delusione, magari pensare di essere stato disponibile…

Dott. Nesci: hai sentito? Lei dice potresti aver provato anche una delusione perché speravi di essere apprezzato per la tua bravura e per la tua professionalità e invece lei ha notato solo una somiglianza con il marito morto, come il discorso che faceva lei, un’aspettativa di un tipo e invece viene fuori una risposta da parte del paziente di un altro tipo… Vi vengono in mente altre idee?

Studentessa 7: (Mi viene in mente che) il transfert si è mutato… Probabilmente prima, nel non essere cosciente che la signora avesse questo pensiero, lui rispondeva a un transfert, comunque positivo, e invece, una volta diventato cosciente del transfert, il transfert si è mutato e quindi per lui ha assunto una connotazione negativa… quindi (mi viene in mente) come questo (il transfert) sia mutabile quando si diventa consapevoli… perché se è una cosa inconscia lui inconsciamente subiva il fascino della signora, e… ne seguiva un comportamento positivo… e invece nel momento in cui ha avuto la consapevolezza e lo ha interiorizzato in sé, questa cosa lo ha portato ad allontanarsi; può mutare quindi il transfert nel momento in cui da una cosa inconscia diventa una cosa che viene esposta agli altri. Nel caso della mia infermiera è diventato utile per lei, perché nel parlare ho capito, le sono potuta stare accanto, ho compreso quello che è stato il suo allontanamento e lei è potuta crescere in quella situazione. In questo caso abbiamo la vicenda contraria: lui si è spaventato… ne ha tratto una esperienza negativa di allontanamento.

Dott. Nesci: certo… ma cerchiamo adesso di aiutare il nostro collega a capire per quali dinamiche inconsce questo transfert e controtransfert positivo, nel momento in cui è stato svelato, può essersi trasformato in un controtransfert negativo. A lei è già venuta in mente un’idea carina [rivolgendosi alla Studentessa 10] perché lei ha detto “per me non è tanto la questione del marito, secondo me lui si è sentito male perché nel transfert della paziente lui era uno morto, che non è una cosa bellissima”. Quando tu ti prendi un transfert di un oggetto morto… la paura della morte ce l’abbiamo tutti… tocchiamo ferro… voglio dire, andiamo via… meno ci sto…

Studente 8: cioè… io mi sentivo a disagio perché la paziente la vedevo in modo diverso e quindi mi sentivo a disagio per quello…

Studentessa 11: anche a me è capitato.

Dott. Nesci: Molto interessante… Queste sono cose molto profonde che state tirando fuori, proverò a dirle in un altro modo… vado a ruota libera. Dunque… in effetti quando c’è un transfert il paziente ci vede, ci travisa… come diceva l’altra collega… cioè ci vede come se noi fossimo un’altra persona. Allora ha ragione l’ultimo collega [rivolgendosi allo Studente 8] che ha notato che siccome non è vero che noi siamo la persona che il paziente vede nel transfert, noi possiamo avere inconsciamente la paura di deludere per il solo fatto che non siamo quella persona che la paziente si aspetta che siamo. E’ come un gioco di equilibrismo, quello in cui noi veniamo messi nella situazione clinica, cioè paradossalmente nello stesso tempo il paziente ci assegna un ruolo e un’identità nel transfert: a lui lo faceva diventare figlio, a lei moglie, a lui marito defunto! Posso aggiungere, pure anziano… Perché il transfert è così, è formidabile, è un meccanismo inconscio potentissimo, perché tu puoi essere pure giovanissimo e nel transfert diventi uno di 80 anni, è così… [voci sovrapposte di studenti]

Ecco, lei dice, “ma non può essere che magari le ricordavi il marito da giovane?” Quindi lei aggiunge, con questa osservazione, un’altra cosa interessantissima, che dice che il transfert è atemporale, come tutti i fenomeni inconsci, per cui uno non solo può trasferire un’immagine del tempo presente ma uno può trasferire un’immagine del tempo storico passato, per cui uno può trasferire l’immagine del marito da giovane, l’immagine da fidanzati… e noi non lo sappiamo che cosa esattamente il transfert in realtà sta facendo. Noi non lo sappiamo, cerchiamo di dedurlo; il transfert è veramente libero, è veramente inconscio e viaggia da sé, va da sé.

Ma questo elemento della delusione che il paziente può provare (ma anche l’operatore sanitario) se l’altro non è l’oggetto del transfert ma è un sostituto, un surrogato, un rimpiazzo… merita di essere sottolineato. Vi dicevo, noi giochiamo ad un gioco molto da equilibristi perché da un lato incarniamo un oggetto transferale, dall’altro lato dobbiamo invece essere noi stessi, noi stessi sia come operatori sanitari, con il nostro Io professionale, sia noi stessi come persone. Il modo in cui noi riusciamo ad integrare tutti questi aspetti è molto complesso ed è un ingrediente fondamentale della professionalità. Mi spiego ancora meglio: noi non possiamo criticare in modo totale l’investimento transferale del paziente, stiamo parlando del transfert positivo non di quello negativo (quindi non è il paziente che dice “non ti voglio vedere” e ci identifica con l’oggetto negativo). Qui stiamo parlando del caso opposto: marito, moglie, figlio, tutti investimenti positivi. Ma comunque abbiamo un problema anche con l’investimento positivo… perché se noi facciamo un rifiuto dell’investimento positivo transferale che fa il paziente, il paziente ci resta male. Non possiamo fare come fa il paziente che dice “Ci conosciamo?” No, un operatore sanitario non si muove così. L’operatore sanitario interpreta il transfert del paziente come parte del suo pathos, quindi ha rispetto del movimento transferale, anche se può essere grottesco, come nel caso della vecchietta che ti dice che sei il marito morto. Non puoi avere un rifiuto violento per questo; lui infatti si è posto il problema di come fare a defilarsi senza danni, senza fare danni alla paziente, era quella la sua preoccupazione, cioè: che faccio? Come mi muovo? Perché non posso neanche rifiutare questo transfert positivo in un modo totale, così come non posso neanche colludere con questo transfert in modo totale… e quindi tutti i giorni vado lì esattamente come prima e faccio finta che veramente sono il marito… “Che faccio? Dove mi colloco? Come mi gestisco questa cosa nel momento in cui la riconosco come movimento transferale della paziente?”

Di nuovo, come vedete, non abbiamo la risposta precotta. L’unica risposta seria ci viene dal metodo. Caso per caso, è importante che noi:

  1. analizziamo il transfert e il controtransfert (nostro e del paziente) e quindi cerchiamo di capire tutte le emozioni che abbiamo provato in seguito a queste dinamiche inconsce. Ad esempio: è il defunto il problema? Ho un’angoscia di morte? Oppure, è il marito il problema? Ho un’angoscia di trasgressione incestuosa? (perché una trasgressione sessuale con il paziente è comunque una trasgressione incestuosa, come fare l’amore con un parente o un familiare…).

  2. Esploriamo ed elaboriamo queste dinamiche inconsce cercando di condividere la situazione clinica, perché ci possono venire in mente più idee grazie ai colleghi che, ovviamente, anche loro si sono trovati in situazioni simili: transfert negativo e positivo, controtransfert negativo e positivo... Più situazioni riusciamo ad elaborare insieme vedendone le varie sfaccettature e più nel tempo troviamo le soluzioni, il modo giusto di collocarci sulla scena clinica.

Studentessa 9: Posso fare una domanda? Quando noi parliamo con un collega che ha avuto un transfert da parte del paziente, sia esso positivo o negativo, ma diciamo che il più delle volte è negativo, il collega ci trasmette a noi questo transfert e vediamo il nostro paziente con un occhio diverso rispetto alla realtà?

Dott. Nesci: eh si, volente o nolente ci capita… però, ecco, il paradosso è questo: se noi sappiamo che ci capita, questa cosa siamo più attrezzati ad analizzarla, per cui da un lato ci capita ma dall’altro, sapendo che ci capita, stiamo più attenti a vedere quando e come ci capita e quindi a lavorarci. Questa è l’attitudine mentale in cui dobbiamo entrare: non avere paura di quello che ci capita, dare per scontato che ci capita e quando ci capita lavorarci, possibilmente anche chiedendo un feedback agli altri colleghi che sono nel nostro ambiente e di cui abbiamo stima. Oppure l’altro sistema, che io suggerisco sempre perché è più semplice, è quello di andare in uno spazio terzo, neutrale, dove invece ci sono colleghi sconosciuti e dove paradossalmente, come avviene quando si viaggia in un treno, è più facile aprirsi.

I corsi di Psico-Oncologia che noi facciamo all’Università Cattolica, ad esempio, sono del gruppi esperienziali, di tipo Balint, in cui si elaborano le emozioni accumulate nel rapporto con i pazienti, proprio grazie al fatto che i partecipanti sono operatori sanitari di ogni parte d’Italia e quindi che affrontano ogni volta un viaggio per condividere storie e scene cliniche realmente vissute nella pratica professionale (Nesci, Poliseno, 2001). Dico questo per farvi capire che la pratica di fare corsi ed eventi formativi ECM nel proprio ambiente di lavoro, come si fa oggi per ridurre i costi, è del tutto controproducente da un punto di vista psicologico… Ma questa è un’altra storia, e ne parleremo un’altra volta.


Bibliografia

Freud S. (1905) Tre saggi sulla teoria sessuale. In “Opere” vol. V, Boringhieri, Torino.

Freud S. (1909) Cinque conferenze sulla psicoanalisi. In “Opere” vol. VI, Boringhieri, Torino.

Nesci D.A., Ferro F.M. (1984) Riflessioni etnopsicoanalitiche su un’esperienza di gruppo con donne in amenorrea psicogena. In “Il trauma della nascita, la nascita del trauma”, IES Mercury, Roma, pp. 277-281.

Nesci D.A., Poliseno T.A. (1997) “Metamorfosi e cancro. Studi di Psico-Oncologia.” Società Editrice Universo, Roma.

Nesci D.A., Poliseno T.A. (2001) “Gruppi di tipo Balint nella formazione psico-oncologica dell’équipe integrata”. Atti del VI Convegno Nazionale SIPO, Società Cooperativa Tipografica Padova, pp. 53-55.

Racker H. (1968) “Studi sulla tecnica psicoanalitica. Transfert e controtransfert.” Armando Editore, Roma, 1970.



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