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Dipartimento di Salute Mentale
S.O.C. Psicologia Clinica e della Salute



Appunti sulla psicoterapia psicoanalitica relazionale dell'adolescente tossicodipendente

Cesare Albasi
Ricercatore in Psicologia Clinica, docente di Psicoterapia, Facoltà di Psicologia, Università degli Studi di Torino. Già psicologo e psicoterapeuta presso il CAD


In questo contributo vorremmo discutere alcuni aspetti del processo che si attiva durante un trattamento psicoterapeutico, a orientamento psicoanalitico, di adolescenti che presentano gravi problemi di abuso e dipendenza da sostanze psicoattive.
Sono necessarie, innanzitutto, alcune precisazioni. Trattare questo argomento significa trovarsi al punto di convergenza di alcuni temi che non trovano, al momento, intepretazioni unanimi: la psicoterapia psicoanalitica dell'adolescente, la psicopatologia legata all'abuso di sostanze, la psicoterapia con chi abusa di sostanze. L'obiettivo di questo lavoro è quello di riflettere su alcune dimensioni teoriche d'interesse per i tre ambiti di riflessione suddetti.
"Psicoterapia psicoanalitica" è una categoria utilizzata per descrivere una vasta gamma di approcci che variano per scopi, durata, obiettivi. Questo approccio ipotizza un rapporto dinamico tra le esperienze evolutive dell'individuo e il suo adattamento attuale, da comprendere durante il trattamento. I temi concernenti "la costruzione e la rottura dei legami affettivi" (Bowlby, 1979) sono al centro del lavoro terapeutico che implica una relazione interpersonale intima, una importante disponibilità emotiva del terapeuta e tempo (Slade, 1999, p. 669). In questo capitolo non ci sarà spazio che per trattare solo alcuni aspetti concettuali del processo della psicoterapia e quindi molti temi, tra cui quelli dell'invio, della conclusione della terapia e della gestione dei familiari, saranno necessariamente tralasciati.
La psicoterapia con gli adolescenti può non risultare il trattamento di elezione e va proposta in seguito ad un'attenta valutazione. È importante comprendere lo specifico momento esistenziale che egli sta vivendo, la domanda di aiuto non consapevole portata (che può essere celata dalla confusione, dai sensi d'inferiorità, d'indegnità, di rabbia e di rancore, e dalla manipolazione messa in atto), il livello di funzionamento interpersonale prevalente (più o meno differenziato), le potenzialità e le risorse che la sua storia e le qualità delle sue figure di attaccamento permettono di ipotizzare, i processi integrativi e di mentalizzazione individuabili nel suo presentare se stesso e le proprie relazioni interpersonali. Va valutato anche il significato del sintomo (legato alla sostanza) all'interno del sistema di relazioni familiari. In sintesi, è necessaria un'attenta conoscenza del paziente, ottenuta attraverso i necessari colloqui, prima d'istruire un setting propriamente psicoterapeutico. In questo contributo ci occuperemo di aspetti del processo terapeutico che presuppongono la decisione di avviare una psicoterapia e non delle indicazioni o controindicazioni ad essa.
L'abuso di sostanze stupefacenti è un problema psicopatologico complesso e sovradeterminato, ma gli autori ad orientamento psicoanalitico concordano rispetto alla sua funzione di regolazione dell'affettività e di mantenimento dell'autostima (Morgenstern, Leeds, 1993). Khantzian (1986) sottolinea la funzione di automedicazione del comportamento tossicomane rispetto ad affetti intollerabili (come rabbia e angoscia). Director (2002) mostra come l'uso di sostanze, e i gesti ad esso annessi, afferrano l'individuo e possono tenerlo dipendente in quanto catturano dinamiche profonde, frutto degli aspetti irrisolti della sua matrice relazionale primaria (Mitchell, 1988). L'uso di sostanze rimpiazza le falle della matrice relazionale, ricrea particolari legami o conflitti.
Nella prospettiva psicoanalitica contemporanea viene messo in luce come l'adolescente che abusa di sostanze abbia un deficit nella capacità di rappresentare mentalmente i propri stati di sofferenza, nel capire il significato delle proprie emozioni, nel mentalizzare i propri bisogni, nel progettare modalità di prendersi cura di se stesso. Wurmser (1978) chiama questo deficit iposimbolizzazione, legata alla paura per il proprio mondo interno, o psychophobia. L'uscita dalle tossicomanie inizia con l'emergere di un funzionamento mentale più articolato e con il diminuire degli agiti. Scarnecchia parla dell'uscita dalla "prigione della concretezza" (1999, p. 96). Kainer afferma che esso "dipende dalla capacità dell'individuo di essere attento a prendersi cura di se stesso" (1999, p. 112).
Nelle pagine che seguono ci occuperemo della mentalizzazione e del problema dell'agire.


Processi dissociativi, disorganizzazione dei Modelli Operativi Interni e deficit di mentalizzazione

Lo sviluppo della regolazione degli affetti avviene nelle relazioni con le figure di attaccamento e s'interiorizza in Modelli Operativi Interni. Il fallimento delle figure di attaccamento comporta il formarsi di Modelli Operativi Interni che contengono abbozzi di aspettative deluse e di accessi affettivi privi di possibilità di regolazione e significazione. Questi Modelli Operativi Interni deficitari creano scompenso e vengono dissociati disorganizzando il sistema di attaccamento; il deficit nella funzione di mentalizzazione, o funzione riflessiva, è associato a questa disorganizzazione (Fonagy, Target, 2001; Albasi, 2003a; 2003b; Albasi et all. 2002; cfr. anche Flores, 2001, 2002). Il contatto con l'affettività di questi pazienti passa attraverso la rivitalizzazione, dolorosa, dei Modelli Operativi Interni dissociati, che portano i segni delle mortificazioni subite dal paziente ma che sono il tramite obbligato per riattivare la speranza di incontro con figure di attaccamento più sicure che ne permettano lo sviluppo. In questi Modelli Operativi Interni risiede la potenziale modalità specifica (personale e unica) di vivere una relazione intima e fiduciosa; in essi sta la radice della creatività individuale, il gesto spontaneo che chiedeva quel riconoscimento mancato (Benjamin, 1995; Borgogno, 1999; Sander, 1995; Winnicott, 1971); ma, naturalmente, stanno anche, intrecciate con esse in un bozzolo primitivo, tutta la paura per l'intimità e la vicinanza umana, la rabbia inespressa, la confusione massiva, che, al momento in cui il terapeuta conosce l'adolescente, le sue difese psichiche non sono in grado di contenere senza le "stampelle chimiche" offerte dalle sostanze.
Il problema, per questo adolescente, non è solo la strategia di regolazione degli affetti escogitata (più o meno irrigidita e difensiva sul piano degli stili di attaccamento e più o meno variopinta sul piano "chimico"), ma anche la disorganizzazione profonda della sua capacità di mettersi in contatto con gli altri (il suo attaccamento disorganizzato) (Albasi, 2003b)(1).
Lo strumento psicoterapeutico ha l'obiettivo di aiutare l'adolescente a trovare modi più sani di incontrare i suoi bisogni e di regolare i suoi affetti. La psicoterapia può agevolare lo sviluppo della sua soggettività e portarlo ad essere protagonista attivo della sua esistenza nella realtà intersoggettivamente condivisa.


Considerazioni introduttive sull'inizio del rapporto psicoterapeutico.

Intendiamo la psicoterapia psicoanalitica come un'attività congiunta tra paziente e terapeuta che si svolge nell'ambito della soggettività. L'obiettivo del lavoro, gli strumenti e il suo campo sono la soggettività del paziente e del terapeuta coinvolti nello sforzo di capire le sfumature dei significati, delle paure e delle speranze in gioco nella vita del tossicomane, assolutamente personali e irrimediabilmente soggettivi (Renik, 1993).
Da questo punto di vista non è possibile formulare un prontuario definitivo di regole da applicare ad una classe di pazienti definiti sulla base di ciò che li accomuna (il quadro sintomatologico, per l'appunto). La psicoterapia è all'inseguimento dell'unicità soggettiva, e ogni trattamento è una storia specifica a sé stante.
Il compito dello psicoterapeuta non consiste soltanto nel riconoscere quanto la condotta tossicomanica (i sintomi) sia dannosa per il paziente, ma nel cogliere il dolore insopportabile che sta dietro ad essa (Ehrenberg, 2003) e che l'adolescente disconosce, attraverso processi dissociativi (Albasi et all., 2002), nell'impossibilità di sperimentarlo attraverso una rappresentazione mentalizzabile(2). Come sostiene Ferenczi nelle sue ultime osservazioni (1920-32), il terapeuta non deve solo ascoltare le parole del paziente ma cercare di cogliere il Sé dissociato che si sta relazionando con lui in quel momento, la parte del Sé nascosta che cerca incessantemente di farsi "sentire" (cfr. anche Bromberg, 1998). Le difficoltà del lavoro psicoterapeutico ruotano attorno alle difficoltà ad entrare in rapporto con affetti che anche al paziente risultano estranei(3), e al comprendere insieme a lui le ragioni per le quali egli ha trovato questi suoi specifici modi (che si appoggiano all'uso di sostanze) per fronteggiarli e regolarli.
Il terapeuta che si occupa del sintomo senza volgersi al suo significato comunicativo replica le modalità messe in atto dal paziente e dal suo stesso ambiente familiare: disconosce il senso intimo e delicato dell'esperienza soggettiva, e si orienta a curare (ma nel senso di elidere) quelle che sono manifestazioni esterne dell'impossibilità di stare in contatto con se stessi. Lo psicoterapeuta deve comunicare il riconoscimento della persona che soffre, non solo l'attenzione per i comportamenti distruttivi che gli creano sofferenza(4). Bisogna stimolare la curiosità del paziente per se stesso, servendosi del buon senso ed evitando i rischi dell'esibizionismo invadente da una parte e della scialba banalità dall'altra, attestando, con discrezione e dignità, che "incontrare una persona vuole dire provare emozioni". Il fatto stesso che l'adolescente si presenti alla seduta psicoterapeutica va valorizzato come qualcosa che può essere sottratto dalla sua ordinaria quotidianità, scandita dai modi e dai tempi dell'assunzione delle sue sostanze preferite. Bisogna vivere buoni momenti insieme. Quel che si riesce a costruire durante le sedute può rimanere, nella mente del paziente, come memoria di qualcosa di diverso e autentico nello scambio emotivo con qualcuno. Le sedute costituiscono il tempo e lo spazio messo a sua disposizione affinché egli possa sperimentare il significato di vivere una relazione che diventa importante.
Il contratto terapeutico, il setting, l'alleanza di lavoro sono tutte dimensioni del trattamento costantemente al centro dell'attenzione. Se nel lavoro con pazienti dall'Io ben funzionante (e dalla funzione riflessiva evoluta) questi elementi costituiscono la cornice del trattamento condivisa e definita con chiarezza costituendo lo sfondo del lavoro, con gli adolescenti che abusano di sostanze vengono continuamente "rimessi in discussione" come figura, anche dalla tendenza all'acting di questi pazienti e dalle loro scarse capacità simboliche.
Per quanto riguarda il contratto psicoterapeutico rispetto alle sostanze, esso non chiede al paziente di essere sempre astinente e sobrio ma ha l'obiettivo di riflettere e di intraprendere un percorso di comprensione di cosa avviene nel suo mondo interno quando abusa di sostanze. Importante non è avere delle precoci spiegazioni più o meno razionalizzate ma è attivare un orizzonte nel quale le cose non capitano a caso o per impulsi incomprensibili. La relazione che sostiene questo processo di contenimento e di ricerca (l'atteggiamento "riflessivo" del terapeuta) è il tessuto del cambiamento, quello che rimane al paziente per indossare nuove vesti per sé(5).


Il setting psicoterapeutico all'interno dell'istituzione

Nel caso in cui la psicoterapia abbia luogo all'interno di un'istituzione curante, il significato dei confini del setting psicoterapeutico all'interno dell'istituzione va costruito e condiviso con il paziente, per favorire senso di fiducia e intimità. Con alcuni pazienti è molto importante comunicare e discutere i contatti tra lo psicoterapeuta e gli altri componenti dell'équipe. L'adolescente può essere positivamente colpito dal sapere che ci si riunisce per lavorare per lui e si discute della sua situazione per aiutarlo(6). La decisione di comunicargli se e come le cose che dice vengono condivise con altri sottostà ad un ragionamento clinico sul processo terapeutico in atto; il riconoscere con lui che esistono dei confini (che separano e mettono in contatto) tra la diade psicoterapeuta-paziente e il gruppo-équipe, e pensare al loro significato, permette di vivere dell'esperienza comune sulla quale riflettere favorendo la mentalizzazione degli eventi relazionali. Il paziente può sperimentare in famiglia una sorveglianza genitoriale che lo priva di un'autentica intimità; negoziare con lui le modalità di contatto tra terapeuta e resto dell'équipe può aiutare il paziente a guadagnare, innanzitutto, l'idea che si lo rispetta come persona e il senso di competenza che emerge dal poter incidere intenzionalmente (non attraverso agiti!) sulla cornice del trattamento(7).


Lavorare sui deficit di mentalizzazione.

Per potersi prendere cura di se stessi, gli adolescenti hanno innanzitutto bisogno di ricostruire le rappresentazioni della loro sofferenza, del loro benessere e i legami di questi stati con le relazioni interpersonali attuali e passate.
Il lavoro terapeutico li aiuta a sviluppare, anche attraverso l'investimento sulla fantasia, la capacità di contenere la tendenza ad agire, che rischia di spazzar via la ricerca di significati. Il paziente agisce nella sua vita senza riflettere sul senso delle sue vicende esistenziali, non sa mettere in discussione il suo punto di vista per una mancanza della capacità di giocare con la realtà, di coglierne l'aspetto simbolico e interpretativo; egli "è ipnotizzato da un'idea e incapace di sperimentarla come realtà psichica più che come realtà concreta. Il solo modo per trattare tecnicamente questo stato di cose consiste nell'accettarlo" (Fonagy, 2001, p.171). All'interno del lavoro psicoterapeutico l'interpretazione (intesa nel senso psicoanalitico) può essere vissuta come una minaccia alla sua stessa mente (è la capacità di mentalizzare che stabilisce la distinzione tra realtà interna e realtà esterna).
La funzione del terapeuta diventa quella di tenere vivi nella propria mente la fantasia, il pensiero e la ricerca delle ragioni che sostengono gli affetti messi in gioco. Egli si troverà di fronte a insulti e squalifiche, ma dovrà rimanere nella relazione con il paziente accettando e comprendendo il ruolo (Sandler, 1988) che quest'ultimo ha bisogno di assegnargli, per entrare nel processo di costruzione di una realtà condivisa. In caso contrario, il paziente rimane nuovamente con il confuso senso di dover fronteggiare in solitudine quel "qualcosa" di violento e incomprensibile che avverte in sé: e la soluzione che adotterà sarà ricorrere a qualche sostanza.
Fonagy (1999) fa notare come la psicoterapia, in tutte le sue incarnazioni, concerne il riattivarsi della mentalizzazione (o funzione riflessiva, Fonagy, Target, 2001)(8). Lo psicoterapeuta favorisce la relazione di attaccamento con il paziente, crea il contesto interpersonale nel quale il lavoro può focalizzarsi sulla comprensione approfondita degli stati mentali, tramite un processo di riconoscimento delle soggettività reciproche: il paziente sente che i suoi significati personali sono riconosciuti come qualcosa che appartiene a lui come soggetto (vitale, agente e dotato d'intenzionalità) da qualcuno (il terapeuta) che egli riconosce a sua volta come un soggetto (con le stesse proprietà) (Albasi, 2003a; Benjamin, 1995; Sander, 1995).
Attualmente molte teorie psicoanalitiche orientate in senso relazionale (Aron, 1996; Beebe, Lachmann, 2002; Bion, 1962, 1970; Bollas, 1987; Borgogno, 1999; Ferenczi, 1932a; Fairbairn, 1952; Fonagy, Target, 2001; Greenberg, Mitchell, 1983; Heimann, 1989; Hoffman, 1998; Kohut, 1977; Mitchell, 1988; Stern, 1985; Stern et all., 1998 Winnicott, 1965, 1971), servendosi di modelli proposti dall'Infant Research, concepiscono lo sviluppo della mente del paziente come un processo mediato dalla rappresentazione che il terapeuta ha di lui come soggetto intenzionale, con propri sentimenti e pensieri, sensibilità e delicate fragilità. Il paziente, per costituire il senso di un proprio Sé vitale e coeso, ha bisogno di trovare, nella mente di chi si prende cura di lui, una rappresentazione sfaccettata, articolata, della sua mente, che ne apprezzi la ricchezza di caratteristiche uniche. La mentalizzazione è acquisita facendo esperienza dei propri stati mentali come oggetto di riflessione della figura d'attaccamento (Fonagy, Target, 2001).(9)
"La capacità di mentalizzazione riguarda la capacità di vedere se stessi e le altre persone in termini di stati mentali (sentimenti, convinzioni, intenzioni e desideri) e di ragionare sui propri e gli altrui comportamenti in termini di stati mentali, attraverso un processo che viene normalmente definito riflessione" (Ammaniti, Dazzi, 1999, p. 104). Fonagy e Target, nella prospettiva evolutiva dell'attaccamento, osservano che "il riconoscimento della posizione intenzionale del bambino da parte degli altri assume quindi un ruolo cruciale nel rendere 'reale' il suo pensiero. Crediamo che l'interazione che lega le percezioni, i pensieri e le emozioni come cause e conseguenze dell'azione, e la contemplazione degli stati mentali senza avere paura, contribuiscano significativamente allo sviluppo di un senso del Sé come agente. La fondazione più precoce di questo è presumibilmente l'impressione del bambino di essere causa del comportamento di rispecchiamento del caregiver (Gergely, Watson, 1996)" (2001, p. 126). Il Sé agente è radicato in esperienze originariamente corporee, dato che il bambino, dopo la prima infanzia, comincia a sperimentare un senso di successo e competenza nel tentativo di esercitare un controllo sul proprio corpo. I traumi evolutivi possono costringere e limitare il senso del Sé agente alla dimensione corporea.(10)
La funzione riflessiva, in psicoterapia, può essere sostenuta attraverso la discussione, condivisa con il paziente, di ciò che egli fa allo psicoterapeuta e a se stesso, durante tutto il periodo della presa in carico, alla ricerca dei possibili significati dei gesti suoi e anche delle persone coinvolte nella sua vita (compresi gli eventuali componenti dell'équipe terapeutica). "L'esplorazione del significato delle azioni altrui, quindi, è connessa in modo cruciale alla capacità di etichettare e trovare significative le proprie esperienze psichiche, una capacità che suggeriamo essere alla base della regolazione degli affetti, del controllo degli impulsi, dell'automonitoraggio e dell'esperienza di self-agency" (Fonagy, Target, 2001, p. 347). Il paziente ha bisogno di imparare a osservare le proprie emozioni, di comprendere e nominare le reazioni comportamentali che seguono a determinati stati interni (per esempio i rapporti tra frustrazione, rabbia e angoscia). Lo psicoterapeuta può indirizzare l'attenzione del paziente sulle circostanze ambientali che fanno sentire confusi, non ascoltati o non pensati, incompresi dalle persone che stanno attorno. È importante, da una parte, utilizzare i momenti condivisi (Stern et all., 1998), lavorare momento per momento sugli stati mentali mostrando i cambiamenti e i legami tra pensieri, comportamenti ed affetti, e dall'altra osservare come si dipana la "lunga onda" della relazione (Borgogno, 2002), consapevoli che il paziente potrà trovare aiuto in un rapporto a lungo termine con un ambiente disponibile (Bowlby, 1979).
Il terapeuta formula ipotesi circa la sua presenza nella mente del paziente e la presenza del paziente nella propria mente. Per lavorare allo sviluppo delle funzioni di mentalizzazione, senza commentare direttamente ciò che osserva nel paziente (per non elicitare ansie paranoidi o stili di attaccamento evitanti), lo psicoterapeuta può porgere al paziente le rappresentazioni mentali che ha di lui, motivandole e articolandone i significati in forma narrativa (Aron, 1996; Borgogno, 1999).


Organizzazione degli affetti tra autoregolazione e interattività

L'interazione del paziente con un terapeuta attento agli stati mentali reciproci favorisce un processo di apertura della regolazione degli affetti alle relazioni interpersonali(11), nel contesto condiviso della terapia (nel quale le relazioni, pur essendo su un piano di realtà, sono strutturate per prendersi cura dei bisogni del paziente). Il tossicomane si serve di molteplici sostanze ad alto impatto psicotropo con lo scopo di auto-organizzare i suoi stati interni, nella fantasia di poterli controllare in modo onnipotente; il lavoro psicoterapeutico ha l'obiettivo di attivare modalità di regolazione diadica degli stati interni che coinvolgano la relazione con lo psicoterapeuta e con l'équipe curante (e, simbolicamente, con l'istituzione curante) in un bilanciamento tra autoregolazione e regolazione interattiva (cfr. Beebe, Lachmann, 2002).
Spesso le relazioni interpersonali attuali del paziente sono confinate in gruppi e ambienti legati al consumo di sostanze stupefacenti e quindi falsate da "chimica" e rituali, e dalla deficitaria capacità di afferrare la complessità e la delicatezza degli affetti interpersonali.(12)
Stimolare il paziente a riflettere sul significato e sull'importanza delle sue relazioni ha l'obiettivo di portarlo affettivamente al loro interno. Apprezzare la possibilità di esprimere i propri affetti ed utilizzarli per comprendere la propria esperienza con gli altri (Granieri, Albasi, 2003) fa gustare la "sostanza" della vita (che può anche risultare "stupefacente" di per sé quando incontrata con autenticità, in contesti non traumatizzanti), e crea spazi psichici per esperienze di vitalità che possono, sottilmente, far rivalutare l'esistenza per quel che può dare (il disprezzo della vita è un problema di fondo di questi pazienti, esso è di origine traumatica e rappresenta un paradossale tentativo di sentirsi vivi, non in balia degli oggetti interni)(13).


Acting, attualizzazione ed enactment.

Non avendo gli strumenti mentali per elaborare la presenza interna di affetti incomprensibili e sgradevoli, il paziente si trova ad agire in due modi: sia sul suo corpo(14), concretamente, tramite la sostanza psicotropa che gli sembra più opportuna, sia ricreando nelle interazioni con le persone per lui significative (come lo psicoterapeuta) le esperienze che gli permettono di attualizzare gli affetti che non può riconoscere nella sua realtà interna. Il paziente non è in grado di chiedere aiuto per la sua sofferenza con le parole, allora la esternalizza e la attualizza (Sandler, 1988) nella speranza che qualcun altro la riconosca e la nomini, offrendogli le parole per dirla e mostrandogli come sostenerla e come prendersene cura. "Attraverso la relazione interpersonale si stabilisce un'esperienza interna simile alla riflessione, normalmente intrapsichica. Non essendo capaci di sentire se stessi dall'interno, sono costretti a sperimentare il Sé dall'esterno" (Fonagy, 2001, p. 170).
La tendenza all'acting costituisce la pietra angolare del temperamento caratterologico del tossicomane (Wurmser, 1978) ed in passato era una controindicazione per la psicoterapia psicoanalitica(15).
La comunicazione sul piano simbolico, della parola, della metafora e dell'interpretazione, considerata in passato lo strumento principe della psicoterapia psicoanalitica, è molto limitata dalla ridotta funzione riflessiva di questi pazienti che cedono, invece, all'acting per esprimere un aspetto del loro soffrire; attualmente, l'orientamento relazionale in psicoanalisi e la teoria dell'attaccamento ci forniscono gli strumenti concettuali utili a valorizzare l'aspetto comunicativo dei gesti e degli atti (Borgogno, 1999; Frank, 1999; Ghent, 1995; Greenberg, 1996; Mitchell, 1997) compiuti dalla coppia terapeuta-paziente nella sua specificità.
L'azione e l'attualizzazione hanno un ruolo difensivo rispetto all'incapacità di rappresentare simbolicamente i propri affetti ma contemporaneamente possono essere lette come il veicolo per comunicare l'esperienza non simbolizzata. Le configurazioni relazionali dissociate che racchiudono questi affetti sono messe in scena nella relazione psicoterapeuta tramite processi di enactment (Bromberg, 1998; Davies, 1997; Jacobs, 1991).(16) Bromberg (1998) dice che mentre una narrazione viene "raccontata", un'altra viene "drammatizzata" (played out) tra paziente e analista intanto che il racconto va avanti.(17)
Osservando come il paziente agisce nella relazione, lo psicoterapeuta comincia a formarsi un idea del profilo di conflitti e deficit, rimozione e dissociazione, e ad ipotizzare il vicolo cieco, il "punto morto relazionale" (il groviglio di aspettative deluse e di traumi intrecciati nei suoi Modelli Operativi Interni dissociati) implicati nell'assunzione di sostanze; il punto morto va compreso e riformulato in termini di configurazioni relazionali (di transfert-controtransfert). Lo scopo dell'osservazione psicoterapeutica è di seguire e decostruire il sintomo dalla sua forma esternalizzata e concretizzata nell'abuso, alla sua forma mentale e relazionale, e rendere pensabili le comunicazioni su di sé che prima sono solo agite.
L'integrazione delle configurazioni relazionali dissociate ha due dimensioni: una contenutistica ed esperienziale, che favorisce l'obiettivo di renderle pensabili, dominio della funzione riflessiva; l'altra processuale, che si rivolge all'ampliamento della conoscenza implicita, operativa (che dà forma alle relazioni interpersonali) (Beebe, Lachmann, 2002; Stern et all., 1998), volta al raggiungimento di modalità di contatto intimo più sicure e fiduciose.(18)
È qui che i bisogni terapeutici degli adolescenti che abusano di sostanze e lo stato attuale della pratica della psicoterapia psicoanalitica convergono: nel concetto di enactment.


Dissociazione, controtransfert e drammatizzazione delle configurazioni relazionali inconsce

Se si ascolta molto intensamente qualcuno, come si fa in psicoterapia, si provano profonde emozioni che scaturiscono da processi di identificazione multipli e paralleli con le figure e i personaggi del racconto ascoltato.(19)
Gli attuali orientamenti psicoanalitici relazionali e la teoria dell'attaccamento mettono in luce che il coinvolgimento dello psicoterapeuta è inevitabile e può essere utilizzato; ciò permette di comprendere che il coinvolgimento segue dei vincoli, delle regole, e, precisamente, è organizzato dai vincoli dettati dall'incontro dei Modelli Operativi Interni dei due partecipanti. Lasciando spazio al paziente, nel rapporto con lui, ci si troverà a poter osservare "dal vivo" le configurazioni relazionali dissociate che cercano di esprimersi nel suo contatto con gli altri. I Modelli Operativi Interni sono, infatti, le nostre strutture di memoria relazionale; ma, più la storia individuale è stata traumatica, più l'idea di memoria come un magazzino intrapsichico di ricordi è inadeguata.(20) Un ricordo è padroneggiato nella mente individuale e risulta narrabile perché è stato vissuto come evento dotato di un significato intersoggettivamente riconosciuto e condiviso. Le esperienze traumatiche sono caratterizzate, invece, dall'assenza di questo riconoscimento e soccombono alla dissociazione rimanendo disorganizzate. Per loro natura, queste memorie, questi Modelli Operativi Interni, sono alla ricerca di riconoscimento intersoggettivo attraverso il riattivarsi di quello che non è un ricordo simbolico (semantico o episodico) ma un'aspettativa interrotta di incontro affettivamente significativo. Quello che il terapeuta ritroverà nell'enactment saranno i Modelli Operativi Interni dissociati che chiedono una nuova via per organizzarsi.
Nella terapia con questi adolescenti ci si trova a lavorare con processi difensivi prevalentemente strutturati non sulla repressione e sulla rimozione ma sulla dissociazione, sulla omissione (Levenson, 1996), sul diniego (Borgogno, 1999). Lo stesso stato mentale indotto da sostanze è uno stato nel quale la coscienza del significato emotivo dell'esperienza in corso è come "disinserita", sottratta: un processo dissociativo indotto(21). La soluzione di "tagliar via" la coscienza per non soffrire affonda le sue radici nelle modalità relazionali difensive proprie dell'ambiente familiare nel quale il paziente era/è immerso. L'inconscio dissociato (Davies, 1996a,b), diversamente dall'inconscio rimosso, è costituito da un insieme di processi che implicano e chiamano in gioco le altre persone per rimettere in scena (to enact) le configurazioni relazionali traumatiche, nella ricerca di soluzioni ulteriori a quelle originarie. Il paziente in terapia ripeterà con lo psicoterapeuta qualcosa che rimanda alla matrice relazionale originaria nella quale la soluzione dissociativa si è sviluppata.
Come fa notare Director (2002), gli atti legati all'assunzione di sostanze danno espressione concreta alla configurazione interna dei Modelli Operativi e la perpetuano, rappresentando sia il rafforzamento del trauma (subìto nel passato, ora autoinferto), sia un suo travestimento nella forma del tentativo di automedicazione.(22) Gli obiettivi della psicoterapia riguardano la comprensione dei Modelli Operativi Interni intrecciati nell'uso delle sostanze e che vengono drammatizzati (enacted) nella relazione con il terapeuta. Lo psicoterapeuta cerca il modo di riformulare le loro forze in termini simbolici (attraverso l'uso del linguaggio e delle metafore), osservando come esse strutturino le dinamiche di transfert e controtransfert. Elaborando queste dinamiche, anche senza interpretarle al paziente, lo psicoterapeuta cerca vie nuove per stare in contatto con lui, per trovare gesti e parole diversi che costituiscano, come Ferenczi (1920-32; 1932b) direbbe, un nuovo inizio (Balint, 1952; Borgogno, 1999; Albasi, Boschiroli, 2003; Albasi, Sechi, 2003).
Ponendo l'enactment nel cuore del lavoro terapeutico, i clinici relazionali hanno aperto la strada della psicoterapia psicoanalitica agli adolescenti che abusano di sostanze. Il concetto di enactment offre, al lavoro con questi pazienti, un modo di comprendere la comunicazione interpersonale che sembra fatto su misura per i bisogni di attualizzare l'esperienza interna dissociata. Questo livello, fatto di gesti (e dove le parole diventano azioni), è quello in cui si gioca la sfida, nella terapia con gli adolescenti, dell' "entrare nella loro vita mentale", di diventare, come psicoterapeuti, persone significative, dalle quali cominciano a pretendere qualcosa o con le quali cominciano ad arrabbiarsi autenticamente, per le quali, cioè, provano speranze e timori (Mitchell, 1993). Con questi pazienti, ancor più che con altri, è feconda la prospettiva relazionale secondo la quale "la ricchezza dell'esperienza si genera nella sottile dialettica tra interiorità ed esteriorità, distruzione e riparazione, Sé e altro" (Aron, 2002, p. 168; cfr. Mitchell, 1988, 2000).
Sullivan (1953; cfr anche Conci, 2000) ci ha invitati a considerare i Sé come qualcosa che le persone fanno insieme agli altri. Metaforicamente, la mente è sia all'interno che tra le persone, è un sistema di processi interattivi che tessono l'organizzazione dei significati dell'esperienza. Con il proseguire del rapporto terapeutico, lo psicoterapeuta giunge a sentire di essere coinvolto in questo tessuto, di essere oggetto delle intenzioni di fare qualcosa (con lui e a lui) del paziente; entra così nella sua sfera emozionale frammentata e coartata dalla dissociazione, e crea un sistema diadico (Beebe, Lachmann, 2002) con il paziente che genera processi mentali condivisi, esperienze affettive e significati "nuovi".(23)
Il terapeuta deve avere contemporaneamente elasticità mentale e assetto interno molto solido. Egli cerca, da una parte, di mantenersi saldamente ancorato alla sua identità professionale, al suo compito di pensare a quel che sta succedendo e di mantenere viva la funzione riflessiva, per trovare costantemente un senso a quello che il paziente gli sta facendo e per superare i test ai quali lo sta sottoponendo (Weiss, 1993); ma per fare autenticamente questo, egli deve, dall'altra parte, lasciarsi coinvolgere in quel che succede, farsi trascinare dall'enactment, che può essere compreso solo a posteriori, solo dopo che ci si è sentiti coinvolti in uno scambio relazionale magari forzoso e coartante per il proprio abituale Sé(24), spesso mutevole in modo repentino, a volte deludente o anche umiliante. Lo psicoterapeuta deve bagnarsi nel torrente dell'enactment per passare sulla sponda della mentalizzazione.
La comprensione degli affetti comunicati dal paziente e delle configurazioni messe in gioco si sviluppa a partire dalla riflessione sul controtransfert. L'elaborazione continua del controtransfert, grazie anche al confronto con i colleghi, sono, a questo proposito, fondamentali. Con i pazienti dall'attaccamento irrisolto, il controtransfert diventa un dato fondamentale in quanto la mente del terapeuta viene occupata dalla disorganizzata struttura del Sé del paziente (Slade, 1999). L'impotenza e la rassegnazione sono i sentimenti controtransferali più frequenti, non solo in risposta alle ricadute del paziente ma anche come ruolo risonante (Sandler, 1988) con la sua fantasia di onnipotenza inconscia. Il terapeuta rischia la sfiducia provocata dal timore che la psicoterapia non sia efficace. È importante "resistere", consapevoli che il cambiamento ha luogo a livello della relazione implicita condivisa, nella "conoscenza relazionale implicita", negli aspetti processuali dei Modelli Operativi Interni. Considerare come luogo del cambiamento questo livello, quello che regola l'interagire del paziente, dirige l'attenzione sul valore della faticosa continuità che lo psicoterapeuta offre, della disponibilità, dell'atteggiamento di riflessione e di contenimento, che saranno introiettati dal paziente come funzione dei suoi Modelli Operativi Interni.
Gli insight assumono significato se riportati in questo contesto relazionale (Stern et all., 1998). Il livello del cambiamento è quello delle funzioni e delle operazioni mentali: la funzione riflessiva, la conoscenza relazionale implicita, i Modelli Operativi Interni, la memoria procedurale (a seconda del linguaggio teorico utilizzato). Il terapeuta si trova costantemente dibattuto, nell'orientare i suoi interventi, tra scelte alternative e contradditorie, che spesso riguardano la dialettica tra il livello di funzionamento rappresentazionale, simbolico e riflessivo, della conoscenza dichiarativa ed esplicita (Beebe, Lachmann, 2002; Stern et all. 1998) e il livello concreto, di conoscenza implicita, fatto di gesti relazionali e complessi enactment. Il terapeuta deve scegliere se concentrarsi sui contenuti da trasmettere al paziente attraverso il linguaggio favorendo gli insight (l'aspetto semantico della comunicazione) oppure se prendere in considerazione che anche quel che dice al paziente ha il significato di un'azione, e che non viene quindi ascoltato il messaggio (contenuto semantico) ma viene fatta un'esperienza interattiva del gesto del terapeuta (del resto, quello che va cambiato è innanzitutto quello che il paziente fa e non ciò che pensa). Anche il mantenimento delle coordinate fisiche del setting (come gli orari), continuamente messe in discussione dall'agire di questi pazienti, va costantemente riportato su un piano in cui valutare, nell'hic et nunc, le possibilità del paziente di comprendere il significato delle regole e quindi le ragioni del suo comportamento che le vìola. Spostare le sedute all'ultimo momento può avere un significato con questi pazienti: il setting "interno" del terapeuta diventa il riferimento del lavoro, che si articola nella dialettica tra il tentativo di instaurare accordi che vengano rispettati e la spontaneità che può essere apprezzata solo se c'è questo rispetto del contratto (Hoffman, 1998). I temi della gratificazione (e dell'astinenza) e della neutralità terapeutica sono oggi molto discussi (la letteratura è molto vasta; cfr. per es. Frank, 1999; Mitchell, 1997; Orange, Atwood, Storolow, 1997): il paradosso con gli adolescenti tossicomani è costituito dalla necessità di non gratificare il loro bisogno di non sentire nessun bisogno.


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Note:

1 Kohut (1971, p. 54) afferma che i tossicodipendenti "rimangono così fissati ad aspetti degli oggetti arcaici, e li trovano ad esempio nelle droghe. La droga comunque non serve loro come sostituto di oggetti da amare o da cui essere amati, o di un rapporto con essi, ma come sostituzione di una funzione che la struttura psichica è incapace di svolgere".
La sostanza non è solo un sostituto di un oggetto ma di una funzione.

2 La dissociazione e il diniego sono processi connaturati alle dinamiche traumatiche che costellano lo sviluppo di questi pazienti. Il diniego e la mancanza di una rappresentazione per lo stato di sofferenza non sono accessori o conseguenti al trauma, sono invece ad esso inerenti e costitutivi (Borgogno, 1999; Bromberg, 1998; Fonagy, 2001).

3 La dissociazione crea un senso di "estraneità interna", di complicatezza nel proprio modo interno che non dispone di possibilità di traduzione "mentale".

4 È importante che il paziente senta l'interesse del terapeuta anche quando non fa cose folli o pazze per attirare l'attenzione. A volte gli adolescenti si stupiscono quando si accorgono di questo interesse rivolto al loro essere innanzitutto persone che parlano dei propri gusti, del loro condurre la propria esistenza quotidiana. Altre volte possono inizialmente spaventarsi, data la paura nel riattivare le aspettative dissociate di avere qualcuno di significativo che si rivolga, con attenzione e cura, alle loro emozioni intime e idiosincratiche. Le sostanze stupefacenti offrono una via di fuga da se stessi, una via di fuga dal soffrire (anche se questa stessa via è costellata di sofferenze estreme) nel tentativo di sentirsi vivi, o meglio, di non sentirsi psichicamente morti, di sentirsi esistere, di essere qualcuno (Ehrenberg, 2003; Eigen, 1996).

5 Il paziente potrà "farsi" durante la psicoterapia per proteggere il terapeuta, per risparmiarlo e preservarlo come figura di attaccamento, così come aveva già fatto con la propria madre, esprimendo un sintomo (l'abuso di sostanze) che era funzionale al sistema familiare (Scarnecchia, 1999). Egli può persino abbandonare la terapia per proteggere il terapeuta dalla rabbia che sente riemergere incontrollabile. Il paziente che si presenta in seduta sotto l'effetto di sostanze psicotrope o che non si presenta saltando la seduta potrebbe farlo per ricreare nell'enactmet la soluzione dissociativa del "creare un vuoto".

6 La psicoterapia nell'istituzione curante non viene condotta in solitudine ma all'interno di un intervento integrato che si articola in momenti di incontro con i colleghi per la discussione del caso. Le riunioni di équipe diventano il luogo del dipanarsi di una narrazione che permette di dare vita ai personaggi della storia del paziente (Correale, 1991; Ferro, 1992). La discussione, che tesse la trama della narrazione della storia del paziente e del rapporto tra il paziente e l'istituzione curante, diviene ulteriore terreno di enactment per le configurazioni relazionali dissociate. Le riunioni d'équipe costituiscono parte del processo della psicoterapia (fin dalla presa in carico) e in esse il terapeuta può essere sostenuto e può rinnovare la sua curiosità e il suo interesse per il mondo interno dei suoi pazienti e la sua motivazione ad aiutarli a essere, nei termini di Winnicott, persone.

7 Il dispiegarsi della relazione con il terapeuta diventa un luogo protetto per la ricerca dell'autentica espressione di sé e del desiderio di legami d'attaccamento non masochistici. La più grande sfida all'onnipotenza (e al ruolo che essa gioca nei legami masochistici) è costituita dalle esperienze di competenza e di piacere perché l'autostima e il senso di Sé possono trovare, in queste ultime, nuove radici che spodestano onnipotenza e uso di sostanze.

8 Gli autori definiscono la funzione riflessiva, o mentalizzazione, come "l'acquisizione evolutiva che permette al bambino di rispondere non solo al comportamento degli altri, ma anche alla sua concezione dei loro sentimenti, credenze, speranze, aspettative, progetti ecc. La funzione riflessiva o 'mentalizzazione' permette al bambino di 'leggere' la mente delle persone" (Fonagy, Target, 2001, p. 102).

9 Come affermano Fonagy e Target: "Con questi pazienti il focus della tecnica non è più rendere conscio quello che era inconscio. Noi crediamo che una priorità tecnica appropriata sia la sopravvivenza dell'immagine dello stato mentale del paziente che l'analista ha nella sua mente" (2001, p. 220).

10 L'adolescente agisce per padroneggiare il suo mondo interno, eppure non ha l'esperienza soggettiva e il sentimento profondo di essere l'agente (il protagonista e l'artefice) della propria storia di vita (cfr. anche Scarnecchia, 1999, p. 89).

11 I livelli del nostro funzionamento mentale e relazionale sono molteplici (Hamilton, 1990; Lichtenberg, 1989; Mitchell, 2000) e sono stati analizzati secondo diversi linguaggi teorici.
I processi descritti in termini di intersoggettività (Bollas, 1987; Benjamin, 1988; Ehrenberg, 1992; Storolow, Atwood, 1992) e funzione riflessiva (Fonagy, Target, 2001) sono da altri (cfr. Beebe, Lachmann, 2002) concettualizzati focalizzando l'attenzione sulla regolazione degli stati interni.

12 Il paziente può arrivare a comprendere che deve "cambiare giro". Il problema di separarsi dalle relazioni con altri tossicomani è intriso del paradosso che esse non sono state vissute realmente, su un piano di realtà: è come separarsi da qualcosa che non si è avuto. Questo paradosso rimette in atto la storia evolutiva del paziente, alle prese con l'elaborazione di un lutto per la perdita di qualcosa che non ha mai avuto (relazioni di attaccamento sicure) e la nostalgia per il ritorno a qualcosa che non c'è mai stato.

13 Cfr., a questo proposito, le idee di Ferenczi (1929) su come venga spezzata la volontà di vivere (fino allo strutturarsi di una pulsione di morte) nelle persone che sono mal accolte fin dalla nascita nella loro famiglia. Ferenczi offre esempi di pazienti che cadono nell'alcolismo, che mostrano scetticismo e sfiducia, una "malcelata nostalgia di tenerezza (passiva), di avversione al lavoro, di incapacità di sopportare sforzi di lunga durata" (idem, p. 47).

14 "Forse la psiche è più di quanto il corpo possa tollerare? Riusciamo a immaginare qualsiasi cosa, ma non riusciamo a essere tutto quello che abbiamo immaginato. Le nostre idee e sensazioni vanno spesso al di là delle nostre possibilità di azione" (Eigen, 1996, p. 221). Questo è quanto il tossicomane non riesce a far rientrare nel suo orizzonte. Il tossicomane cerca di sfruttare il corpo affinché questo possa, sotto estorsione, concedergli un "di più" di immaginazione, di psiche. Il corpo manipolato più o meno attivamente trova, nella sua mente, molteplici rappresentazioni dissociate: il corpo come contenitore o meccanismo che permette l'attivarsi degli effetti delle diverse sostanze, e il corpo devitalizzato che non si è ben separato dalle rappresentazioni primitive complementari a quelle dei genitori.
Il corpo del tossicomane ha bisogno di cure mediche; esso è direttamente coinvolto nell'espressione del suo disturbo psichico. Il lavoro integrato permette allo psicoterapeuta di concentrarsi sui significati del corpo e dell'agire sul corpo, di come viene portato in psicoterapia, se viene "lasciato fuori" o se viene utilizzato come strumento di seduzione (anche nel senso di dirottare su di esso le attenzioni).

15 Nella tradizione kleiniana l'agito è messo in relazione con la distruttività primaria e considerato un attacco al legame con il terapeuta.

16 Frank definisce gli enactment come "pattern di interazione automatici, preconsci che coinvolgono entrambi i sistemi psicodinamici unici, intrecciati e personali dei partecipanti" (1999, p. 45). L'autore che più di altri è responsabile per l'introduzione del concetto di enactment è Theodore Jacobs (1991) che lo utilizza per descrivere i "sottili" modi in cui paziente e terapeuta inter-agiscono (più che i comportamenti grossolanamente impulsivi). Come afferma Aron (1986, p. 202), il concetto di enactment destabilizza la terapia psicoanalitica intesa puramente come "talking cure" e sposta l'attenzione sulle azioni e sulle interazioni.

17 La recente distinzione tra livelli di funzionamento impliciti (procedurali, emotivi, più primitivi, primari) ed espliciti (che accedono alla verbalizzazione e alla simbolizzazione) (Beebe, Lachmann, 2002; Stern et all. 1998) risulta utile ad una concettualizzazione del processo terapeutico che superi la dicotomia interpretazione-relazione, insight-azione (Frank, 1999). L'utilizzo di Crittenden (1994, p. 63) della teoria cognitivista dei tre sistemi di memoria (procedurale, semantica, episodica) nella concettualizzazione dei Modelli Operativi Interni può essere applicato per comprendere i processi dissociativi in psicoterapia. A questo proposito, Marrone (1998) suggerisce che lo scopo del processo terapeutico è integrare questi tre sistemi. Molti autori della teoria psicoanalitica descrivono il funzionamento mentale articolandolo in molteplici livelli differenti (Hamilton, 1990; Beebe, Lachmann, 2002; Loewald, 1980; Mitchell, 2001; Stern, 1985; Lichtenberg, 1989; cfr Albasi, 2003b).

18 Bromberg (1998) indica un'interessante prospettiva per cogliere e creare collegamenti fra i diversi stati del Sé discontinui o dissociati delineando una teoria dello "stare tra gli spazi" occupati dai diversi Sé che risulta essere una nuova formulazione clinica avvincente della funzione riflessiva e della funzione di sintesi e integrazione della mente.

19 Per quanto riguarda la psicoanalisi, questo processo è stato descritto in modo molto interessante da Racker (1968).

20 Parafrasando Loewald (1980), l'esperienza traumatica è come un fantasma che si aggira nell'esistenza individuale per diventare un antenato attraverso un'elaborazione che lo trasformi in un ricordo narrabile del passato dell'individuo.

21 Solo alcuni dei possibili affetti e significati della vita di relazione possono circolare nella coscienza (Stern, 1997), producendo così una patologica discontinuità e molteplicità nell'esperienza di sé. Spesso si sperimenta la discontinuità in cui questi pazienti vivono, e la dissociazione che la crea, quando in seduta giungono sobri, apparentemente autocritici e assolutamente motivati ad astenersi dalle sostanze, e poco dopo (o non molto prima) si dedicano agli eccessi più azzardati. Nel dialogo con personalità più evolute, la molteplicità fisiologica dei Sé e dei Modelli Operativi Interni si traduce nell'esperienza di un adattamento reciproco continuo. In questo lavoro utilizziamo il concetto di molteplicità nel senso di Sullivan (1953), Davies (1996a, 1996b), e di Bromberg (1998; Albasi, 2003a, 2003b). Questi adolescenti si trovano, paradossalmente, a vivere in modo artificiale la fisiologica molteplicità del Sé attraverso la scelta tra multiple sostanze, rimanendo rigidamente aggrappati ad una versione di Sé "adesiva", giustapposta al senso interiore di inconsistenza, mancanza di vitalità e "morte psichica" (Eigen, 1996).

22 La psicoanalista relazionale Lisa Director (2002) si domanda: il tossicodipendente è in balia delle sostanze (come egli tende a rappresentarsi), o è soggetto all'uso di sostanze perché è assediato da un altro insieme di desideri, inaccessibili e persino più proscritti, che sono resi così fedelmente nell'atto di assumere le sostanze, con il beneficio aggiunto di consegnare una punizione alla fine?
Anche nel caso dell'abuso più compulsivo di molte sostanze, con il loro ovvio ed enorme impatto chimico, è un'impasse relazionale che trova concreta espressione in questo atto e che, circolarmente, lo sostiene.
Più di altri sintomi l'uso di sostanze si presta ad un'ampia serie di possibili significati relazionali.
Le persone, nella loro storia legata alle sostanze, "mettono in scena domande di potere, desideri di resa, suppliche di cura, richieste di licenza sessuale, brama di essere lasciati soli in perfetta solitudine" (Idem, p. 52). Bisogna risolvere questo punto morto tra il gioco di forze di dipendenza e sfida, dominio e sottomissione, sacrificio e avidità, che spinge all'uso cronico di sostanze. Questo punto morto appare nelle relazioni dei pazienti con le loro sostanze e viene elaborato nei rituali del loro abuso.
Questa è la ragione per cui chi abusa di sostanze può continuare anche quando non è più in grado di trarne effetti di piacere: è come se fosse vincolato al destino relazionale riprodotto nell'uso di sostanze come in nessun altro luogo della sua vita.
Gli effetti chimico-fisici acquistano un valore addizionale per i loro aspetti preventivi: trattengono i pazienti, e le altre persone della loro vita, dal riconoscere e risolvere i loro conflitti profondi. Le sostanze e i medicinali offrono modi per rimanere attaccati al proprio mondo oggettuale senza detronizzare oggetti alieni (Heimann, 1989; Borgogno, 1999) e dissolvere doppi legami (Bateson, 1972). Abbiamo lungamente riconosciuto il ruolo della neurochimica nel dar forma all'abuso; è ora che garantiamo alle sottostanti forze relazionali il loro posto essenziale, concedendoci un'analisi più raffinata.

23 Il terapeuta comincia a sentire dove e come "esiste" per il paziente, cioè dove gli sembra che il paziente inizi a relazionarsi con lui pur all'interno di una dimensione di onnipotenza e di autoregolazione affettiva. All'inizio il paziente, agendo, indirizza le sue comunicazioni ad un "altro" che non viene percepito come soggetto colto nella sua individualità, ma ad un altro che prende forma funzionalmente alla configurazione interna del paziente: in termini kleiniani possiamo dire un "oggetto parziale", in termini kohutiani un "oggetto-Sé", nel linguaggio della Benjamin (1995) e di Aron (1996) un "oggetto" più che un "soggetto". Il paziente dovrà arrabbiarsi e provare sentimenti intensi e reali (anche associati a fantasie di aggressione) nei confronti del terapeuta e constatare come quest'ultimo costantemente cerchi di usare la propria mente per pensare alle profonde emozioni messe in gioco, continuando ad esistere. Winnicott (1971) parla dell'emergere della persona come di un processo di separazione attraversato da intensa aggressività che permette di passare dal "relazionarsi all'oggetto", frutto di fantasie soggettive di controllo illusorio, all'"uso di un oggetto" che consente di percepire l'altro come reale e al di fuori della propria onnipotenza (cfr. anche Benjamin, 1995; Ghent, 1990).

24 Nel lavoro con questi pazienti, lo psicoterapeuta sperimenta importanti sentimenti primitivi, come un "nucleo di follia" (Scarnecchia, 1999, p. 61) al quale è possibile imputare tanti piccoli eventi e gesti su cui riflettere (paura improvvisa, senso di paralisi psichica, reazioni corporee, interpretazioni come evacuazioni).

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