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Dipartimento di Salute Mentale
S.O.C. Psicologia Clinica e della Salute



Per una psicopatologia psicoanalitica relazionale: considerazioni sulle ipotesi eziopatologiche in psicoanalisi

Cesare Albasi
Ricercatore in Psicologia Clinica, docente di Psicoterapia, Facoltà di Psicologia, Università degli Studi di Torino. Già psicologo e psicoterapeuta presso il CAD


1. Introduzione

Il lavoro clinico mette a confronto con la sofferenza. Essere prossimi a chi soffre, come vuole l'etimologia dell'aggettivo "clinico" con la quale viene qualificata la pratica psicologica di comprendere e aiutare altri esseri umani, significa incontrare chiusure emotive insondabili, violente crisi pantoclastiche, accessi di angoscia frammentante; significa avvicinare universi personali che aprono profondi squarci nell'ordine che la nostra mente tenta di attribuire alla realtà.
La ricerca del senso della sofferenza non è un'esclusiva della psicologia clinica. L'esistenza umana è intrinsecamente caratterizzata dal dolore e dalla morte e la comprensione di questo mistero difficilmente può essere ricondotta all'interno dei confini di una scienza, ancorché scienza umana. La filosofia, la teologia, la letteratura e l'arte tutta costituiscono spesso preziosi e affascinanti tentativi di cercare risposte sul dolore e la morte; quello che differenzia questi percorsi di ricerca è il metodo con cui essi procedono. Certamente, però, il senso della sofferenza di un individuo singolo è un problema che può essere avvicinato con gli strumenti delle discipline psicologiche attraverso operazioni inquadrabili in una metodologia empirica come quella di cui si serve la psicologia scientifica.
Il discorso psicopatologico si sviluppa su di un crinale con il rischio di scivolare o sul versante della generalizzazione schematica a partire dal caso singolo (il mondo soggettivo della persona), che spinge ad abbuffarsi di astrazioni, minaccia per una dieta a base esclusiva di argomentazioni puramente ipotetico-deduttive; o sul versante della minuta descrizione scientista "asettica" che rincorre velleità naturalistiche di obiettivazione confinando e sterilizzando la comprensione dei delicati significati soggettivi (che possono spingere una persona ad ammalarsi psichicamente) nelle celle classificatorie di rigide nosografie. Questi due poli di attrazione possono invece essere considerati, grazie alla loro relativizzazione, strumenti di lavoro utili; se diventano ideali normativi a cui tendere, che implicitamente spingono a oscurare la complessità del fenomeno della disorganizzazione dell'esperienza soggettiva, appaiono quasi vie di fuga dall'inevitabile confronto con l'emergere del non senso nella veste dell'umano patire.
Il lavoro clinico insegna che non vi è coincidenza tra l'intensità della sofferenza sperimentata soggettivamente dall'individuo e la gravità dell'eventuale suo disturbo psichico, o viceversa tra la severità della psicopatologia e l'esperienza di soffrire. Il dolore è un'importante informazione per l'uomo, non è patologico di per sé e non lo è quando è sensato, quando dischiude un possibile approfondimento del senso degli accadimenti personali (Natoli, 1986). Ma il dolore, l'angoscia, la paura consumano il soggetto, lo logorano, possono farlo ammalare, possono costituire il segno di una psicopatologia.
La specificità del contributo della psicologia clinica, rispetto al contatto con la sofferenza umana, consiste nell'inquadrarlo all'interno del legame con la persona che lo sperimenta nella sua fatica a vivere e nel tentativo di comprendere se e come questa sofferenza singolare si presenti, però, secondo forme non casuali, eventualmente ricorrenti, e sia espressione di un modo di essere (una versione del Sé) ormai diventato rigido, totalizzante e pervasivo, a tal punto da poter scomodare, per descriverlo in modo consensuale, le categorie di "disturbo" o di "psicopatologia".
La conoscenza delle forme tipiche in cui la sofferenza si manifesta è necessaria al lavoro clinico e dipende da un'attenta e sistematica descrizione fenomenologica.
Quando, invece, le domande che il clinico si pone riguardano il perché un individuo particolare soffra per le sue specifiche difficoltà, e la sua vita si declini miserevolmente nel suo personale dolore mentale, in questo caso egli si muove alla ricerca di cause e di spiegazioni, di ipotesi eziologiche, e i suoi ragionamenti saranno sostanziati da teorie.
Ogni modello teorico che ricerchi le cause del dolore psichico, nel momento stesso in cui lo penetra concettualmente, si costituisce come forma di difesa da esso, non potendo restituirne l'intensità se non metaforicamente.(1) I modelli teorici sono come particolari lenti che ci permettono di guardare la realtà mettendone a fuoco alcuni livelli ma nascondendone inevitabilmente altri: potenziano lo sguardo vincolandolo. Quindi ci permettono di vedere un po' meglio, rendendoci contemporaneamente più ciechi e viceversa. Da un punto di vista epistemologico possiamo dire che la teoria illumina porzioni di realtà sfocandone altre, e da un punto di vista psicologico diremo che costituisce una risorsa cognitiva e una difesa emotiva
Studiare l'eziopatogenesi del disturbo psichico significa strutturare un ragionamento nella forma della spiegazione. Privilegiare l'istanza esplicativa, su quella descrittiva, classificatoria, o pragmatica, porta inevitabilmente alla formulazione d'ipotesi teoriche a livelli più elevati di astrazione e complessità.
Vorremmo qui occuparci di alcune strategie logico-concettuali sottese alla spiegazione della psicopatologia nella psicoanalisi, e considerare alcune delle principali categorie che ne hanno caratterizzato il discorso. Freud era interessato alla costruzione di un modello ampiamente comprensivo che poggiasse su argomenti eziologici e spiegasse la sofferenza psicopatologica. Egli ha fatto propria l'istanza esplicativa della prospettiva eziopatogenetica, ponendola al centro della sofisticata architettura psicoanalitica e impegnandosi a precisare varie nozioni teoriche (come quelle di pulsioni, narcisismo, complesso edipico, fissazione, regressione, difesa) al fine di andare oltre le mere descrizioni delle manifestazioni sintomatiche. Freud interpreta i sintomi come segni che dischiudono il mondo soggettivo dell'individuo; l'apparato concettuale psicoanalitico era per lui l'indispensabile faro per penetrare nelle profondità della mente umana.
Tratteremo le argomentazioni tipiche che reggono il ragionamento eziologico nei modelli psicoanalitici. Cercheremo di illustrare come, attualmente, si possa riscontrare nella teoria psicoanalitica un cambiamento paradigmatico nel linguaggio e nelle categorie concettuali utilizzate per parlare della psicopatologia: nella psicoanalisi freudiana classica la sofferenza psicopatologica è una conseguenza della lotta per l'appagamento e per la gratificazione delle esigenze poste dalle pulsioni asociali, mentre nella teoria dell'attaccamento e negli orientamenti relazionali contemporanei è una conseguenza della volontà di stare in contatto con gli altri senza perdere se stessi.


2. Nosologia e psicoanalisi

Cerchiamo di comprendere il particolare rapporto della psicoanalisi con lo studio della patologia. Una premessa di ordine epistemologico: con il termine patologia intendiamo una categoria concettuale e discorsiva condivisa da una comunità socio-culturale e utilizzata per stabilire convenzionalmente dei livelli di normalità e devianza. La patologia non è qualcosa che esiste "là fuori da noi", o "là dentro la testa" di chi viene designato come malato. Questo processo di percezione e ordinamento della realtà è vincolato al soggetto che lo costruisce, e che definisce proprio quell'insieme di fenomeni come patologico (il processo di percezione dipende dal rapporto che intercorre tra il soggetto e il fenomeno osservato). Impostare un discorso sulla patologia significa utilizzare un insieme di categorie che inevitabilmente provengono da un domicilio concettuale situato, cioè da un particolare vertice osservativo finito. Cambiare modi, spazi e tempi, cambiare i luoghi da cui ci si muove per ritagliare una classe di fenomeni come patologico vuol dire produrre un'altra serie di relazioni tra fenomeni che definiranno diversamente medesime realtà come normali o devianti. Cambiamenti di questo genere si sono verificati nella storia della malattia mentale. La psicoanalisi è un soggetto storico rilevante in questa vicenda.
Il radicamento dello studio della sofferenza psicologica nella medicina ha rappresentato l'esito di una parabola che attraverso molti secoli è giunta a considerare la follia come malattia, evenienza patologica (Foucault, 1963, 1972). Pinel spezzando nel 1793 a Bicêtre le catene degli "alienati" compie la loro ricategorizzazione dall'angolo visuale medico, includendoli nei portatori di una malattia. Kraepelin organizzò le innumerevoli osservazioni sui disturbi psichici accumulate dai medici nell'Ottocento e le classificò, in base alle manifestazioni esteriori, nei due gruppi dei disturbi del pensiero e dell'umore. L'approccio che si andava affermando, di tipo eminentemente descrittivo e nosografico, era volto alla definizione di quadri morbosi, di entità diagnostiche costanti e stabili. In quest'ottica di fissismo essenzialista venivano ricercate le somiglianze sintomatologiche e di decorso; l'ipotesi eziologica portante era quella dell'alterazione organica(2).
Freud cerca di superare la concezione kraepeliniana, sostenuta da una logica del deficit (in negativo), e si avvicina ai pazienti con l'intento di coglierne i vissuti, le esperienze singolari e soggettive, per costruire una teoria scientifica ma che abbia valenza fenomenologica. Pur riconoscendo nell'aspetto biologico un nocciolo duro, un fondo roccioso non esplorabile psicologicamente, Freud è interessato alle cause psicologiche nell'eziologia delle malattie mentali (Cfr. Freud, 1915a, b, c)(3). I suoi interessi nosografici sembrano al servizio dell'istanza di una ricerca dei fattori eziologici delle nevrosi e del più generale progetto di una teoria dinamica del funzionamento psichico (Petrella, 1989).(4)
Freud è insoddisfatto dalla psichiatria dell'epoca, che considera i disturbi mentali come causati da malattie del corpo, da degenerazioni o squilibri somatici. La sua ricerca è volta a una comprensione ampia e unitaria delle manifestazioni psichiche: quelle cosiddette normali non sono meno problematiche di quelle insane. La patologia assume il significato assai diverso e non convezionale di esasperazione e ingigantimento di fenomeni presenti nel funzionamento psichico di tutti. Già negli Studi sull'isteria (1892-1895, p. 38) Freud considera il delirio come l'esito del "cattivo uso di un meccanismo psichico molto comunemente impiegato nella vita normale: il meccanismo della trasposizione o della proiezione", e prosegue affermando questi meccanismi vanno considerati "tutte cose normali finché conserviamo coscienza del nostro mutamento interno" (corsivo nostro). Così pure l'allucinazione, che nella semiotica psichiatrica viene precipuamente riferita alla psicosi, è considerata da Freud un meccanismo comune e proprio dell'infanzia, consistente nell'attivazione mnestica di esperienze di soddisfacimento di bisogni primari (cfr. anche Freud, 1895, p. 24).(5)
L'intenzione psicoanalitica di comprendere in maniera unitaria i fenomeni psichici sani e patologici ha quindi richiesto una teoria dello sviluppo mentale. Prima del 1897, Freud pensava che la mente di persone sofferenti di disturbi psichici fosse stata sconvolta da eventi seduttivi reali del loro passato, che avevano avuto effetti traumatici. Il trauma è determinato da affetti e pensieri che non possono essere integrati. Un adulto che ha sperimentato la seduzione sessuale precoce non è in grado di contenere e assimilare le sensazioni sessuali in un senso del Sé continuo, e soffre a causa di pensieri e sentimenti incompatibili con la versione dominante e centrale di Sé (l'insieme di pensieri e sentimenti che costituiscono l'esperienza che egli ha di Sé). I disturbi psichici sono la conseguenza diretta di esperienze che non possono essere assimilate.
In seguito Freud si convince che i racconti di seduzione dei suoi pazienti sono dei prodotti della loro fantasia (cfr. Freud, 1950). Questo cambiamento teorico, dalla teoria della seduzione alla teoria della sessualità infantile ha avuto delle implicazioni enormi (Bonomi, Borgogno, 2001; Ellenberger, 1970; Levenson, 1983; Mitchell, 1988; Boschiroli, Albasi, Granieri, 2003): se la patogenesi non implica eventi esterni reali significa che la mente ha in sé gli elementi idiosincratici che possono condurla alla frammentazione patologica. L'innocenza infantile è allora un'illusione: i bambini sono dominati da passioni sessuali potenti e intrinsecamente conflittuali, e ben presto, nella loro vita, desiderano il possesso esclusivo del genitore dell'altro sesso e l'eliminazione di quello del proprio sesso, ripercorrendo ontogeneticamente quello che gli antichi hanno raccontato nel mito di Edipo. La netta e rassicurante demarcazione tra normalità e anormalità è scossa per sempre. La fragilità della mente è determinata dalla sua difficoltà a contenere le pulsioni e dal carattere pervasivo dei conflitti inconsci.
La psicopatologia non è più determinata da un'intrusione dall'esterno, ma dalla distorsione di ciò che è interno. Questa concezione del disturbo mentale, centrata sull'universalità delle pulsioni conflittuali e del complesso edipico, ha dominato la psicoanalisi classica e viene spesso erroneamente identificata come unica versione rappresentante della psicoanalisi attuale. Freud cominciò ad elaborare in quegli anni (1894-1911; cfr. Nagera, 1969) il concetto di pulsione nel momento in cui si convinse che la realtà psichica dei ricordi di seduzione doveva essersi prodotta autonomamente, dall'interno della mente, per localizzare i processi patogenetici indipendentemente dagli eventi reali esterni (le pulsioni sono pressioni interne, autonome e intrinseche alla mente). Freud definì l'Es come il serbatoio delle pulsioni, protetto dal mondo esterno interpersonale; ogni contatto tra l'Es e le figure sociali è mediato dall'Io. Nella metapsicologia "ortodossa" della psicoanalisi più recente è, invece, presa in considerazione l'influenza del mondo interpersonale sulle pulsioni (cfr. Greenberg, Mitchell, 1983). Gli autori contemporanei che vogliono rimanere strettamente legati all'impostazione freudiana, pur attribuendo importanza all'influenza delle molestie reali, sono spinti a ritenere, in accordo con Freud, che il meccanismo attraverso il quale l'abuso reale diviene traumatico risiede nel suo esacerbare gli impulsi naturali preesistenti (per esempio quelli sadomasochistici, legati al complesso edipico e alle fantasie della scena primaria, il rapporto sessuale tra i genitori).


3. Le strategie teoretiche dell'eziologia psicoanalitica (la logica dell'argomentazione eziopatogenetica nella psicoanalisi classica, esemplificata dal caso della psicosi)

Il discorso psicoanalitico sulla patologia implica il riferimento alla teoria della mente e dello sviluppo, proprio per la peculiare impostazione eziologica di Freud. Consideriamo ora due princìpi dell'argomentare psicoanalitico attorno all'eziopatogenesi.
Per il primo, nonostante i cambiamenti teorici che si sono susseguiti in psicoanalisi, l'esperienza dei primi anni di vita viene indicata come matrice sia della salute che della malattia psichica.(6)
Il secondo principio è la prospettiva evolutiva, che G. Klein ben esprime con queste parole: "La rivoluzione di Freud ha orientato in una nuova direzione la prospettiva psicologica: ha rivelato e stabilito una dimensione genetica nella comprensione del comportamento umano. (...) Per quanto riguarda la psicoanalisi, la dimensione genetica costituisce la cornice in cui inserire le spiegazioni eziologiche della formazione dei sintomi" (1976, p. 177, corsivo aggiunto).
Freud organizzò le sue osservazioni sull'individualità dei pazienti in base alle concezioni psicogenetiche che andava approntando. Egli era convinto che nella patologia psichica si ripresentino conflitti tipici dello sviluppo psicosessuale che non hanno trovato una soluzione adeguata. La classificazione psicoanalitica dei disturbi psichici, la sua nosologia, è pensata in funzione di specifiche difficoltà evolutive coinvolte in modo cruciale nello strutturarsi della personalità(7). Durante lo sviluppo l'emergere di richieste pulsionali instaura modalità di soddisfazione dei bisogni che, o per frustrazione o per appagamento eccessivi, possono fissarsi; successivamente, in situazioni critiche, il sistema mentale dell'individuo regredisce al momento evolutivo corrispondente alla fissazione ed elabora l'esperienza attuale secondo le linee di quella modalità di funzionamento. Quanto più antica è stata la fissazione e massiccia la regressione, tanto più grave sarà la patologia(8).
In questa concezione metapsicologica i processi di organizzazione del significato della realtà vissuta si esplicherebbero lungo le dimensioni categoriali fornite dalle dinamiche conflittuali pulsione-difesa e dai livelli maturativi raggiunti dalle strutture psichiche (Io e Super-io). Queste costellazioni categoriali tornano ad imporsi come organizzatori dell'esperienza attraverso il processo di regressione. La fissazione prepara i luoghi e le modalità della regressione. Questo principio di fissazione-regressione è un cardine della teoria psicopatologica della psicoanalisi(9).
Consideriamo, per esempio, le psicosi.
Freud (1911), pur evidenziando dimensioni di unità e continuità tra i processi mentali delle nevrosi e delle psicosi, evidenziò delle differenze importanti. La fissazione, nel caso della psicosi, avverrebbe in una fase più precoce dello sviluppo libidico: la fase narcisistica. La regressione a questa fase provocherebbe il ritiro dell'investimento libidico dal mondo esterno e dalle rappresentazioni oggettuali, con una conseguente rottura del contatto con la realtà interpersonale.
Nella proposta di sistematizzazione, in un'ottica psicoanalitica 'classica', di Bergeret (1974), rintracciamo un tentativo autenticamente psicoanalitico di classificazione della psicopatologia fondato sulle modalità di funzionamento delle strutture psichiche latenti e sulla ricostruzione ipotetica della loro storia(10). La metodologia utilizzata deve mirare "ai rapporti, alle associazioni, agli investimenti che regolano le modalità di scarico, di rappresentazione e di soddisfazione pulsionale, (...) ai processi primari" (idem, p. 65). Le diverse strutture di personalità possono allora essere differenziate in base a quattro fattori: la natura dell'angoscia latente, la modalità di relazione oggettuale, i principali meccanismi di difesa, le modalità di espressione del sintomo. Questi quattro fattori danno vita a un peculiare equilibrio 'cristallizzato' (Freud, 1932), in modo che se questo equilibrio si rompesse, la psicopatologia risultante da una determinata organizzazione di personalità seguirebbe le linee predeterminate dallo sviluppo di quella struttura. Consideriamo come esempio la struttura psicotica: l'angoscia dominante è l'angoscia di frammentazione, di dissoluzione dei confini personali, di morte per distruzione esplosiva; la relazione oggettuale è di tipo fusionale; le difese non sono utilizzate per proteggersi dal conflitto provocato dalle funzioni del Super-io o dell'ideale dell'Io (come nelle strutture nevrotiche) ma dal contrasto tra i bisogni pulsionali elementari e la realtà. La difesa fondamentale nello psicotico è, secondo Bergeret, il diniego delle porzioni di realtà divenute troppo conflittuali; questa difesa è la base per la costruzione di una realtà delirante, un delirio che diviene la "Realtà" per lo psicotico. Altri meccanismi difensivi centrali nell'economia psicotica sono la scissione e la proiezione, meccanismi che danno luogo a sintomi di spersonalizzazione, di personalità multipla, di derealizzazione. Per quanto concerne l'economia delle pulsioni importanza centrale va alla pulsione di morte e all'aggressività distruttiva.
Nella metapsicologia classica lo sviluppo di una struttura di funzionamento psicotico è caratterizzato da gravi ingorghi pulsionali molto precoci, localizzabili ad un livello evolutivo dove spinte autoerotiche e narcisistiche governano l'apparato psichico. Le fissazioni avrebbero luogo nella fase di sviluppo orale o nella prima fase anale. Nella classica impostazione di Abraham (1924), la fase anale è suddivisa in due momenti e la divided-line tra le fissazioni (e regressioni) psicotiche e quelle nevrotiche si situa tra la prima fase anale, espulsiva o evacuativa, e la seconda, ritentiva. Il disturbo psicotico concerne l'impossibilità di superare questa divided-line e di accedere ad un funzionamento regolato secondo i principi del cosiddetto secondo stadio anale, centrato sulla ritenzione (e quindi neanche alla strutturazione del complesso di Edipo, evolutivamente successivo).
Rimanendo all'interno di questa cornice meta-teorica e della logica che ne viene informata, si sono delineate alcune traiettorie psicoanalitiche che hanno affrontato il problema della sofferenza psicopatologica, differenziandosi per i modelli dello sviluppo infantile utilizzati come base interpretativa.
Una recente applicazione della prospettiva evolutiva alla psicopatologia è stata derivata dalla ricerca e dalla teoria della Mahler (1968, 1975). La sua teoria del processo di separazione-individuazione ha influenzato generazioni di clinici dagli anni sessanta a oggi. Facendo una correlazione con le tappe evolutive individuate dalla Mahler si sono ricavati un sistema di livelli di funzionamento mentale(11) e un continuum psicopatologico ordinato in base alle diverse fasi del processo di separazione-individuazione (cfr. per es. Kernberg, 1976, 1980; Horner, 1991; Hamilton, 1988). Il livello psicotico d'organizzazione della personalità corrisponderebbe all'organizzazione degli stadi evolutivi dell'autismo normale, simbiosi normale, dell'emergenza e della sperimentazione. Dalle fissazioni alla fase, cronologicamente successiva, di riavvicinamento si svilupperebbero problematiche facenti parte di un'altra organizzazione di personalità, quella borderline.


4. Metafore dello sviluppo: centralità e problematiche del punto di vista evolutivo in psicoanalisi

Alcuni aspetti della fenomenologia presentata dai pazienti, nel lavoro psicoterapeutico, possono venire illuminati e trovare un senso se li si osserva come se fossero esperienze infantili. Osservando le paure, i desideri, i sentimenti e i bisogni del paziente come se fossero quelli di un bambino piccolo, i frammenti grezzi si organizzano attraverso questa metafora e acquistano un significato.
Nella suddetta operazione interpretativa hanno grande importanza la particolare concezione dello sviluppo espressa dal quadro teorico di riferimento dello psicoterapeuta, le ipotesi in merito al rapporto tra presente e passato, i modelli di organizzazione mentale nel bambino. L'immagine del bambino, di cui ci si serve per dare una forma al materiale portato dal paziente adulto, è una metafora, un "come se" appunto. Questa metafora non va reificata (Lichtenberg, 1983; Stern, 1985). L'utilizzo non metaforico, 'concreto', di concetti evolutivi nella spiegazione dei dati clinici emergenti dal lavoro con adulti presenta l'insidia del salto dalla culla al lettino (Lachman, 1985, cit. in Mitchell, 1988, p. 123).
Le ricerche evolutive contemporanee (Beebe, Lachmann, 2002; Lichtenberg, 1983; D.B. Stern, 1997; D.N. Stern, 1985; Albasi, 2003) offrono una prospettiva che mostra alcune ingenuità dell'impostazione archeologica di Freud: non è possibile immergersi nella storia di una persona alla ricerca di frammenti intatti del suo passato, ancora esistenti ora come allora e in attesa di essere disvelati.
Teorici e clinici diversi ricorrono a tipi diversi di bambini come metafore organizzatrici dei dati psicoanalitici (Mitchell, 1988, p. 119). Il bambino della psicoanalisi classica è inevitabilmente carico di conflitti. La mente stessa, secondo Freud, nasce dal contrasto tra il processo primario, regolato dal principio del piacere, e le esigenze della realtà esterna. I pazienti descritti servendosi di questa metafora sono individui lacerati da potenti conflitti tra differenti desideri sperimentati come spaventosi, animaleschi o selvaggi, passibili di originare situazioni minacciose e terrorizzanti con il loro eventuale impatto sull'ambiente circostante. I teorici che si muovono percorrendo ipotesi eziologiche "dell'arresto evolutivo" (Mitchell, 1988) utilizzano, come metafora organizzante, un bambino bisognoso di cure, di rifornimenti ambientali e funzioni genitoriali indispensabili; soltanto per la carenza di queste verrebbe a trovarsi in difficoltà e tensione, e il suo sviluppo si bloccherebbe. Il paziente è visto come una vittima delle carenze ambientali, costretto ad accomodarsi di fronte alla privazione, ammalandosi nel tentativo di autoproteggersi e di trovare sostituti compensatori.
Una delle conseguenze della reificazione dei "modelli di bambino", che verrebbero considerati quindi come "fatti" anziché come metafore, è stata l'adultomorfizzazione e patomorfizzazione dell'infanzia e la tendenza a caratterizzare i primi stadi dello sviluppo normale in termini di successivi stati di psicopatologia, senza tener conto che "la patologia adulta non è semplicemente un persistere dei processi del neonato normale. Oppure viceversa, il comportamento del neonato non è lo stesso, né è sostanzialmente simile, al comportamento patologico dell'adulto" (Eagle, 1984, p. 153). La regressione va intesa in senso traslato, come un ritorno metaforico a modelli di funzionamento analoghi, appropriati per, e tipici di, uno stadio pregresso della vita, che portano a una diminuzione delle capacità adattive attuali (Ford, Lerner, 1992). "Anziché rispecchiare un particolare livello o stato precedente dello sviluppo, la patologia è caratterizzata da una particolare direzione disfunzionale dello sviluppo che può avere somiglianze a vari livelli (per lo più superficiale) con quei periodi precedenti, ma che certamente non può essere equiparata ad essi, e che senz'altro comporta processi e capacità radicalmente diversi" (Eagle, 1984, p. 154).
Stern (1985, p. 257 segg.) propone di considerare le entità clinico evolutive (per esempio oralità, dipendenza, autonomia, fiducia), tradizionalmente legate a specifiche fasi evolutive, come temi, linee di sviluppo che interessano l'intero arco della vita, e non come periodi o fasi di fissazione. Le linee di sviluppo sono continue e presentano una stratificazione di diversi sensi di sé (Stern, 1985) che offrono metafore per organizzare l'esperienza corrente in forme diverse.


5. Revisione critica del concetto di narcisismo

Il tema del narcisismo è cruciale nel dibattito sulla teoria e sulla psicopatologia psicoanalitiche: è stato definito da Freud in modo squisitamente pulsionale per poi essere ridefinito dal punto di vista relazionale da autori che, più recentemente, si sono confrontati con le patologie gravi.
Freud afferma che il soggetto prende le mosse da uno stato di onnipotenza in cui i confini tra le rappresentazioni del sé e dell'altro non sono ben definite ("ognuno è identico a me, coincide con me, non c'è niente fuori di me che io non controllo"). La mente del bambino ha però bisogno, paradossalmente, dell'altro: di una figura di attaccamento che ha il compito, per prima, di porgerle il mondo, riconoscendole, contemporaneamente, la potenzialità di ricrearne il significato attraverso i processi nascenti di fantasia, intenzionalità, desiderio: in questi, secondo Winnicott, risiede l'origine della creatività che permette all'individuo di vivere la sua esistenza come un'occasione di realizzare qualcosa di personale. La madre ha successivamente il compito di iniziare a costruire dei chiari limiti e confini tra le fantasie reciproche, sue e del figlio, e i vincoli esterni.(12) L'onnipotenza narcisistica si sviluppa, quindi, nella relazione, nella coppia madre - bambino; è uno stato mentale parzialmente condiviso, e cresce o cala in entrambi.
L'esperienza del bambino di entrare in relazione, in contatto con l'oggetto esterno, è probabilmente vissuta come un'espansione del suo mondo (Stern, 1985), una maturazione; ma anche, inevitabilmente, come l'insorgere di vincoli, di complessità, di limiti dettati dal bisogno di riconoscimento e convalida dell'esperienza da parte della figura di attaccamento. La centralità della dimensione narcisistica nelle psicopatologie gravi, originale intuizione freudiana, indica un precipitato patologico della collusione inconscia sul misconoscimento dei limiti e dei vincoli che la realtà inevitabilmente impone alle illusioni presenti nelle fantasie narcisistiche di fusione, simbiosi, idealizzazione, onnipotenza ecc. presente nel contesto di sviluppo dell'individuo.
I limiti e i confini possono essere vissuti come inaccettabili. Questo provoca un'impossibilità, nella relazione tra bambino e figure di attaccamento, a vivere serenamente sia le illusioni giocose della grandiosità, dell'idealizzazione e della fusione, sia le de-lusioni e i ridimensionamenti posti dalle limitazioni della realtà.(13) È come se mancasse nelle figure di attaccamento la capacità di giocare con le illusioni senza mai dimenticare che si tratta di un gioco (Mitchell, 1988). Le illusioni narcisistiche, emotivamente molto intense, connesse alle fantasie simbiotiche e idealizzanti, vengono prese troppo sul serio, mantenute devotamente vive fino a farne dipendere il senso di se stessi. Il che comporta un mal funzionamento della funzione dell'esame di realtà, vale a dire il sacrificio di parte della realtà. L'elemento cruciale è la funzione interattiva delle illusioni nella relazione di attaccamento, che possono diventare un rigido tratto che dominerà i legami intimi costruiti in seguito. Se l'unico modo per entrare in contatto e stabilire un legame con la figura di attaccamento è partecipare alle sue illusioni, il messaggio comunicato è una sorta di minaccia che spinge all'adeguamento e alla sottomissione in un rigido legame di lealtà. Come sostiene Ogden (1982, 1989, 1994), la madre può aver bisogno di vedere nel figlio solo quello che lei proietta, e il figlio sente che, quando non è più in grado di incarnare quel determinato aspetto che la madre proietta, cessa di esistere per lei. Parlando di una paziente, Ogden dice: "Qualsiasi riconoscimento di essere diversa dall'idea che la madre aveva di lei fu sperimentato come una minaccia al relativo senso di sicurezza che scaturiva dall'equilibrio nel quale la paziente rappresentava per la madre ciò che la madre aveva bisogno che fosse" (1982, p. 98).
Questo distacco illusorio dalla realtà diventa strutturale: abbandonare le illusioni può essere l'equivalente emotivo di abbandonare i genitori, di trovarsi solo e in un universo sconosciuto.
È stato Winnicott (1968), tramite il suo utilizzo del paradosso, che ci ha illuminato sull'importanza dell'usare l'esperienza altrui come fondamento di un rapporto con l'esterno che mantenga il senso di possibilità creative e contemporaneamente vincoli lo sviluppo alla realtà intersoggettivamente condivisa. La spinta interna a distruggere la rappresentazione mentale della figura di attaccamento, motivata dalla rabbia che sorge nella mente del bambino quando ella non si adegua perfettamente al desiderio onnipotente delle sue fantasie, dal momento che non ha esito, offre il passaggio cruciale che gli consente di apprezzare la realtà dell'esistenza autentica della figura di attaccamento al di fuori di lui: "l'oggetto è sempre in via di essere distrutto. Questa distruzione diventa il sottofondo inconscio dell'amore per un oggetto reale, vale a dire, un oggetto al di fuori dell'area di controllo onnipotente del soggetto" (idem, p. 164)(14). Il sopravvivere della persona bersaglio della distruttività, il suo resistere agli attacchi, porta a conoscerla nella sua esistenza indipendente (non come prodotto mentale) e permette il crearsi di un mondo e di una realtà condivisi (intersoggettivi) attraverso l'articolazione della soggettività personale con la soggettività dell'altro.
L'ipotesi di Winnicott può essere considerata non solo come una sequela ma come una tensione dialettica tra la negazione e l'affermazione dell'altro, tra onnipotenza e riconoscimento della realtà interpersonale. La psicoanalisi ci ha insegnato la centralità, per lo sviluppo psicologico, sia del processo di internalizzazione sia di quello della distruzione simbolica: è nel contrasto con l'irrealtà della distruzione compiuta in fantasia che la realtà della sopravvivenza dell'oggetto può essere affascinante e pienamente soddisfacente. Come osserva la Benjamin (1988, 1992), Winnicott ci offre la nozione di una realtà che può essere amata. Non un principio di realtà raggiunto, come per Freud, attraverso la delusione dei desideri e la modificazione del principio di piacere (quasi l'accettazione di un falso adattamento); piuttosto, il proseguire, in situazioni più complesse, dell'originale fascinazione per l'oggetto materno, nell'amore di ciò che esiste "là fuori", nell'apprezzamento della sua differenza e novità. I processi psicologici di separazione dalla figura materna si colorano di positivo: amore del mondo, non perdita della figura d'attaccamento. Proprio per il fatto che quest'ultima è posta (e vissuta come presente) nel mondo esterno e reale, può essere amata; la separazione può essere veramente considerata l'altra faccia del contatto.(15)
È il fallimento di questo complesso processo relazionale che altera le condizioni di sviluppo istruendo sistemi illusori di onnipotenza che possiamo categorizzare come narcisistici. Nella ricerca di protezione sia dall'intrusione confusiva del caregiver sia dalla sua lontananza, assenza, irragiungibilità, possono prendere vita le collusioni e i legami di lealtà con la figura di attaccamento che offrono come unico ambiente di crescita quello delle illusioni narcisistiche, fondate sulla dissociazione del senso stesso della propria personale creatività e intenzionalità (il senso del proprio Sé come centro e iniziatore dei significati dei propri gesti e della propria esistenza) (Albasi, 2003a, b).


6. Conflitto e carenze evolutive: il conservatorismo dell'eziopatologia psicoanalitica

Nello sviluppo delle concezioni psicoanalitiche sulla psicopatologia si è a lungo cercato di conservare l'impostazione freudiana. Una conseguenza di questa vicenda è stata la partizione in due categorie distinte delle problematiche psichiche: quella dei conflitti dinamici e quella dei bisogni relazionali frustrati. Esisterebbe una classe di persone che ricercano in modo conflittuale la gratificazione pulsionale e l'appagamento dei desideri, e un'altra di persone che perseguono disperatamente la coesione nell'esperienza di sé e la sicurezza dall'angoscia. Questa suddivisione ha comportato, negli sviluppi di alcuni autori di comune riferimento (per es. Winnicott, Kohut, Storolow, Lachmann e Atwood, Sandler, Modell ecc.), due conseguenze teoriche: da una parte un uso strategico della diagnosi, che vede la nevrosi come una patologia del conflitto strutturale e delle problematiche edipiche, e i disturbi più gravi come patologie da carenze evolutive; dall'altra una visione strabica e scissa dello sviluppo umano, che relega i bisogni relazionali e ambientali alle fasi pre-edipiche, tratteggiando i bambini più grandi e gli adulti (non gravemente disturbati) come esseri viventi eminentemente alle prese con esuberanze pulsionali generanti conflitti e non con temi riguardanti il contatto intimo con gli altri.(16)
La dicotomia tra carenze dello sviluppo e conflitto dinamico è stata criticata (Klein, 1976; Eagle, 1984). In via generale, carenze strutturali e conflitto dinamico sono aspetti diversi di un insieme continuo di fenomeni complessi. Da una parte, i conflitti evolutivi contribuiscono a creare carenze strutturali (lo stesso Freud considerava le nevrosi anche un insuccesso nello sviluppo, una carenza dell'Io a risolvere più adattivamente i conflitti); dall'altra, anche nelle persone gravemente disturbate il conflitto intrapsichico gioca, a tratti, un ruolo dinamico e motivazionale, anche se, proprio per la povertà dell'ambiente evolutivo originario, i desideri o gli obiettivi personali non giungono sempre a un livello di elaborazione mentale che può condurre all'esperienza del conflitto (vengono anticipatamente dissociati) e rimangono molto primitivi e violenti.(17) "Questi desideri e obiettivi possono incentrarsi su fantasie o temi di fusione, di inabissamento e di essere inabissati, di unione simbiotica in contrapposizione alla separazione ecc., piuttosto che su temi prevalentemente edipici; nondimeno essi sono desideri carichi di conflittualità" (Eagle, 1984, p. 142). Desideri potenzialmente conflittuali, profonde aspirazioni affettive di legami non realizzabili sono parte integrante delle condizioni che provocano blocchi evolutivi. Contrapporre la ricerca della gratificazione dei desideri alla ricerca della coesività di sé è poco giustificabile: l'integrità e la continuità dell'organizzazione di sé sono obiettivi di ordine superiore per tutti, indipendentemente dalla categoria diagnostica (Gedo, 1979; Klein, 1976; Eagle, 1984; Albasi, 2003b).


7. Implicazioni concettuali della prospettiva psicoanalitica relazionale sulla psicopatologia

Nella psicoanalisi freudiana alla radice della sofferenza psicopatologica c'è il conflitto: un conflitto tra pulsioni e difese o tra le istanze psichiche (Es, Io, Super-io). La metapsicologia pulsionale ha caratterizzato in modo determinante il concetto di conflitto definendolo in senso intrapsichico senza un'adeguata considerazione teorica del contesto dei processi psichici delle specifiche figure significative della realtà interpersonale dell'individuo.
Possiamo, però, incontrare un modello squisitamente relazionale del concetto di conflitto in Mitchell (1988, 1993). Egli propone il modello del conflitto relazionale nel quale "gli antagonisti nei conflitti psicodinamici fondamentali della mente sono le configurazioni relazionali, le passioni conflittuali inevitabili all'interno di ogni relazione, e le richieste opposte, necessariamente incompatibili, tra le diverse relazioni e identificazioni significative. (...) Tutte le relazioni umane sono necessariamente conflittuali, poiché tutte le relazioni hanno significati complessi e simultanei rispetto alla definizione di sé e ai legami con gli altri, all'autoregolazione e alla regolazione del campo" (1988, p. 11 e p. 249). Il discorso sulla psicopatologia viene ad essere qui intessuto sulla trama delle tematiche, altamente conflittuali, connesse con l'attaccamento, la separazione e l'individuazione, più che con le pulsioni (sottolineiamo che, nonostante l'abbandono del concetto di pulsione, alla sessualità e all'aggressività vengono assegnati, in questo modello, ruoli centrali sul piano motivazionale ed evolutivo).
Questo modello consente di tenere conto del contributo decisivo del contesto interpersonale nel quale si formano le strutture mentali, e nello stesso tempo di sottolineare il ruolo attivo della persona nel perpetuare le sue modalità psicopatologiche: "Noi non siamo vittime passive dell'esperienza, ma piuttosto creatori attivi e perpetuatori fedeli degli schemi di interazione conflittuale in un mondo relazionale che, se non è sicuro, è perlomeno conosciuto" (idem, p. 158)(18). La psicopatologia non è causata linearmente dalla frustrazione di bisogni generici in età precoce, ma dall'utilizzo inconscio successivo che le persone si trovano a fare della loro esperienza pregressa, delle loro fantasie e delle loro strutture mentali, di tutto quello che hanno unicamente a disposizione, per ricreare, progettare e costruire un mondo soggettivo, che, in quanto tale, cioè proprio in quanto è il loro mondo, ha l'esigenza sperimentare il senso della storia e dei legami con gli altri, l'esigenza di tessere una trama di ricordi, emozioni, bisogni che sostanzi un senso di connessione con il passato, di sicurezza interna, di familiarità(19).
I residui del passato non costituiscono, in senso stretto, fattori causali; sono gli ingredienti che un individuo ha a disposizione per formulare progetti di identità da negoziare nel presente, sistemi di aspettative che offrono tracce per costruire percorsi di elaborazione del significato delle relazioni interpersonali attuali. Il neonato inaugura il progetto di se stesso all'interno dei contorni definiti dal contesto familiare, "scoprendo" se stesso nell'alternanza di momenti di autoregolazione degli stati interni e di connessione interattiva con le figure di attaccamento che hanno aspettative e progetti inconsci che lo riguardano(20); nel proseguio della vita l'individuo, per assicurarsi i legami intimi necessari alla vita mentale, tenderà a ricalcare le linee progettuali conosciute durante il suo sviluppo: sono più sicure e diventano desiderabili in quanto meglio conosciute; l'adulto ricerca il contatto, nel suo mondo interpersonale attuale, lungo quelle linee, copioni antichi che rimandano ad interni familiari.
Lo sviluppo disturbato spinge l'individuo a riattivare configurazioni relazionali fisse e stereotipate che seducono per il fatto di presentarsi come conosciute (e quindi più sicure), nonostante siano proprio esse la fonte della sofferenza e quindi nonostante si speri, in modo conflittuale, di liberarsene (Bromberg, 1988). Vengono ricercate co-attivamente le conferme a quello che diventa un sistema interno di riferimento, anche quando è patogeno e patomorfico, fatto di aspettative negative; la ricerca e l'occasione di nuove esperienze relazionali hanno qualcosa di spaventoso in quanto non inscrivibili nel sistema in cui l'individuo abitualmente riconosce se stesso proprio come se stesso, non previste nell'organizzazione dell'esperienza di se stesso (come qualcosa che tende verso la continuità e la coesione). L'evocazione di risposte specifiche negli altri è cercata sia per confermare sia per disconfermare le proprie categorie affettive (Modell, 1990). Il trauma porta a cercare, nelle successive relazioni intime, il riconoscimento e l'accettazione per come si è, e il paradossale riconoscimento di come si potrebbe essere, attraverso aspettative illusorie di essere compresi "in anticipo".
Da questa prospettiva, il deficit (o carenza) non viene considerato come l'esito di fissazioni infantili a bisogni evolutivi bloccati precocemente, ma come un'intensa miscela inconscia di desideri che si trovano fusi con un'intensa angoscia. "La psicopatologia non è uno stato di sviluppo abortito, congelato, ma un bozzolo in cui s'intrecciano attivamente legami fantasticati verso altri significativi." (Mitchell, 1988, p. 150) Ragionando evolutivamente la psicopatologia riflette le strategie adattive apprese, operate attivamente, preposte ad affrontare un ambito interpersonale disturbato. È difficile circoscrivere il fallimento genitoriale ad una fase dello sviluppo precisa, intesa nel senso della metapsicologia classica (come teorizzata per esempio da Abraham); è improbabile una relazione lineare di causa - effetto. Nella psicopatologia grave possiamo ipotizzare un fallimento nell'incontro tra particolari genitori e particolare figlio, tra specifiche vulnerabilità, deficienze, "ipo-" o "iper-" sensibilità che si trovano a interagire. La relazione è la matrice della salute o della sofferenza. I disturbi nelle relazioni precoci deformano gravemente le relazioni successive non perché congelano dei bisogni, bensì perché attivano il processo di costruzione di un mondo soggettivo di configurazioni relazionali (fornendone i primi e fondamentali ingredienti) che riproduce le modalità di trascurare (o stravolgere) quei bisogni. Se i primi mesi e anni di vita sono indubbiamente fondamentali per la salute psichica, la gravità della patologia è determinata dalla pervasività e rigidità delle dimensioni relazionali problematiche, non solo, e non necessariamente, dalla precocità. Facendo nostra l'impostazione di Stern (1985), possiamo considerare l'ipotesi di Freud della continuità evolutiva tra l'esperienza infantile e quella adulta come la sottolineatura dell'analogia dei problemi fondamentali in tutto il ciclo vitale: da una prospettiva relazionale, essi riguardano la dialettica tra contatto e differenziazione, tra legame e separazione, tra attaccamento e individuazione, tra asserzione di una soggettività autonoma e condivisione di una mutua e reciproca realtà.
Richiamiamo, così, l'originale opzione freudiana di un continuum tra normalità e patologia: il conflitto psicotico, che intrappola tra desiderio della fusione e terrore della disintegrazione, la sua ambitendenza tra l'avvicinarsi o il non entrare in relazione (Mahler, 1968, 1975; Pao, 1979), partecipa, mettendola a nudo, della problematica relazionale universale e ubiquitaria del riconoscimento reciproco intersoggettivo.(21) Dal punto di vista relazionale, la carenza evolutiva eziologicamente prioritaria non è quella di un'ideale gratificazione di pulsioni e desideri, ma piuttosto quella di uno spazio per l'affermazione e il riconoscimento reciproco tra soggettività differenziate, di riconoscimento dell'altro come equivalente centro di esperienza e iniziativa separato; deficit dello spazio della differenza, della relazione, dell'identità. Modell (1990, 118) formula l'ipotesi che "il ritiro schizoide sia una difesa nei confronti dell' 'essere in relazione con', e sia ubiquitario. I casi estremi di patologia caratteriale sono molto istruttivi, ma sappiamo anche che non esiste una chiara linea di demarcazione tra la normalità e la patologia".
Come lucidamente argomenta Benjamin (1988; 1992), la differenziazione è in parte costituita dal delicato equilibrio tra affermazione e riconoscimento.(22) Il bisogno di riconoscimento e la capacità di riconoscere l'altro sono connessi da reciprocità (Ferenczi, 1932a,b; Borgogno, 1999a,b). Lo sviluppo mentale avviene anche lungo la dimensione della progressiva capacità di riconoscere la madre come un soggetto: parafrasando la celebre frase di Freud (Wo Es war soll Ich werden, 1932, p. 190), Benjamin (1988) afferma che "là dove c'era un oggetto ci sarà un soggetto" (del resto una possibile traduzione della frase freudiana, usualmente tradotta come "dove era l'Es deve subentrare l'Io", può recitare "dove era l'es là io devo diventare me stesso, devo prendere il mio posto nel mondo"). Il riconoscimento reciproco è un obiettivo della crescita quanto la separazione(23). Il riconoscimento da parte della madre è la base del senso di essere agente del bambino(24). La madre è stata concettualizzata, dalle teorie psicoanalitiche pulsionali, come strumento per la crescita del bambino, come "oggetto" dei suoi bisogni, il suo primo oggetto d'amore e di desiderio. Ma è importante considerare la soggettività della madre e la sua esperienza relazionale con il figlio che cresce: le due menti danno vita ad un sistema, una diade che deve evolvere(25).
La dialettica del riconoscimento reciproco comprende esperienze variamente concettualizzate: sintonia emotiva, influenza reciproca, reciprocità affettiva, condivisione di stati d'animo (Benjamin, 1992). Quando l'essere umano giunge a comprendere che esistono delle menti separate (che è separato) scopre che queste menti possono essere in accordo o in disaccordo; e tutto può farsi più difficile (Stern, 1985). La soggettività dell'essere umano si sviluppa all'interno di quelle aree di esperienza riconosciuta come sensata dalle sue figure di attaccamento, in quei luoghi di senso nei quali esse connotano la sua presenza (dandogli una valenza psichica e intenzionale); le figure di attaccamento assegnano ordine e significato, nel loro orizzonte personale, all'esistenza mentale del bambino. Ciò che esula da quell'orizzonte, da quei luoghi, da quelle aree, viene ad essere escluso dalle possibili rappresentazioni e versioni di Sé nelle quali il bambino si identifica. Se i genitori non accolgono le espressioni spontanee di espansività, autocompiacimento, efficacia, orgoglio e eccitamento loro rivolte dal proprio figlio, convalidandole e quindi riconoscendole come esperienze sue, con un qualche significato condivisibile, queste possono costituirsi come momenti di invalidità del suo mondo soggettivo (Storolow, Atwood, 1992; Borgogno, 1999a), come elementi o "oggetti" (Fairbairn, 1952) che minacciano e scompensano "dall'interno" la capacità del bambino di vivere un'esperienza di integrità, continuità e coesione.
L'angoscia di disintegrazione e il senso di annichilimento non sono generati dall'intensità delle pulsioni ma, innanzi tutto, da esperienze che portano in primo piano un senso di Sé non coeso, non intatto, e le conseguenti esperienze di trovarsi radicalmente separati, privi del supporto di un'importante persona di sostegno, di sentirsi alla mercé di un "oggetto" persecutorio interiorizzato, di vivere in balìa di una moltitudine disorganizzata di personaggi confusamente avvertiti come interni ed esterni, e di non sentirsi mai uguali a sé stessi (Sandler, 1987).
Gli individui sviluppano un profondo legame verso aspetti riconosciuti o rinnegati della personalità dei genitori. L'esperienza di se stessi è, inevitabilmente, parzialmente discontinua, multipla, legata e inserita in differenti configurazioni relazionali (Mitchell, 1988, 1993). La capacità di organizzare e integrare questi aspetti discende, in parte, dall'integrazione e dalla flessibilità dell'organizzazione del Sé dei genitori che si ha avuto, dall'adeguamento e dal legame parallelo con i due singoli genitori, dal particolare rapporto con i genitori come coppia, insomma dalle complesse dinamiche relazionali familiari.
La mente è un complesso sistema di processi che si struttura all'interno di un più ampio sistema di processi che è costituito dalle menti delle persone significative che offrono le cure al bambino. Non solo il contenuto dell'esperienza viene costruiti nelle relazione evolutive, ma anche i meccanismi e i processi del funzionamento mentale che elabora quel contenuto. Durante lo sviluppo vengono sperimentate emozioni ma vengono anche appresi i modi per trattare e gestire i significati di queste emozioni, per regolare gli affetti, e tutto questo va a costituire il patrimonio di processi mentali che strutturano la soggettività di un individuo. Bollas (1989, p. 208) afferma che i bambini interiorizzano l'idioma reale di cura della madre, che è una "rete complessa di regole per l'essere e il mettersi in rapporto ... Queste regole sono procedure per l'elaborazione della realtà interna e esterna, la cui regolarità porta alla fine al loro strutturarsi nell'Io". Nella logica del sistema materno di cura sono comprese ipotesi complesse sull'essere e sul mettersi in rapporto, e la formazione di questa logica diventa parte integrante della struttura profonda che costituisce una grammatica dell'io.
La logica genitoriale di cura, allevamento e gestione del figlio condiziona i principi organizzatori dell'esperienza che operano al di fuori della sua consapevolezza: "queste strutture pre-riflessive dell'esperienza si formano nel corso delle interazioni tra i mondi soggettivi del bambino e quelli delle persone che se ne prendono cura" (Storolow, Atwood, 1992, p. 40).


8. Il processo di riconoscimento e l'esperienza del paradosso

Il bisogno di riconoscimento è per sua natura paradossale. Il riconoscimento è quella risposta dell'altro che dà significato ai propri sentimenti, intenzioni e azioni. Il riconoscimento, in questo senso, può venire, però, solo da un altro che noi, a nostra volta, riconosciamo pienamente come persona, come soggetto (un centro autonomo propositore di significati). Nel momento stesso dell'autoaffermazione e della volontà d'indipendenza, paradossalmente, l'individuo dipende dal fatto che un altro individuo, che a sua volta riconosce come soggetto indipendente, la riconosca.(26) Il paradosso del riconoscimento non trova risoluzione definitiva ma una continua tensione essenziale che informa la ricerca del contatto intimo e l'affermazione di sé. Una delle intuizioni più importanti della prospettiva intersoggettiva in psicoanalisi è che l'identità e la differenza si definiscono mutualmente e simultaneamente nel processo paradossale del riconoscimento reciproco; anche in questo risiede la paradossalità dell'esperienza di essere uomini.
Nell'introduzione al suo celebre libro Gioco e realtà Winnicott (1971) chiede al lettore che il paradosso sia accettato, tollerato, rispettato. Winnicott (1958, 1965) ci ha insegnato l'importanza del paradosso nella costituzione dell'esperienza di Sé. Winnicott considera la capacità di stare in contatto con se stessi come una sofisticata funzione mentale che si sviluppa a partire dalla conquista del bambino piccolo della capacità di star solo in presenza della madre: questa fondamentale funzione mentale si basa su di un paradosso.
Bateson (1972) intuì che alcune forme di psicopatologia sono caratterizzate dall'incapacità di elaborare paradossi, di accettare l'esistenza simultanea di ciò che è interno ad una cornice e ciò che è esterno ad essa. Queste persone non sanno giocare o utilizzare la fantasia e vivono nella concretezza unidimensionale dell'oggettività; non riescono a tollerare la coesistenza di realtà separate.
L'accettazione del paradosso e le funzioni generative e trasformative della fantasia sono strettamente collegate (Modell, 1990). Winnicott (1971) sostiene che, soggettivamente, l'oggetto transizionale simbolizza, paradossalmente, sia la separatezza che l'unione, può esistere grazie all'interpretazione di livelli multipli di realtà. La creatività non può esistere senza questa illusione.
Come sottolinea Pizer (1992, 1996, 1998), le persone devono acquisire durante lo sviluppo la capacità di negoziare e integrare questi paradossi dell'esistenza umana, dell'essere se stessi e relazionarsi. La presenza di questi paradossi obbliga a considerare il fatto che la mente contiene la molteplicità, la plurivocità, e che è impegnata in contraddizioni che non possono mai essere risolte definitivamente. La mente umana ha il compito di connettere, attraverso le continue negoziazioni che sostanziano i processi integrativi, la simultanea esistenza di realtà interna, esterna e relazionale, che si compenetrano e definiscono i loro confini reciprocamente (Albasi, 2003a, b). Il confine stesso tra coscienza e inconscio dipende dal contesto relazionale intimo (Albasi, 2004).
Come conseguenza di queste considerazioni, Pizer (1996) afferma che l'ideale del Sé coeso, come modello di salute mentale, poteva funzionare per il cosiddetto "uomo colpevole" (Kohut, 1971, 1977, 1984) della psicoanalisi del periodo contemporaneo a Freud (sofferente a causa di conflitti psichici che richiedono rinunce e sublimazioni), e può funzionare con il moderno "uomo tragico" kohutiano (che soffre per i deficit che richiedono riparazioni)(27), ma non con l'individuo paradossale postmoderno (impegnato nelle contraddizioni che richiedono negoziazioni)(28).
La nostra salute psichica dipende dalla capacità di contenere molteplici, mutevoli e conflittuali versioni di sé; nella salute, il Sé mantiene una tensione dialettica tra molteplicità e integrità, permettendo un funzionamento coerente che rimane aperto alle contraddizioni e al cambiamento. Questa "molteplicità organizzata" riflette un insieme di processi psichici che rendono possibile un metalivello di funzioni deputate alla costruzione di connessioni integrative (che Pizer chiama "ponti") tra diverse versioni di sé e sottoinsiemi di esperienza relazionale.
In questa prospettiva, la psicopatologia viene compresa nei termini dell'incapacità di una persona di tollerare l'ambiguità e il paradosso, di sostenere molteplici punti di vista, di vivere e condividere metafore (che sono intrinsecamente ambigue e possono simultaneamente esprimere punti di vista contraddittori). La sofferenza psicopatologica implica l'impossibilità dell'esperienza dello stare tra gli spazi (Bromberg, 1998) necessari per negoziare paradossi, di stare tra i molteplici significati della realtà, della fantasia, delle relazioni. Modell (1990) evidenzia come lo stesso concetto di Sé contiene il paradosso di descrivere sia l'intima esperienza di se stessi sia le immagini socialmente condivise nelle relazioni interpersonali. Per Bach (1994, cit. da Aron, 2000, p. 5) l'essere umano ha il compito evolutivo d'integrare il suo senso di interezza e vitalità (la sua consapevolezza soggettiva) con lo sviluppo di una prospettiva su se stesso come una persona fra le molte altre (la sua autoconsapevolezza oggettiva). A partire da queste considerazioni, Aron (2000) sottolinea l'importanza di integrare un punto di vista su se stessi e sugli altri sia come soggetti separati sia come oggetti.
La concezione di mente sviluppata in questa prospettiva è quella di una mente "distributiva", che organizza versioni di Sé come in un caleidoscopio (Davies, 1996), strutturata in molteplici isole di memoria di esperienze relazionali. Il mantenimento di questo sé distribuito dipende dal grado di discrepanza che le esperienze relazionali molteplici provocano, e dalla severità del paradosso che le connette(29). Nella molteplicità del Sé, i Sé multipli distribuiti e i Sé multipli dissociati non sono quindi sullo stesso piano. La dissociazione del Sé in molteplici Sé divisi non integrabili costituisce una condizione della psicopatologia.
Per concludere, la naturale capacità individuale fondata nella relazione di organizzare l'esperienza soggettiva si sviluppa ed è fondata nelle relazioni di attaccamento, e può essere disturbata lungo la storia personale. La psicopatologia grave si struttura in molteplici forme che hanno in comune la funzione di elaborare la disorganizzazione, la frammentazione (alla base dell'esperienza di non-senso, di vuoto, di precarietà nel sentirsi pienamente una persona che cerca con curiosità il contatto con il mondo interno ed esterno). Come abbiamo visto la psicoanalisi relazionale, a differenza di quella pulsionale, guarda all'eziopatologia della sofferenza psichica sottolineando: il primitivo deterioramento di risorse presenti nella relazione tra figura di attaccamento e bambino che non permettono il consolidarsi di un senso di sicurezza dall'angoscia e di autostima stabili; il continuo fallire dell'instaurarsi dello spazio relazionale necessario per l'emergere di una soggettività compiuta in tutto l'arco evolutivo del ciclo vitale; le dimensioni intrinsecamente conflittuali dell'essenza relazionale della soggettività umana; la psicopatologia rivelata dall'esigenza della conservazione rigida dell'universo personale di significati determinata dalla ricerca di sicurezza nella familiarità.


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Note:

1 Anche una teoria scientifica si serve di metafore ma, a differenza di altre forme di organizzazione della conoscenza, si pone l'obiettivo di costruirle attraverso un uso disciplinato e sistematico della ragione affinché esse possano mettersi a confronto con l'osservazione empirica, definita secondo criteri di massima intersoggettività.

2 L'atteggiamento dell'osservatore è qui fortemente scientista, virtualmente ereditato dall'anatomopatologia; secondo l'ideale metodologico ottocentesco, anche nelle scienze che studiavano l'uomo l'osservatore non era implicato nelle sue osservazioni. Quello della "paralisi generale" era il paradigma anatomo-clinico della ricerca di entità morbose (Ey, Bernard, Brisset, 1974).

3 Freud riconosce la malattia psichica come malattia particolare in quanto altera l'uomo nella sua coesistenza con gli altri e nella sua costruzione del mondo (Ey, Bernard, Brisset, 1974).

4 In Freud l'eziopatogenesi ha sì una logica causalistica ma non rigidamente lineare, dato che viene concettualizzata nella plurideterminazione di diversi fattori. Il principio freudiano centrale del sovradeterminismo psichico afferma che tutti i fenomeni, strutture e atti psichici sono la risultante dell'interazione di più elementi o funzioni che agiscono sui processi che regolano sia la vita normale che quella anormale e morbosa. Per la psicoanalisi non c'è un netto salto qualitativo tra normalità e psicopatologia. Pensiamo anche alla nozione di Nachträglichkeit e al concetto di serie complementare che contempla i fattori innati e quelli ambientali come co-occorrenti nel determinare esiti patologici: la disposizione e l'esperienza costituivano per Freud "un'inscindibile unità eziologica" (1914a, p. 391).
Nell'orientamento psicoanalitico il ragionamento diagnostico segue linee differenti da quelle prescritte per la diagnosi nosografica, volta al corretto inserimento di un soggetto in una categoria sindromica. Gli interessi e gli sforzi sono diretti verso la costruzione di un "modello di funzionamento" dell'individuo, alla ricerca dei nessi (plurideterminati) tra i molteplici livelli che costituiscono la soggettività per come essa è osservabile all'interno della relazione tra clinico e paziente.

5 Già in queste prime considerazioni di Freud, possiamo osservare il particolare rapporto della psicoanalisi con la nosologia e la tendenza, del tutto peculiare per questa disciplina, che porterà gli psicoanalisti a qualificare i momenti fisiologici dello sviluppo con categorie patologiche.

6Freud (1918) nota che "ci sono due posizioni che non ho mai ripudiato o rifiutato: l'importanza della sessualità e l'infantilismo". Con infantilismo Freud vuole indicare il "ruolo centrale dei concetti relativi al primo sviluppo nella teoria e nella pratica della psicoanalisi" (Mitchell, 1988, p. 115).

7 Cfr. l'utilizzo di questa prospettiva nel concetto della "diagnosi evolutiva descrittiva" di Blanck e Blanck (1974, p. 64).

8 Freud (1905) applicò presto il concetto alle perversioni, che comportano la persistenza di tratti sessuali anacronistici legati ad alcuni aspetti della sessualità infantile.

9 Si può trovare ben illustrato questo principio nell'importante "Trattato di psicoanalisi delle nevrosi e delle psicosi" di Fenichel del 1945.

10 Freud assegnava all'idea di "spiegare", il significato di "andare al di là" della superficie (di ciò che è manifesto, apparente), del presente, per svelare la verità sottostante, latente, profonda (cfr. la sua metafora archeologica, Freud, 1892-1895, 1896, 1937).

11 La logica per cui il nostro funzionamento mentale si struttura su molteplici livelli è stata sviluppata in modo molto interessante da molti autori come Loewald (1980), Mitchell (2000).

12 La ricerca sull'attaccamento ha evidenziato che i pattern di attaccamento insicuro sono correlati sia a madri preoccupate e ambivalenti, che non riescono a separarsi e a creare un confine definito per i sensi di colpa che le rendono intrusive e incostanti, sia a madri evitanti che, sentendosi invase, creano un confine rigido e ostile.

13 Il genitore ha la funzione di Altro che gradualmente stabilisce dei limiti e dei confini; se il genitore la perde, le possibilità nell'esperienza soggettiva del figlio sono: o cercare l'identificazione con i genitori, i quali, però, non avendo nulla di reale da dare al di fuori delle loro fantasie e illusioni, vengono sentiti come appendici narcisistiche di se stesso, quasi cancellati, rischiando quindi il vuoto, la negazione e una forma di perdita di contatto; oppure intraprendere la via di una relazione con i genitori come individui separati ma sentendo che il prezzo della separazione sarà il loro abbandono, una lacerazione che può comportare solo una solitudine essenziale. In nessun caso vi è un processo di riconoscimento dell'Altro.

14 Secondo Winnicott, attraverso la fantasia di distruzione si matura oltre "la relazione con l'oggetto soggettivamente concepito", basata su proiezione e altri processi intrapsichici. Si passa dalla relazione intrapsichica con l'oggetto all'uso dell'oggetto, ad una "relazione con l'oggetto oggettivamente percepito" come esistente al di fuori di sé, come un'altra persona.

15 Come fa notare Benjamin, nella teoria di Mahler, Pine e Bergman (1975) la crisi e il conflitto della fase di riavvicinamento sembrano risolversi con l'internalizzazione, e il raggiungimento della constanza d'oggetto: l'integrazione realistica delle rappresentazioni dell'oggetto buono e cattivo (Kernberg, 1980) Ma questo obiettivo evolutivo non può esser considerato sufficiente. Viene ignorato un aspetto importante della crisi: quello della tensione tra l'asserzione della propria realtà e il riconoscimento e accettazione di quella altrui. Questa aspetto emerge se sovrapponiamo l'idea di Winicott della distruzione dell'oggetto a quella della crisi di riavvicinamento della Mahler. L'esito del processo non è semplicemente una riparazione dell'oggetto buono, o la costituzione dell'oggetto interno, intero e costante, ma la scoperta dell'altro. Il concetto di internalizzazione non è sufficiente per descrivere l'apprezzamento della realtà degli altri. Il bambino comincia ad apprendere la reciprocità e la mutualità come concomitanti della separatezza. Si identifica con l'esperienza soggettiva della madre. Riconoscendo l'esperienza condivisa il bambino va da un mondo di controlli ad un mondo di comprensione reciproca e sentimenti condivisi.
La crisi della fase di riavvicinamento è la crisi del riconoscimento dell'altro, specificamente del confronto con la separatezza e indipendenza della madre, non solo la separazione da lei ma il confronto con i suoi scopi indipendenti. Per ragioni simili anche la madre sperimenta conflitto: le richieste del bambino, che diventa attivo verso di lei, sono ora prese in cosiderazione, non più semplicemente come bisogni, ma come espressioni della sua volontà indipendente; il bambino è visto come qualcosa di diverso dalle sue fantasie mentali, dal suo "oggetto".

16 Da queste diverse impostazioni discendono importanti articolazioni nella tecnica terapeutica: la regola classica dell'astinenza, che nega la soddisfazione ai desideri infantili che cercano di esprimersi nel transfert portando alla loro rinuncia, verrebbe mantenuta nel lavoro con i pazienti nevrotici; invece i pazienti che hanno subito gravi carenze ambientali nel corso del loro sviluppo necessitano della possibilità di ricevere le cure mai avute (ricordiamo che questa distinzione si fonda anche sulla diversificazione concettuale tra desiderio, di origine istintuale, e bisogno; cfr. Winnicott, 1958, 1965).

17 Una idea particolare e originale della natura del conflitto schizofrenico è riscontrabile nella interpretazione della psicosi proposta da Ogden. Dice Ogden (1982, p. 126): "Una teoria complessiva della schizofrenia deve indicare l'interazione tra il livello del conflitto intrapsichico e quello della capacità di generare significato psicologico. ... Il conflitto nevrotico implica una tensione tra insiemi di significati; il conflitto schizofrenico implica, invece, una tensione tra i desideri di conservare una condizione psicologica in cui il significato può esistere e, d'altro lato, gli attacchi alla capacità di creare questo significato e di mantenerlo".

18 La mente è un sistema di integrazione della vita di relazione che permette sia l'apertura e l'adattamento all'ambiente esterno, sia l'autonomia relativa da esso. Un buon modello teorico contemplerà molteplici fattori: l'influenza dell'ambiente attuale, l'influenza determinante del passato e della storia dell'individuo, che lo vincolano nel ricreare modalità tipiche di organizzare l'esperienza nel corso dello sviluppo della sua personalità, e il ruolo centrale dell'attività di auto-organizzazione del soggetto (comprese le sue capacità difensive e di autoregolazione).

19 Il termine familiare va inteso sia nel senso di "noto" o "conosciuto", sia in quello di "pertinente alla famiglia e ai legami tra i suoi membri". Il termine latino familia indicava in origine i servitori e gli schiavi di una grande casa; questo sottolinea la stretta connessione tra legami umani e schiavitù (Mitchell, 1988).

20 Mettere al mondo un figlio significa avere un progetto che lo riguarda. Amare un figlio non può prescindere da questo: non si può amarlo senza avere aspettative su di lui che, inevitabilmente, sono sostanziate da dimensioni narcisistiche e attivano meccanismi proiettivi. Non si può pensare che questo possa essere evitato nell'amore genitoriale (ne è una condizione fondante). Per il figlio, però, possono nascere difficoltà evolutive se i genitori non riescono a separarsi, innanzitutto, dalle loro aspettative e a tollerare le delusioni intrinseche all'incontro con il figlio come essere umano, e quindi diverso, altro dalle proiezioni narcisistiche iniziali (e, ripeto, necessarie perché ci sia il desiderio di amarlo), facendo sorgere la curiosità e lo stupore offerti da una persona alla quale si è data vita e che cresce sorprendentemente, al di là delle aspettative.

21 Come dice Loewald (1960) "la radice più profonda dell'ambivalenza che sembra pervadere tutte le relazioni, esterne e interne, sembra essere la polarità inerente all'esistenza individuale, tra individuazione e unione narcisistica primaria". Secondo Fromm la contraddizione fondamentale per l'uomo è quella tra la ricerca di sicurezza e il desiderio di libertà; per K. Horney le tre categorie di bisogni basilari verso gli altri sono: un orientamento ad avvicinarsi (per es. il bisogno di accudimento amoroso), uno a distaccarsi (per es. il bisogno di indipendenza), uno a porsi contro gli altri (per es. il bisogno di potere); la teoria dell'attaccamento ha proposto, con una sempre più forte evidenza empirica, due modelli operativi interni insicuri, quello evitante e quello ansioso (preoccupato per le relazioni), che possono essere interpretati come atteggiamenti difensivi contrapposti rispetto alla ricerca di relazioni intime e differenziate (Albasi, 2003a).

22 Bollas (1987, p. 16) sostiene che possiamo parlare di un soggetto dopo che è stata costituita, mediante i "negoziati" con l'ambiente, la capacità di fare interpretazioni significative della propria esperienza e del contributo significativo degli altri nella sua determinazione.

23 La psicoanalisi classica ha guardato con più attenzione agli aspetti di complementarietà delle relazione che a quelli di reciprocità, così come ha assegnato un intrinseco valore maturativo e autonomizzante alla separazione più che alla unione e alla condivisione intersoggettiva di stati mentali (Benjamin, 1988).

24 L'esperienza di essere agente è alla base della proposta di revisione teorica attuata da Shafer (1976, 1978; cfr. anche Albasi, 1997b; Albasi, Brockmeier, 1997), ed è una delle fondamentali costanti del Senso del Sé nucleare per Stern (1985). Secondo Stern (1985) si possono identificare delle costanti del sé che vengono integrate in una prospettiva soggettiva già tra i 2 e i 7 mesi, dando luogo ad un Senso del Sé nucleare (in presenza di un Senso dell'altro nucleare); queste costanti sono, oltre al senso di essere agente, quella di avere un sé dotato di coesione (innanzitutto fisica), di una affettività propria e di una continuità dell'esperienza nel tempo (un sé storico). L'esperienza di fusione è un modo di essere con un altro che assume la funzione di regolatore del Sé. I Sensi del Sé sono per Stern il modo in cui noi sperimentiamo noi stessi nei confronti degli altri, e forniscono la struttura mediante la quale organizzare tutti gli eventi interpersonali. Questi Sé costituiscono le fondamenta dell'esperienza soggettiva dello sviluppo sociale normale e anormale. La grave compromissione di questi Sensi del Sé danneggia il normale funzionamento sociale. Consideriamo, come esempi, il senso di essere soggetti agenti: senza di questo possono aversi delle paralisi e la sensazione di non essere padroni delle proprie azioni; il senso di coesione fisica, senza il quale possono aversi frammentazione dell'esperienza corporea, spersonalizzazione, derealizzazione; il senso di continuità, senza il quale possono aversi dissociazione temporale, stati di fuga, amnesie; il senso dell'affettività, senza il quale possono aversi anedonia e stati dissociativi; il senso di un sé soggettivo in grado di stabilire rapporti intersoggettivi con altri senza il quale può esservi solitudine cosmica, o all'altro estremo, trasparenza psichica; il senso di essere generatore di organizzazione, senza il quale può esservi il caos psichico; il senso di poter comunicare significati, senza il quale può esservi scarsa socializzazione e mancata validazione delle conoscenze personali.

25 Nella ricerca e nella teoria clinica relazionali, l'apporto del bambino alla relazione con la madre non viene più concettualizzato in termini pulsionali; gli aspetti di differenza biologica individuale sono studiati in riferimento alle differenze temperamentali e di profili di attivazione neurologica. Gli aspetti specificatamente psicologici hanno a che fare con i meccanismi e i processi affettivi e cognitivi implicati nel mettersi in relazione col mondo sociale (per es. l'identificazione, la tendenza a reagire alla frustrazione attaccando o ritirandosi ecc.).

26 Sarebbe a dire "Io riconosco te come persona separata, per me significativa, che mi riconosce". Nel caso della relazione madre-bambino, la madre si trova a vivere un "Io riconosco te come il mio bambino che riconosce me", che comporta il paradosso che il bambino viene vissuto come proprio ma come diverso, differenziato, fuori da sé, altro da sé, dalle propie fantasie: questo processo implica l'esperienza della perdita delle proprie aspettative e della conquista di una nuovo rapportarsi.

27 Anche le recenti proposte che traggono ispirazione dalla psicologia del sé pur inserendosi in un orientamento relazionale (Shane, Shane, Gales, 1997, Kainer, 1999) enfatizzano la coesione e la coerenza del sé a differenza di autori che sono stati più influenzati dalla psicoanalisi interpersonale.

28 Anche Loewald (1980) sostiene un significativo punto di vista sulla paradossalità della persona. Egli suggerisce come la salute abiti nell'alternanza tra livelli relativamente più primitivi e vitali e livelli relativamente più maturi e articolati della vita psichica.

29 Per esempio si può negoziare "mamma mi conforta - mamma mi picchia", ma se la mamma mi picchia legandomi e imprigionandomi al chiuso? A questo livello di shock e discrepanza il paradosso diventa non integrabile e si dispone allora del meccanismo di dissociazione. È l'essenza del trauma: lo scompiglio della continuità dell'essere.
(Per gli scritti di S. Freud si fa riferimento, salvo dove diversamente indicato, all'edizione Bollati Boringhieri delle Opere, in 12 voll.

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