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Anno III - N° 2 - Maggio 2003

Adolescenti e istituzioni




I reati degli infraquattordicenni: il significato affettivo della risposta degli adulti

Elena Riva



Intendo proporre in questo lavoro alcune riflessioni emerse nel corso di una ricerca-intervento commissionata dai Servizi Socio Sanitari del Comune di Milano alla Cooperativa Minotauro, nell’ambito di un progetto 285, che ha consentito l’osservazione e la presa in carico di soggetti denunciati per reati commessi in età inferiore ai quattordici anni, dunque non imputabili.(1)
Per buona parte le storie che abbiamo incontrato non corrispondono allo stereotipo delle baby gang metropolitane evocato dai media: i giovanissimi trasgressori non hanno caratteristiche uniformi di sviluppo psicologico o di provenienza familiare e sociale; sono ricorrenti se mai alcune dinamiche individuali o di gruppo all’origine del reato, che solo in qualche caso rappresenta il segnale di un serio disagio psicologico e relazionale, mentre indica più spesso una difficoltà attuale, una crisi evolutiva individuale (connessa ai compiti di sviluppo adolescenziale) e/o familiare (malattie, separazioni, emigrazioni).
In qualche storia non abbiamo individuato segnali di rischio evolutivo: la scelta di uno o più adulti aveva trasformato il gesto trasgressivo di un preadolescente, che avrebbe meritato una risposta educativa, in un episodio di rilevanza penale; in questi casi sono le conseguenze, psicologiche ed educative, della denuncia a rappresentare il vero fattore di rischio. E’ su queste situazioni che intendo soffermarmi in questo lavoro, pur premettendo alcune considerazioni generali.
I contesti coinvolti in queste storie, in pesi e misure variabili, sono quello familiare, quello scolastico, quello dei coetanei, qualche volta i mass media; in qualche caso la risposta più incisiva è stata proprio l’enfasi mediatica sull’episodio, che ha prodotto svolte significative, non sempre in direzioni auspicabili, sul percorso di crescita.
Qualche volta il reato, che non è mai in questi casi un segnale isolato, segnala un serio disagio evolutivo: nei figli preadolescenti di famiglie multiproblematiche il comportamento trasgressivo è, con il “maldiscuola”, l’indice più diffuso di difficoltà emotive e di sviluppo; spesso in queste famiglie l’assenza paterna, reale e/o simbolica, è sostituita da una presenza materna controllante e protettiva, da cui il figlio adolescente tenta di sottrarsi cercando rifugio all’ombra del gruppo maschile dei pari età, là dove il tentativo di crescere trova facilmente espressione nei gesti trasgressivi.
Nella maggior parte dei casi la famiglia non è un contesto strutturalmente patologico, ma il luogo in cui eventi contingenti, incrociandosi con problemi di sviluppo, inducono il disagio. A volte sono fattori sociali, come un’immigrazione recente, a creare difficoltà d’adattamento: l’adolescente diviene l’anello debole della famiglia, poiché il suo impegno evolutivo a costruire un’identità personale e di genere non può essere sostenuto da un’appartenenza familiare in grado di fornire radici sicure al progetto individuale. In altri casi il reato si radica invece proprio nel contesto culturale d’appartenenza, di cui rappresenta una sorta un rito d’iniziazione, come avviene per il furto nella cultura nomade, chiesto dal gruppo di riferimento come suggello all’ingresso del nuovo membro.
In alcune situazioni la causa prevalente del comportamento deviante è un blocco evolutivo, spesso la difficoltà ad assumere un’identità di genere maschile; si tratta dei ragazzi che, senza un intervento terapeutico, più facilmente ritroveremo coinvolti in vicende penali nella piena adolescenza.
Se la figura paterna è spesso pallida e svalutata, tale da non poter rappresentare un modello identificatorio appetibile, nemmeno la scuola è in grado di svolgere una funzione separante: il fallimento scolastico fin dalla scuola dell’obbligo precede con regolarità il gesto trasgressivo, e il mancato riconoscimento di sé nel ruolo di studente sbarra la strada a una socializzazione non deviante.
Di fronte a quest’ostacolo all’adolescente si aprono due percorsi: da una parte quello regressivo della dipendenza, spesso testimoniato da relazioni con figure materne invasive, soffocanti, eccessivamente ansiose e protettive; dall’altra la ricerca di un sostegno socializzante nel gruppo maschile, formato spesso da adolescenti altrettanto fallimentari nel percorso di socializzazione scolastica, che costruisce un proprio modello d’identità virile contro gli adulti e diviene la base ideale di comportamenti trasgressivi. La giovanissima età degli adolescenti che abbiamo incontrato, ancora agli esordi della costruzione dell’identità, consente di solito di cogliere entrambi i percorsi tuttora aperti e attivi, l’uno sul versante familiare, in cui viene messa in scena un’adolescenza dipendente, passiva e iperprotetta, l’altro su quello extrafamiliare e gruppale, in cui vengono agiti comportamenti trasgressivi di rilevanza penale.
Se più ragazzi con queste caratteristiche s’incontrano nell’ambito di una stessa classe, lì si esprime il loro malessere, specie quando la scuola stenta a fornire risposte educative adeguate all’oppositività che questi adolescenti esibiscono nella gestione del ruolo di studente.
Nel caso che intendo presentare si ritrovano buona parte dei fattori cui ho accennato. E’ la storia di quattro studenti di seconda media, bollati dai media come “baby gang”, e del loro compagno Giacomo, “la vittima”, che non abbiamo potuto incontrare benché fosse uno dei protagonisti di questa vicenda.
Il reato è avvenuto a scuola; i mass media hanno divulgato l’episodio denunciando che uno studente di seconda media aveva avuto i polsi spezzati da alcuni coetanei per il rifiuto ad affiliarsi a una baby gang di quartiere.
Una successiva indagine ministeriale all’interno della scuola ha dato una diversa lettura all’episodio, e si è conclusa con una sospensione di qualche giorno per gli imputati e l’inserimento in un'altra classe della vittima.
L’incontro con i ragazzi segnalati dalla Procura avviene alcuni mesi dopo, quando, dopo una fase travagliata per le famiglie, accusate e giudicate sulle pagine dei quotidiani per incompetenza educativa, la situazione stava riavviandosi alla normalità. Era prevedibile dunque la reazione ansiosa ed irritata dei genitori, alquanto sospettosi sulle finalità di sostegno dell’indagine, e la difficoltà ad ottenere la loro collaborazione in luogo della strenua difesa dei figli e della propria credibilità educativa. Il bisogno di difendere la famiglia dalle accuse formulate dai media e l’atteggiamento sfiduciato e persecutorio nei confronti dei compagni, della scuola e delle istituzioni, appariva almeno in parte reattivo alle vicende trascorse, così come l’orientamento educativo caratterizzato da un esasperato controllo.
L’interpretazione dell’episodio è unanime: genitori e figli concordi collocano l’episodio nell’ambito di una dinamica relazionale di classe che avrebbe dovuto avere una risposta educativa, magari severa, ma non penale.
I ragazzi negano ogni premeditazione e avanzano perfino il dubbio che le lesioni subite dal compagno non siano conseguenti a quanto avvenuto in palestra. L’aggressione sarebbe stata una reazione esasperata alle intemperanze verbali del compagno, scherzi, insulti e sfide che duravano da tempo, nei cui confronti gli insegnanti mantenevano un atteggiamento passivo, costringendo i ragazzi a “farsi giustizia da sé”. La loro è “una brutta classe”, poco numerosa, prevalentemente maschile e con una rilevante presenza di ripetenti ed extracomunitari, i cui disagi familiari e sociali “esplodono” sullo scenario scolastico con continue intemperanze verbali. I ragazzi coinvolti nell’episodio, vittima inclusa, appartengono al gruppetto dei ripetenti, che tentano di compensare le frustrazioni nel ruolo di studente con atteggiamenti e modi “da grandi”, esibendo oggetti, abbigliamenti, linguaggi e comportamenti con cui mimano il ruolo di “maschi” che sfidano gli adulti e cercano di imporre alla classe le proprie regole.
Dall’indagine emergerà che i ragazzi sono in misura diversa incerti se tentare il recupero scolastico, riprendendo un percorso di sviluppo approvato a scuola e in famiglia, o esasperare il rifiuto di chi non può tollerare la frustrazione e il fallimento nel ruolo di studente e preferisce esibire il proprio disinteresse e la propria superiorità. Nella dinamica affettiva del reato questo conflitto intrapsichico viene agito nel gruppo, scatenando l’aggressività nei confronti del membro accusato di “fare il buffone”, di disturbare con atteggiamenti infantili e indisponenti, di rappresentare insomma quella parte di sé più in difficoltà ad emergere dal ruolo infantile in uno dei due modi consentiti dal gruppo, o attraverso l’adozione di una pseudo-virilità fondata sull’esibizione di forza e competenza, o attraverso il tentativo di mettersi ancora alla prova nel ruolo di studente.
Il fatto che le due opzioni appaiano entrambi ancora possibili nella cultura affettiva del gruppo rende determinante l’atteggiamento assunto dagli adulti, specie genitori ed insegnanti, nel rinforzare l’una o l’altra posizione. L’enfasi pubblica sull’episodio sembra aver sostituito invece ogni elaborazione nell’ambito del gruppo classe e perfino in famiglia, rinforzando nei ragazzi un’immagine di sé negativa e inducendo i genitori a rinforzare il controllo educativo.
Le diverse vicende evolutive dei ragazzi s’innescano su questo scenario, ognuna con le proprie particolarità. Ne scelgo due esemplari.
La famiglia di Andrea ha reagito alla risonanza mass-mediatica della vicenda con tale mortificazione da vendere la propria casa e trasferirsi altrove; non stupisce dunque la tensione con cui i genitori sottolineano la “normalità” della propria famiglia, il risentimento nei confronti delle istituzioni e la strenua difesa del figlio, che giunge ad accusare la vittima di aver architettato la montatura del “gesso ai polsi”.
I genitori si responsabilizzano per la bocciatura di Andrea: una seria malattia della figlia maggiore assorbiva lo scorso anno ogni energia familiare, impedendo loro di seguire adeguatamente Andrea sul piano scolastico; la vicenda attuale, la vergogna e il timore di ulteriori evoluzioni negative, ha fatto rifluire su di lui le attenzioni.
Andrea è disponibile e collaborante, cerca l’ammirazione dell’adulto senza compiacenza: offre risolutamente di sé l'immagine competente di giovane leader dalla virilità nascente, senza segni di colpa o vergogna. La sua ricostruzione riconduce l’accaduto al rapporto tra i ripetenti della classe: stanchi delle continue provocazioni di Giacomo, lui e un compagno avrebbero reagito in maniera aggressiva e lo avrebbero picchiato, ma senza provocargli le fratture ai polsi che si sarebbe procurato successivamente o avrebbe addirittura simulato.
La bocciatura dello scorso anno sembra essere stata per Andrea, un ragazzo indubbiamente dotato, l’esito depressivo delle recenti vicende familiari relative ai problemi di salute della sorella; egli potrebbe aver espresso il dolore sulla scena scolastica con un’inibizione depressiva del processo d’apprendimento.
Nella storia di Luciano sono le dinamiche familiari a focalizzare da subito l’attenzione. E’ la madre a prendere la parola nei colloqui, Luciano sta zitto a testa bassa, con i capelli lisci di gel sugli occhi, mentre il padre approva in silenzio quanto dice la moglie, che si dichiara stupita e allarmata dell’intervento del sistema penale in una “faccenda di ragazzini” e sottolinea il disagio provocato dalla pubblicizzazione del reato. Per un po’ non si è parlato d’altro e, anche se sui giornali non comparivano i nomi dei ragazzi, è stato terribile sentirsi additati sul tram, nei negozi, dal parrucchiere.
Luciano non è “un ragazzo difficile”, è uno che fatica a concentrarsi e ad apprendere; i suoi genitori sono preoccupati, ansiosi e controllanti, ora più di prima: gli è proibito frequentare i compagni di classe, specie quelli che considera i suoi amici, coinvolti come lui nel reato. Sua madre ha una pessima opinione dell’ambiente scolastico, “una classe di extracomunitari e ripetenti”, e non si spiega che perfino lì i risultati del figlio siano scadenti. Luciano è autorizzato a frequentare solo un vicino di casa, figlio d’amici di famiglia, e la squadra di calcio dell’oratorio, di cui il padre è accompagnatore.
Le difficoltà scolastiche di Luciano sono sottolineate, anche in sua presenza, con toni ora mortificanti, ora assolutori, addossandone la responsabilità agli insegnanti. Luciano ascolta in silenzio, senza alzare lo sguardo dal pavimento. Bocciato in prima media, rifiuta di segnare i compiti sul diario nel tentativo di sottrarsi al controllo della madre e del fratello maggiore, che frequenta con ottimi risultati il liceo scientifico, che vorrebbero aiutarlo a fare i compiti. Il padre prende la parola solo per descrivere un Luciano diverso, più impegnato negli sport e nei lavoretti di casa: ne parla in modo affettuoso, lo considera più responsabile e collaborante del fratello, sempre chiuso in camera con i suoi libri e i suoi dischi.
Si delinea un duplice fronte familiare, con un figlio maggiore più capace di soddisfare il narcisismo materno investito sul successo scolastico, mentre il padre, che ha un ruolo più passivo e marginale in famiglia, sente Luciano più simile e vicino.
La questione scolastica invade la scena, togliendo spazio ad ogni tentativo di capire di più il carattere e i comportamenti di Luciano: è un ragazzo che fatica a studiare, per il resto è “normale”, è sempre stato “normale”.
Luciano, silenzioso alla presenza dei genitori, rimasto solo ribadisce: “Quando parlano loro non parlo io”. Il suo atteggiamento non è ostile o diffidente, se mai preoccupato della cattiva opinione che posso essermi fatta di lui attraverso le parole dei genitori. La situazione in classe “era pesante, Giacomo prendeva in giro tutti e nessuno lo sopportava”: quando ha visto due compagni picchiarlo in palestra si è sentito solidale, si è avvicinato e gli ha dato dei pugni; poi è tornato a far ginnastica.
Luciano è un adolescente a rischio, in scacco evolutivo rispetto alla nascita sociale; le difficoltà scolastiche, ma soprattutto il significato che assumono nella dinamica familiare e nel confronto con il fratello più grande, rappresentano una grave mortificazione narcisistica, cui L. reagisce cercando nel gruppo dei coetanei altri ambiti di valorizzazione, ad esempio il rinforzo dell’identità virile derivante dalla partecipazione al gruppo dei “grandi” della classe, che compensano il fallimento scolastico e la condizione di ripetenti con l’esibizione di caratteri pseudo-adulti nell’abbigliamento e nei comportamenti. E’ evidente il rischio che Luciano possa assumere i caratteri caricaturalmente virili del bullismo e della sfida agli adulti, cercando rinforzo nel gruppo-banda; la dinamica familiare che lo mortifica attribuendogli il ruolo di “piccolo”, bisognoso d’accudimento e di controllo, sollecita l’uso della trasgressività a sostegno del processo di separazione-individuazione. In questa prospettiva l’enfasi di cui è stato caricato il reato, che ha accentuato in famiglia e a scuola il controllo piuttosto che il supporto alla crescita, rappresenta un ulteriore fattore di rischio, mentre è favorevole la buona relazione con il padre, che sembra avere tuttavia un ruolo marginale nei confronti della coppia madre-figlio maggiore.

Alcuni aspetti di questa vicenda valgono qualche osservazione. Tutti i protagonisti, adulti e minori, sono concordi nel considerare l’episodio incriminato strettamente collegato alle dinamiche di un gruppo classe turbolento, di cui un sottogruppo con difficoltà d’apprendimento e problemi di comportamento ha da tempo assunto la leadership, ostacolando il normale andamento scolastico. Tale situazione si protraeva da mesi senza che gli insegnanti intervenissero sulla dinamica di classe o chiedessero il supporto d’esperti per farlo, nonostante le sollecitazioni dei ragazzi.
Questa rappresentazione condivisa (confermata dall’indagine ministeriale), è stata fortemente interferita dalla diversa versione fornita dai media, che hanno descritto con enfasi il feroce pestaggio avvenuto per il rifiuto di un giovanissimo di affiliarsi alla baby gang delinquenziale che spadroneggia nel territorio scolastico e in quello circostante. Uno scontro tra compagni di classe si è trasformato in qualcosa di diverso, con grave danno all’immagine sociale della famiglia e dei minori, che, nonostante le garanzie formali d’anonimato, hanno subito l’effetto dell’etichettamento negativo: la vergogna è stata così profonda da indurre una delle famiglie a cambiare abitazione e quartiere di residenza.
I ragazzi e i loro genitori sono stati descritti e giudicati senza diritto di replica, aggravata dal divieto di avere contatti con il compagno che ha sporto la denuncia, allontanato dalla classe col consenso dei suoi genitori; ciò ha impedito un’elaborazione collettiva del significato dell’episodio nell’ambito del contesto da cui ha avuto origine. Sul piano educativo si è accentuato il controllo delle famiglie sui figli, suscitando nei ragazzi qualche timore e molto risentimento, soprattutto l’idea di non aver potuto dire la loro e di essere vittime di un’ingiustizia.
La scuola, a sua volta travolta dall’attenzione dei media, ha avviato un’indagine ispettiva, cui sono seguiti interventi punitivi (l’espulsione di qualche giorno per i colpevoli e il cambiamento di classe per la “vittima”) che hanno confermato una distribuzione di ruoli poco attenta alla complessità del rapporto tra denunciati e denunciante.
Dal punto di vista psicologico l’agito sembra rappresentare la “punizione” di un atteggiamento infantile e provocatorio da parte di ragazzi che, in difficoltà con la scuola e con la costruzione di un’immagine adeguata di sé, cercano valorizzazione nel “farsi rispettare”. Sono in gioco problematiche narcisistiche più che impulsive o aggressive, che la reazione degli adulti sembra aver aggravato: la scuola non ha risposto con un supporto all’elaborazione delle dinamiche del gruppo da cui ha avuto origine il conflitto, ma con l’esplusione e l’allontanamento; in casa i ragazzo sono diventati i colpevoli della vergogna familiare e insieme i destinatari di un maggior controllo educativo; nel sociale hanno subito l’effetto dell’etichettamento a baby-delinquenti: difficilmente possono aver ricavato da questo trattamento rassicurazioni e supporti all’autostima.

In una sorta di processo a spirale, in alcuni casi proprio il clamore dei media sulle baby gang metropolitane sembra aver creato l’ondata allarmistica a seguito della quale alcuni adulti sono stati sollecitati a rispondere a trasgressioni adolescenziali non con i consueti strumenti educativi, più o meno severi, ma con una denuncia penale. Si tratta di vicende in cui non abbiamo rilevato fattori di rischio nello sviluppo emotivo dei ragazzi coinvolti, né nel loro contesto relazionale, ma in cui l’effetto della denuncia rischia di interferire sulla rappresentazione del figlio all’interno della famiglia e sui rischi evolutivi in cui potrebbe incorrere, così da attivare a posteriori scelte educative fortemente orientate al controllo.
Dario è un undicenne con un linguaggio ricco e persuasivo, molto orientato alla crescita, che descrive con affetto la sua famiglia; a scuola ha un rendimento basso, non ha voglia di studiare e desidererebbe cominciare presto a lavorare, magari dopo aver imparato bene a fare il meccanico. I genitori confermano di non aver problemi educativi con lui, se non quelli legati al rendimento scolastico, cui rispondono con una tranquilla presa d’atto che il figlio non è fatto per studiare.
La denuncia di Dario e dei suoi amici è la conclusione di una lunga storia di attriti e tensioni “di cortile”; la denunciante è dipinta come un’attaccabrighe sempre pronta a criticare e ad accapigliarsi con chiunque. Il suo appartamento si affaccia sul cortile in cui i ragazzi che abitiano nei condominii circostanti si ritrovano a giocare, chiacchierare, aggiustare le biciclette. Quel giorno si è affacciata alla finestra per rimproverare ai ragazzi il chiasso e la confusione; questi hanno risposto con tono ed espressioni irriverenti, che l’hanno ulteriormente irritata; poi hanno spostato altrove le loro attività; la vicina non ha però considerato chiusa la vicenda, e si è recata all’appartamento di uno dei ragazzi, dove è stata verbalmente aggredita dal fratello maggiore. Quindi ha sporto denuncia.
Il punto di vista di Dario è nitido: la vicina non è in grado di differenziare la realtà dalle sue fantasie persecutorie, perciò non è il caso di prenderla troppo sul serio, come sanno tutti i ragazzi del cortile, che non fanno caso alle sue proteste esagerate, né alle insinuazioni che sia in atto un maligno accordo per nuocerle di cui intravvede tracce anche in comportamenti banali che nulla hanno a che vedere con l’intenzione di comunicarle qualcosa o di nuocere alla sua salute e al suo benessere psichico. Dario ammette la sua parte di colpa per l’utilizzo di un linguaggio colorito, ma non ingiurioso o minaccioso; il seguito della vicenda lo conosce solo per sentito dire. I suoi genitori confermano con vari aneddoti il carattere litigioso della denunciante, senza cadere in eccessi giustificatori, ma rimproverando la maleducazione del figlio.
La denuncia a carico di Diego appartiene dunque a ordinarie controversie condominiali, a una radicata conflittualità fra gli adulti e al comportamento aggressivo del fratello maggiore di uno dei ragazzi. La denuncia nasce in un contesto adulto conflittuale, alterato da una rappresentazione persecutoria della realtà che non è in grado di contenere e gestire controversie ordinarie, ma trasforma diatribe di cortile in criminalità minorile e ricorre al circuito penale in modo del tutto inadeguato.

Un gruppetto di studenti di terza media nei primi giorni di vacanza estiva incappa nella seguente avventura: entrati in bicicletta in un cortile a fianco dell’università, scorgono un ragazzo più grande intento a dipingere sul muro con un pennarello e si fermano ad osservarlo, forse affascinati dall’impresa. Sopraggiunge un agente della Mondialpol, il colpevole fugge, loro vengono accusati di essere gli autori delle “tags”, ma perquisiti si rivelano “disarmati”. L’agente decide tuttavia di fermarli chiamando in rinforzo una volante e di denunciarli per complicità, in quanto presenti al reato.
Convocati ai colloqui qualche mese più tardi, i genitori denunciano a loro volta i modi usati dagli agenti con dei tredicenni terrorizzati, l’uso della volante, il fatto che i ragazzi siano stati trattenuti a lungo in questura senza avvertire i genitori.
La loro profonda irritazione non consente di elaborare più a fondo la situazione: la “casualità” del fatto e la reazione “sproporzionata” degli adulti presenti attiva modalità protettive più che disponibilità alla riflessione: tutti contestano sia la reale consistenza del reato che il comportamento dei poliziotti e del denunciante, con cui invano è stato chiesto un confronto. Dai colloqui e dall’indagine psicosociale non emergono fattori di rischio nei ragazzi o nelle famiglie coinvolte.

Infine una vera storia da baby gang, come quelle che abbiamo letto sui giornali, riletta dal punto di vista del più piccolo dei protagonisti, da poco tredicenne all’epoca del reato. Anche in questo caso l'intervento immediato delle forze dell'ordine, che hanno prelevato i ragazzi dalle loro abitazioni per svolgere gli accertamenti del caso, ha amplificato la gravità dell'accaduto. L'informazione si è rapidamente diffusa nel quartiere e il padre di Carlo è stato fermato, al ritorno a casa, da giornalisti in cerca di ragguagli. Nei giorni seguenti i riflettori dei media si sono accesi, si sono moltiplicati gli articoli sui quotidiani e il caso è stato associato al fenomeno delle baby-gang, giungendo ad interessare alcuni dibattiti televisivi. Tale sfondo ha reso difficile riconsiderare la vicenda attribuendo il giusto peso alla partecipazione e alle responsabilità dei ragazzi, e ha indotto nelle famiglie un’evidente chiusura difensiva.
A distanza di qualche mese la convocazione per i colloqui psicologici è stata vissuta come un’ennesima offensiva ai già provati equilibri familiari e una potenziale messa in discussione della sua idoneità educativa. Durante i colloqui è apparso evidente come la crescita di Carlo fosse minacciata da una sorta di “reinfetazione” iperprotettiva nell’alveo famigliare, che complica il lavoro di separazione proprio di questa fase evolutiva.
Il nucleo esprime vivo risentimento per l’intrusione aggressiva e la “campagna diffamatoria” subita. I genitori presentano “una famiglia normale”, unita e serena, con un figlio un po’ infantile ed ingenuo, ma nel complesso equilibrato e responsabile.
Carlo sembra davvero timido ed intimorito, corrispondente all’immagine infantile proposta dai genitori. Quel pomeriggio usciva per la prima volta da solo con il cugino più grande per recarsi all’appuntamento con alcune ragazze di fronte al Mc Donald.; lì hanno incontrato un conoscente del cugino ed alcuni suoi amici, che dopo qualche minuto hanno dato il via all’inseguimento e all’aggressione di un coetaneo che sopraggiungeva, minacciato e derubato del cellulare. Dopo aver assistito alla scena Carlo ha seguito il cugino ed il gruppo in piazza Duomo.
Egli ribadisce il ruolo da spettatore svolto nel corso della rapina, commessa senza che lui potesse prevedere la rapida successione degli eventi, né comprenderne appieno la trama poiché ignorava la natura delle relazioni fra i ragazzi che si sfidavano dinnanzi a lui. Altrettanto trasecolato ha partecipato agli interrogatori con gli agenti di polizia e ha seguito le notizie trasmesse da giornali e televisioni, che davano gran risalto alla sua impresa, provocando una bufera emotiva in famiglia.
La sua descrizione della rapina è quella della recluta coinvolta per la prima volta nella battaglia fra giovani maschi intenti a disputarsi la supremazia nel gruppo, il controllo del territorio, l’esibizione virile dinnanzi alle ragazze. L’episodio è tutt’altro che banale e la vittima ha senza dubbio sofferto non solo la sottrazione dei propri emblemi ma anche un’esperienza di umiliazione e di sottomissione alla prepotenza del gruppetto divenuto piccola banda. Carlo però descrive gli eventi ai quali sembra abbia solo assistito chiedendosi come avrebbe potuto comportarsi diversamente. Gli adulti, soprattutto suo padre, gli hanno detto che avrebbe dovuto volare in soccorso del coetaneo in difficoltà e non stare dalla parte dei prepotenti. Lui pensa che se avesse avuto il tempo per decidere forse avrebbe preso in considerazione questa possibilità, ma nella situazione in cui s’è trovato poteva solo assistere: non conosceva la vittima né gli aggressori, nulla sapeva della trama, era uscito di casa con la prospettiva di conoscere alcune ragazze e si è trovato coinvolto in una battaglia fra maschi. Nemmeno noi, che abbiamo incontrato solo il più inconsapevole dei protagonisti, abbiamo potuto comprendere più a fondo il senso degli eventi e il contesto relazionale in cui si sono svolti, per intercettarne gli eventuali rischi evolutivi.
Ciò che abbiamo visto è l’intensa reazione dei genitori, espressa nel controllo ansioso dell’eventualità che Carlo possa incappare in altri incidenti capaci di attirare su di lui e su loro l’attenzione dell’opinione pubblica. Carlo rischia di pagare un prezzo salato, non tanto per la sua partecipazione a un reato, quanto per essere finito sulle pagine dei giornali. I suoi movimenti sono ora controllati non solo dai genitori ma anche dal suo timore di potersi di nuovo trovare confrontato con l’attribuzione di significati enormi a imprese convenzionali, forse sfumatamente trasgressive.. Per questo il nostro intervento si è limitato a cercare di indurre i genitori a revocare il coprifuoco nei confronti del processo di socializzazione orizzontale di Carlo e a sottolineare a lui l’aspetto controevolutivo del mettersi in tanti contro uno, ledendo la libertà personale e la proprietà privata, il che non l’ha affatto sorpreso poiché il suo sviluppo morale è adeguato all’età, così come la sua rappresentazione della famiglia, della scuola, del gruppo e anche delle condotte di corteggiamento delle ragazze, principale movente della sua partecipazione al reato e alle sue conseguenze.

Conclusioni
La risposta degli adulti agli agiti trasgressivi degli adolescenti può essere supporto o ostacolo al processo evolutivo in corso, di cui la denuncia costituisce un segnale di rischio che può avere livelli diversi di gravità. L’elaborazione psicologica della vicenda consente un’attribuzione di significato e dunque una scelta mirata della risposta (educativa, assistenziale, psicosociale, psicoterapeutica) e del contesto cui rivolgerla (individuo, famiglia, scuola, gruppo dei pari).
I minori di quattordici anni non sono imputabili e i loro presunti reati non prevedono risposte penali; la denuncia innesca tuttavia una procedura i cui meccanismi possono avere importanti conseguenze sul piano evolutivo. All’adolescente e alla sua famiglia viene rivolta un’accusa che non comporta diritto di replica e di difesa, né confronti con chi ha sporto la denuncia, il cui punto di vista assume quindi il valore di verdetto inappellabile, anche se non esita in una condanna; ciò favorisce processi di etichettamento che diventano drammatici nelle situazioni in cui i mass media facciano da cassa di risonanza all’evento; la garanzia dell’anonimato per i minori non fornisce infatti alcuna protezione per quanto riguarda l’ambiente immediatamente circostante.
L’effetto sul sistema educativo è spesso quello di incrementare il controllo, il che, se in qualche caso può far da deterrente ad ulteriori reati, più spesso interferisce in senso antievolutivo con il processo di separazione.
Se consideriamo i diversi aspetti delle risposte degli adulti in relazione ai compiti di sviluppo, queste interferenze sono evidenti: il sistema narcisistico, impegnato nella costruzione dell’identità, può subire l’impatto traumatico dell’etichettamento sociale; il processo di separazione-individuazione essere bloccato da una sorta di reinfetazione in seno alla famiglia; la nascita sociale messa a rischio dai meccanismi d’espulsione dal ruolo di studente e dalla socializzazione scolastica.
Tali fattori rendono necessario un tempestivo intervento di rielaborazione che ricollochi gli avvenimenti nella dimensione evolutiva e restituisca loro in quest’ambito un significato soggettivo, così da consentire e sollecitare una risposta mirata dei diversi contesti educativi.
Riassunto:
In questo lavoro vengono presentate alcune riflessioni sulle risposte degli adulti alla comunicazione contenuta nei reati commessi da preadolescenti e sulle loro conseguenze sul piano evolutivo.
La denuncia segnala una difficoltà nella relazione del minore con il suo contesto evolutivo e a sua volta mobilita risposte che possono essere di supporto o d'ostacolo alla crescita. La non imputabilità dei minori di quattordici anni li salvaguarda dall'impatto traumatico con il sistema della giustizia, ma non impedisce che la denuncia inneschi una procedura che può avere importanti conseguenze sul piano evolutivo, specie quando i mass media fanno da cassa di risonanza all'evento.
L'effetto immediato sul sistema educativo è un incremento del controllo, che se da un lato può far da deterrente ad ulteriori comportamenti trasgressivi, più spesso agisce in senso antievolutivo, sia sul processo di separazione-individuazione in corso che sulla costruzione dell'immagine di sé.
In quest'ambito la consultazione psicologica ha scopo di cogliere il significato affettivo del comportamento trasgressivo nell'ambito del percorso evolutivo, consentendo un tempestivo intervento di rielaborazione del senso soggettivo degli avvenimenti e sollecitando una risposta corretta da parte dell'ambiente familiare, scolastico o sociale.

Riassunto
In questo lavoro vengono presentate alcune riflessioni sulle risposte degli adulti alla comunicazione contenuta nei reati commessi da preadolescenti e sulle loro conseguenze sul piano evolutivo.
La denuncia segnala una difficoltà nella relazione del minore con il suo contesto evolutivo e a sua volta mobilita risposte che possono essere di supporto o d'ostacolo alla crescita. La non imputabilità dei minori di quattordici anni li salvaguarda dall'impatto traumatico con il sistema della giustizia, ma non impedisce che la denuncia inneschi una procedura che può avere importanti conseguenze sul piano evolutivo, specie quando i mass media fanno da cassa di risonanza all'evento.
L'effetto immediato sul sistema educativo è un incremento del controllo, che se da un lato può far da deterrente ad ulteriori comportamenti trasgressivi, più spesso agisce in senso antievolutivo, sia sul processo di separazione-individuazione in corso che sulla costruzione dell'immagine di sé.
In quest'ambito la consultazione psicologica ha scopo di cogliere il significato affettivo del comportamento trasgressivo nell'ambito del percorso evolutivo, consentendo un tempestivo intervento di rielaborazione del senso soggettivo degli avvenimenti e sollecitando una risposta corretta da parte dell'ambiente familiare, scolastico o sociale.

Note:
1) Per la realizzazione del progetto è stato costituito un comitato scientifico composto dal Presidente della Cooperativa Minotauro (prof. Gustavo Pietropolli Charmet) e dal responsabile del Servizio Minorenni con Procedimenti Penali del Comune di Milano (dr.ssa Marina Gasparini). L’équipe di lavoro è stata costituita da tre psicologi (dr.ssa Cristina Colli, dr. Alfio Maggiolini, dr.ssa Elena Riva), due educatori (dr.ssa Romina Sada, dr.ssa Nicoletta Simionato), un’assistente sociale (sig. Luisa Terragni) e due sociologi (dr. Riccardo Grassi, dr. Carlo Barone)





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