QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE
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Dal n° 37 - 2002
Tra leggerezza e molteplicità
Percorsi di orientamento per le "relazioni a legame debole"
Laura Capantini*
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Riassunto
Una digressione nella critica letteraria che rilegge le Lezioni Americane di Italo Calvino e i quattro valori letterari per il prossimo millennio - leggerezza, rapidità, esattezza e molteplicità - come criteri di orientamento e di riflessione intorno alle pratiche del lavoro sociale "a legame debole".
Abstract
BETWEEN LIGHTNESS AND MANIFOLDNESS: GUIDANCE FOR "WEAK BOND RELATIONS"
A digression into literary criticism as an occasion for reading the Italo Calvino's Six Memos for the Next Millenium and the literary values - Lightness, Rapidity, Exactness and Manifoldness - as criteria for guidance and reflections and thought about the practice of the social work with "weak bond".
«In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa.»
Queste parole non sono il racconto dei fantasmi di un paziente in psicoterapia, né i pensieri di un operatore di strada sull'orlo del burn-out, ma l'inizio di una riflessione sulla letteratura che Italo Calvino sviluppò nell'estate del 1985 per una serie di lezioni che avrebbe dovuto tenere alla Harvard University, con il titolo Six memos for the next millennium, pubblicate postume con il titolo italiano di Lezioni Americane.
Ne vorrei proporre qui una rilettura che, trascendendo l'ambito di critica letteraria, le pone in trasparenza, in filigrana a quei segmenti del lavoro sociale che si connotano e si descrivono come esperienze di relazione "a legame debole": lavoro di unità di strada, educativa territoriale con adolescenti, counselling informale, e «molte altre pratiche del lavoro sociale finalizzate a sostenere la sopravvivenza fisica, a sostenere situazioni di grave emarginazione e povertà (nell'area della salute mentale, della tossicodipendenza, in carcere, in tutti i percorsi assistenziali e riabilitativi, in centri di accoglienza e cura per le popolazioni immigrate e più in generale anche in tutte quelle operazioni di contrasto al disagio giovanile e alla disgregazione sociale)» (Ranci, 2001).
Si tratta di esperienze di lavoro che vivono quella "debolezza" teorizzata filosoficamente già da una ventina di anni, in maniera essenziale e molto concreta - rispetto a setting di lavoro fortemente destrutturati, rispetto alla relazione spesso occasionale e discontinua con i destinatari degli interventi, rispetto alla mancanza di una richiesta esplicita di aiuto e alla possibilità di stipulare un patto terapeutico o di consulenza chiaro, rispetto a obiettivi che si collocano sempre sull'emergenza e rispetto anche allo scarso riconoscimento sociale delle professionalità che in questi contesti operano -. Si tratta di esperienze in qualche modo di frontiera e condividono, con quelle manifestazioni della vita dell'uomo di fine o inizio millennio che continuano a sperimentare la "debolezza" come tratto essenziale dell'esistere, il bisogno di un ancoraggio nella riflessione, del rispecchiamento in un discorso - teoria - che le aiuti a rintracciare il significato nella complessità dei riferimenti, a riconoscere il senso delle azioni in circuiti multidimesionali di cause ed effetti, in un percorso necessariamente aperto, in un dialogo che non si conclude, e che accoglie come contributi preziosi le contaminazioni dei diversi saperi.
In questa prospettiva di ricerca di significato nella "debolezza", le riflessioni che seguono si presentano come possibili percorsi di pensiero, che proprio per la loro valenza di percorso, possono contribuire ad orientarci nelle diverse situazioni di lavoro sociale e psicologico a legame debole. I valori letterari che Calvino propone di trasmettere come eredità al terzo millennio, si presentano alla nostra lettura come criteri di orientamento, che vanno a coinvolgere dimensioni diverse della nostra operatività: dalla progettazione, agli aspetti organizzativi, alla metodologia, alla valutazione, in maniera non sistematica, spesso solo per accenni e per suggestioni, con una valenza essenzialmente metaforica.
La prima delle lezioni americane - senz'altro la più suggestiva - che apre la serie di queste riflessioni tratta della Leggerezza; ripartendo dalla citazione iniziale, ecco come Calvino introduce l'idea di "leggerezza":
«In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa» (Calvino, 1993, p. 8)
I problemi, i contesti con cui si trova ad agire un operatore sociale che opera in ambiti destrutturati, in relazioni a legame debole appaiono spesso pesanti come macigni: prostituzione, dipendenze, abusi, sfruttamenti, intolleranze, grave emarginazione, malattia mentale, carcere, illegalità, violenza, adolescenze fortemente sofferenti, silenzi, assenza di prospettive per il futuro. Tutto talvolta sembra talmente immodificabile da assomigliare all'inamovibilità e alla fissità delle pietre, ai tempi delle montagne: una burocrazia stagnante, una macchina assistenziale che segue tempi propri, esigenze amministrative, budget, finanziamenti, politica, indifferenza, rinuncia...
Ovunque ci volgiamo: la Medusa, il terribile mostro della mitologia greca, dalla chioma di anguille, che trasforma in pietra chiunque osa guardarla; il suo sguardo blocca la vita, come una fonte di energia negativa che progressivamente minaccia oltre la realtà esterna, anche il nostro mondo interno, la nostra motivazione, la nostra capacità di agire, provare emozioni, pensare con intelligenza... che ci espone al rischio di burn-out. Tutto sembra finire ogni volta in un vicolo cieco... Come uscirne?
«L'unico eroe capace di tagliare la testa della Medusa è Perseo, che vola coi sandali alati, Perseo che non rivolge il suo sguardo sul volto della Gorgone, ma solo sulla sua immagine riflessa nello scudo di bronzo ... per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero: i venti e le nuvole, e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un'immagine catturata da uno specchio»"(Ibid., p. 8).
Ecco che il mito ci offre alcune prime indicazioni e ci introduce al tema della Leggerezza: la "leggerezza" e la "riflessione" come "risorsa e metodo" per affrontare la negatività e il potere paralizzante di Medusa; al di là della dimensione eroica del racconto, la figura di Perso è suggestiva per
1. la sua capacità di "volare con sandali alati", di "sostenersi su ciò che vi è di più leggero: i venti e le nuvole"; tali immagini ci suggeriscono alcune caratteristiche di chi opera in setting deboli e destrutturati:
- una idealità alta, forse vicina a quella dei voli pindarici, dei sogni; probabilmente una dimensione di vita personale che contempli la leggerezza dei desideri, delle passioni, della vita interiore; una base sicura personale fatta di "nuvola", che per ciascuno significherà coltivare una propria qualsivoglia dimensione spirituale;
- la capacità di muoversi con efficacia in quella realtà "volatile" e "leggera" delle relazioni informali, dei gruppi di base, degli incontri fugaci che costituiscono il setting proprio del lavoro a legame debole, sia con le marginalità forti che con l'adolescenza.
2. la sua strategia per affrontare la forza pietrificante di Medusa: Perseo non viene paralizzato dalla Gorgone, perché, pur decidendo di affrontare il suo sguardo, sceglie tuttavia di non farlo direttamente; il successo di Perseo consiste nella visione indiretta riflessa nello scudo-specchio, metafora della separazione e della riflessione come strumenti di protezione.
Il lavoro a legame debole richiede questa capacità di trovare la "via dello specchio" la via indiretta; una via che consenta di affrontare problematiche difficili e complesse, proteggendosi. Affrontare direttamente la Gorgone può significare porsi di fronte alla realtà con un atteggiamento disposto ad un forte coinvolgimento personale, a una presa in carico senza limiti, con aspettative elevate di risoluzione dei problemi, con senso di sfida, di onnipotenza; tali strategie conducono facilmente a risultati deludenti e spesso al burn-out. L'operatore, invece, aumenta la propria capacità di influire con successo quando riconosce e accoglie la consapevolezza della propria differenza e i limiti del proprio intervento, e decide di tutelare se stesso e il proprio lavoro, attrezzandosi con strumenti di riflessione - tempi personali, confronto in équipe, gruppi di supervisione, consulenze individuali, formazione, letture - che gli consentono di
- superare i rischi di invischiamento nelle relazioni;
- di guardare ai problemi da prospettive differenti, di scorgerne sfaccettature e aspetti "laterali".
In questo modo, come a Perseo, all'operatore è data la possibilità di intervenire in maniera "potente" nella realtà complessa dell'emarginazione, della precarietà, della sofferenza, del completamente altro da sé, bloccandone l'energia paralizzante. E tuttavia la riflessione procede ulteriormente:
«Il rapporto tra Perso e la Gorgone è complesso: non finisce con la decapitazione del mostro. Dal sangue della Medusa nasce un cavallo alato: Pegaso; la pesantezza della pietra può essere rovesciata nel suo contrario; con un colpo di zoccolo sul monte Elicona, Pegaso fa scaturire la fonte da cui bevono le Muse ... Quanto alla testa mozzata, Perseo non l'abbandona ma la porta con sé, nascosta in un sacco; quando i nemici stanno per sopraffarlo, basta che egli la mostri sollevandola per la chioma di serpenti, e quella spoglia sanguinosa diventa un'arma invincibile nella mano dell'eroe ... Perseo riesce a padroneggiare quel volto tremendo tenendolo nascosto, come prima l'aveva vinto guardandolo in uno specchio. È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé che assume come proprio fardello ... Sul rapporto tra Perseo e Medusa possiamo apprendere [ancora] qualcosa di più leggendo Ovidio nelle Metamorfosi. Perseo ha vinto una nuova battaglia, ha massacrato a colpi di spada un mostro marino ... E ora si accinge a fare quello che ciascuno di noi farebbe dopo un lavoraccio simile: va a lavarsi le mani. In questi casi il suo problema è dove posare la testa di Medusa. E qui Ovidio ha dei versi che mi paiono straordinari per spiegare quanta delicatezza d'animo sia necessaria per essere un Perseo, vincitore di mostri: "Perché la ruvida sabbia non sciupi la testa anguicrinata, egli rende soffice il terreno con uno strato di foglie, vi stende sopra dei ramoscelli nati sott'acqua e vi depone la testa di Medusa a faccia in giù". Mi sembra che la leggerezza di cui Perseo è l'eroe non potrebbe essere meglio rappresentata che da questo gesto di rinfrescante gentilezza verso quell'essere mostruoso e tremendo, ma anche in qualche modo deteriorabile, fragile. Ma la cosa più inaspettata è il miracolo che ne segue: i ramoscelli marini a contatto con la Medusa si trasformano in coralli, e le ninfe per adornarsi di coralli accorrono e avvicinano ramoscelli e alghe alla terribile testa» (Ibid., pp. 9-10).
Questa complessità del rapporto tra Perseo e Medusa diventa evocativa del rapporto complesso che permane tra l'operatore sociale e la sua dimensione lavorativa - interna e esterna -. Il racconto di Ovidio ci suggerisce infatti che:
1. la realtà di sofferenza e disagio con cui l'operatore si confronta, la difficoltà di sostenere relazioni in setting destrutturati diventano qualcosa che con strumenti e strategie appropriate si possono "dominare"; "dominio" non significa rifiuto e cancellazione della realtà dominata; piuttosto, avere la meglio sull'energia negativa che in tali realtà si sperimenta, significa assumerla come parte integrante del proprio bagaglio esistenziale; da quel momento Perseo non si separa più dal suo fardello mostruoso.
2. Come convivere con tale potenza negativa? Perseo tiene nascosta in un sacco la testa di Medusa e la tratta con delicatezza; di nuovo l'immagine ci suggerisce modalità di protezione, cura, rispetto. Abbiamo riflettuto prima sull'esigenza fondamentale per l'operatore di trovare strumenti di protezione di sé e del proprio lavoro; qui è come se ci venisse proposta l'esigenza di tutelare l'origine stessa del disagio, della sofferenza, della negatività, che significano cura e rispetto del dolore altrui, attenzione all'umanità e alla dignità delle persone incontrate, e allo stesso tempo cura della dimensione interna di disagio che il confronto con la realtà esterna può suscitare; ci vengono in mente le prassi quotidiane di attenzione e costruzione meditata della relazione e di nuovo gli strumenti di supervisione personale che necessariamente si accompagnano a questo tipo di lavoro.
3. In questo modo il fardello mostruoso diventa l'arma più potente nelle mani di Perseo, quella che gli consente di affrontare altri mostri; come dire che l'operatore che abbia fatto i conti con la propria gorgone e che sappia gestire il proprio fardello di energia negativa sarà in grado di affrontare con maggior efficacia nuove difficoltà e prove.
4. Infine, il mito ci suggerisce che non solo l'energia negativa serve ad affrontare e vincere nuovi mostri, ma da essa scaturiscono positività inattese: la metafora suggerisce la possibilità di riconoscere all'interno delle problematiche complesse con le quali il lavoro sociale a legame debole si confronta non solo l'aspetto della difficoltà, della stortura, del limite da superare, ma anche la possibile risorsa che esse recano con sé e la loro sorprendente capacità trasformativa. Ci vengono in mente a questo proposito tutti quegli episodi in cui l'imprevedibilità delle relazioni e delle vicende umane ci hanno sorpreso positivamente, dischiudendo processi di cambiamento.
La riflessione di Calvino intorno alla leggerezza si conclude naturalmente con una riflessione intorno alla scrittura come strumento "leggero" che, per la sua capacità di suggerire immagini fatte di parole, risponde al bisogno antropologico dell'uomo di fare "salti" e "lievitazioni" rispetto alla pesantezza della realtà quotidianamente vissuta - Calvino ci rammenta il potere degli sciamani o delle streghe nelle tribù e nei villaggi, per le loro capacità immaginifiche.
Ed anche qui, dove il contenuto delle Lezioni Americane si fa prettamente letterario, riscontriamo sorprendenti contaminazioni con il lavoro sociale in generale e in particolare con quello di cui ci stiamo occupando. Se la psicoterapia nasce sul riconoscimento del potere curativo della parola, della potenza delle immagini mentali, tale potenza si trasferisce anche ai setting destrutturati nella misura in cui l'operatore sociale sviluppa competenze comunicative - che si avvalgono anche dell'uso sapiente della parola e del silenzio - che gli consentano di creare con le persone che incontra esperienze significative, ovvero contesti - cornici, se pur deboli, di significato, all'interno dei quali permettere alla persona incontrata di ritrovarsi e riconoscersi; contesti-cornici di significato che nascono attraverso azioni semplici che conferiscono ordine, continuità, permanenza e pregnanza all'interno di realtà disgregate, frammentate, disperse, anonime; contesti-cornici anche simbolici o metaforici, che proteggono in qualche modo la persona, e non la sbattono in faccia alla propria gorgone, ma le consentono di affrontare con rispetto, cautela e "di riflesso" la propria situazione di dolore (ci vengono in mente, oltre alla competenza comunicativa di cui dicevamo, anche strumenti sociopedagogici più complessi, e più vicini alla "narrativa", come la raccolta di autobiografie, di racconti, di storie).
Il secondo valore letterario che Calvino ci propone è la Rapidità.
In un mondo che ha fatto della velocità il suo mito, la "rapidità" viene intesa da Calvino come la capacità di collegare in maniera intuitiva ciò che appare disgregato e sconnesso. Si tratta quindi di una velocità mentale volta a stabilire connessioni.
Trasferita nei nostri contesti di lavoro, la "rapidità" diventa quella competenza dell'operatore che vive in relazioni discontinue e fugaci indispensabile a "cogliere l'attimo", nella consapevolezza che anche uno scambio comunicativo breve può veicolare riconoscimenti e costituire un'esperienza "unica, densa, concisa, memorabile".
La rapidità diventa la competenza necessaria a realizzare quelle esperienze significative di "incorniciamento" di cui dicevamo prima, in contesti in cui né la continuità, né la necessità della relazione è garantita da alcunché. La velocità mentale permette all'operatore di cogliere i segnali nella comunicazione, di connettere creativamente bisogni e possibili risposte, di formulare messaggi pregnanti e per questo degni di ricordo - che diano riconoscimenti e permessi, che legittimino bisogni - di «cogliere nel contatto relazionale, quella specifica presenza umana nel suo originario modo di essere nel mondo» (Ranci, 2002).
In questo senso alla Rapidità si accompagna l'Esattezza.
«Esattezza» dice Calvino «per me significa tre cose:
1. un disegno dell'opera ben definito e ben calcolato;
2. un'evocazione d'immagini visuali nitide, incisive, memorabili; in italiano abbiamo un aggettivo che non esiste in inglese, "icastico", dal greco eikastos;
3. un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell'immaginazione» (1993, p. 65-66).
Partiamo dal secondo e dal terzo dei significati di Esattezza delineati. Se la competenza comunicativa si profila come uno degli strumenti principali del lavoro nelle relazioni a legame debole, allora l'"esattezza" diventa il criterio che ci orienta nella formulazione di messaggi chiari, limpidi, che colgono il bisogno della persona, che evocano immagini "memorabili".
"Esattezza" quindi, significa un uso attento e non approssimativo della comunicazione
- nella sua dimensione verbale:
ascolto e riconoscimento del linguaggio della persona incontrata, restituzione di messaggi che utilizzano il più possibile il suo linguaggio, le sue parole, e che nello stesso tempo la aiutano a dare un nome alle proprie esperienze, alle proprie emozioni, a descrivere con le parole i propri vissuti, in quel processo di riflessione della propria esperienza che abbiamo visto essere la risorsa fondamentale per dominare il dolore e favorire l'emergere del positivo.
Calvino, ovviamente dal suo punto di vista, insiste molto sul valore icastico di certi termini, sul potere evocativo della parola, relativamente a immagini nitide e incisive, valore che condividiamo in considerazione del fatto che dietro la scelta di ogni parola vi è per la persona un mondo particolare e personalissimo di significati, connessioni, ricordi.
- Nella sua dimensione non verbale: nell'uso sapiente di tutto ciò che è non verbale, ma che comunica in maniera anche più pregnante delle parole, in particolare dei silenzi, delle pause, che aprono spazi al pensiero, alla novità, punteggiano, incorniciano e valorizzano il senso della comunicazione.
Infine "esattezza" come possesso di un piano preciso dell'opera che si va a compiere ci rimanda alla necessità di definire con precisione, anche per i setting destrutturati e deboli, obiettivi, metodologie, criteri e indicatori di valutazione anche qualitativi degli interventi. Da qui il tempo dedicato a progettazioni non approssimative, alle analisi dei bisogni, alla contrattazione e all'acquisizione di una metodologia costantemente progettuale, capace di ridefinire in itinere i parametri dell'intervento.
Il quarto valore letterario che Calvino ci prospetta è la Visibilità.
«Se ho incluso la visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall'allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini» (Ibid., p. 103).
"Visibilità" come pensare per immagini, dunque. Trasferita nella nostra riflessione questa accezione di "visibilità" significa per noi
- la capacità di rielaborare per immagini i nostri vissuti, la realtà complessa nella quale operiamo, le relazioni che costruiamo; ci vengono in mente le tecniche della metafora, del come se..., della fantasia guidata;
- la capacità di utilizzare i percorsi del pensiero laterale, la creatività nella risoluzione dei problemi, le tecniche di problem solving;
- la capacità di visualizzare prospettive, interventi, possibilità, di vedere il cambiamento, di progettare, come dicevamo con esattezza il futuro.
«Penso a una possibile pedagogia dell'immaginazione, che abitui a controllare la propria visione interiore senza soffocarla e senza d'altra parte lasciarla cadere in un confuso, labile fantasticare, ma permettendo che le immagini si cristallizzino in una forma ben definita, memorabile, autosufficiente, "icastica"» (Ibid., p. 103).
D'altra parte nel nostro contesto "visibilità" significa anche rendere visibile ciò che spesso è invisibile:
- le persone invisibili delle città, delle comunità, principali destinatarie degli interventi a "legame debole", che proprio i processi di emarginazione rendono invisibili;
- il lavoro stesso nei setting destrutturati; le équipe di strada, tanto con le marginalità, che con le compagnie e i gruppi di adolescenti, sono per loro natura poco visibili, ma spesso soffrono di scarso riconoscimento anche nell'ambito dei servizi socio-sanitari strutturati, forti, e con ciò visibili. Da qui la necessità di strumenti di maggior visibilità, quali la documentazione attenta del lavoro, una socializzazione maggiore, tra le diverse équipe dei servizi, delle esperienze realizzate, delle difficoltà e degli obiettivi raggiunti, una maggiore integrazione delle diverse professionalità che concorrono a questo tipo di interventi.
Il quinto ed ultimo criterio di orientamento che deriviamo dalle Lezioni Americane è la Molteplicità.
Probabilmente si tratta del valore più esplicitamente postmoderno di Calvino e di quello più affine alle attuali metodologie di analisi e intervento sociali.
Calvino ce lo introduce attraverso una lunga e suggestiva citazione di Gadda: «Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d'agnello d'Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s'intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista sembravano banalità. Non erano banalità ... Sosteneva, fra l'altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l'effetto che dir si voglia d'un unico motivo, d'una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico "le causali, la causale" gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia ... La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l'effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello ... e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata "ragione del mondo"» (Ibid., pp. 113-14).
«Il commissario Ingravallo, dunque, precorrendo i termini della sociologia e della psicologia, vede il mondo come un "sistema di sistemi", in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è condizionato» (Ibid., p. 116).
Se la letteratura si pone il problema di come rappresentare «senza attenuare l'inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento» (Ibid., p.116), l'azione sociale si pone il problema di come inserirsi intenzionalmente in tale groviglio, per contribuire ad attivare risorse ed eventualmente circuiti di miglioramento, e successivamente di come valutare anche il risultato del proprio intervento. Le pratiche del lavoro a legame debole si interrogano a maggior ragione su tale prospettiva, in quanto, nel "groviglio complessivo" si inseriscono appunto, più debolmente, apparentemente con meno forza di altri interventi, a provocare cambiamenti, anzi talvolta il cambiamento - inteso come cambiamento delle variabili più macroscopiche dei fenomeni considerati - non rientra neppure negli obiettivi dell'intervento.
La risposta letteraria a tale esigenza di rappresentazione della "molteplicità" è l'enciclopedismo, è «il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo» (Ibid., p. 116).
Nell'azione sociale il criterio della "molteplicità" si traduce:
1. in una rappresentazione dei fenomeni complessi come rete, con nodi che irraggiano a eventuali risorse, carenze, criticità.
2. In una consapevolezza della frammentarietà degli interventi e anche della molteplicità delle possibili risposte a uno stesso problema.
3. In un lavoro di integrazione di competenze e professionalità variegate, che vede il momento del lavoro nel setting destrutturato come il momento dell'aggancio, del sostegno di base, ma che rimanda alla possibilità di interventi più articolati, con servizi e risposte specifiche maggiormente strutturate; la "molteplicità" ci rimanda qui alla necessità del lavoro d'équipe multiprofessionale a sostegno del lavoro a legame debole, e del lavoro di rete effettivo ed efficiente a sostegno dei progetti che prevedono lavoro di strada.
4. In una sorta di enciclopedismo di competenze, nella necessità del contributo di saperi diversi, nella polivalenza dell'operatore stesso; se la competenza comunicativa, di cui abbiamo parlato prima è una delle principali risorse nella relazione a legame debole, la professionalità degli operatori che lavorano in questi contesti prevede, come sappiamo, numerose altre competenze: dalla conoscenza approfondita della fenomenologia del proprio ambito di intervento, alla capacità di analisi e valutazione dei problemi, dalle competenze progettuali, a quelle di gestione di gruppi, fino alla capacità di documentare efficacemente il proprio lavoro, etc. e non si completa di saperi tecnici e sociali, ma si apre e utilizza le competenze, le conoscenze, le passioni personali, la propria rete di significati.
Proprio questo aprirsi dei saperi a contaminazioni reciproche credo giustifichi anche la nostra digressione nella critica letteraria, e ci consente di chiudere queste nostre riflessioni, con una sospensione, piuttosto che con un finale, con il desiderio di tessere nuove trame in una molteplicità che di per sé è inconclusiva.(1)
Note:
* Laura Capantini, consulente psicosociale ha completato la sua formazione presso la Scuola di Counselling psicosociale del Centro di Psicologia e Analisi Transazionale, Milano. È collaboratrice e docente dell'Agenzia Formativa PerFormat di Pisa e responsabile della formazione e progettazione della Cooperativa Sociale Il Cerchio di Pisa.
1) Queste pagine sono nate in seguito ad alcune conversazioni sulla "leggerezza" con Andrea De Conno, Anna Emanuela Tangolo e Silvia Grassi di PerFormat, che vorrei ringraziare per il loro contributo e la loro collaborazione.
Bibliografia
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BATESON G., Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976.
CALVINO I., Lezioni Americane, Mondadori, Milano 1993.
DEMETRIO D., Raccontarsi, Cortina, Milano 1995.
DERIU M. (a cura di), Gregory Bateson, Mondatori, Milano 2000.
MANGHI S. (a cura di), Attraverso Bateson - Ecologia della mente e delle relazioni sociali, Ed. Anabasi, 1994.
RANCI D., Esperienze di confine. Chi fuori, chi dentro?, in «Quaderni di Psicologia, Analisi Transazionale e Scienze Umane», 27-28, 1999.
RANCI D., La relazione a legame debole nell'intervento sociale: aspetti teorici e tecnici, in «Prospettive Sociali e Sanitarie», XXXI, 4, marzo 2001.
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