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C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 43/2005

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 44 - 2005


Le lingue dei bambini

Dolores Munari Poda*




porto il nome di tutti i battesimi
ogni nome il sigillo di un lasciapassare…

(Fabrizio De André, Khorakhanè)

A Willie, Paco, Isabel, Elias, Jacqueline, Amelie, Fanita, Julia, Emile, Agota...
a tutti i bambini che hanno imparato con fatica, con curiosità, con speranza
le parole di mondi nuovi

Riassunto
Sempre più spesso i terapeuti sono chiamati ad ascoltare le esperienze di vita di persone piccole e grandi che sono nate in terre lontane, sono entrate naturalmente in confidenza con la loro lingua d’origine, hanno attraversato nuovi cieli e nuovi mari e sono infine approdate nel nostro paese. Qui hanno ripreso la strada. L’articolo intende soffermarsi specificamente sulla storia terapeutica di due bambini di cultura diversa, allargando la riflessione a modi altri e possibili di approcciarsi alle parole del mondo non solamente drammatici, sempre impegnativi, incarnati da altri piccoli che, cresciuti, ce ne hanno lasciato dolente, oggettiva, brusca o lieve testimonianza. A riprova del fatto che le parole non sono mai neutre. Apprenderle, usarle, sceglierle, accettarle, rifiutarle risponde a nuclei ingiuntivi profondi, a nostre insondabili conclusioni di sopravvivenza, ad antiche decisioni di copione.

Abstract
CHILDREN’S LANGUAGES
Therapists are more and more asked to listen to life experiences of young and adult persons born in faraway lands, who have a natural fluency in their original language, have crossed new skies and new seas and they have finally landed on our country. Here they have started again on a new road. The article shall specifically focus on the therapeutic history of two children from different cultures, widening the reflection to other possible modalities to approach to world words which not only are dramatic, but always anyhow difficult and embodied by other children who, once grown up, have left a painful, objective, brisk or light witnessing. As a proof that words are never neutral. Learning, using, choosing, accepting, rejecting them is a response to deep injunctive nuclei, to some of our inexplicable survival conclusions and ancient script decisions.

Willie e Paco
Dice Mario Luzi: «Il bambino entra e con lui la grazia».
Il bambino che entra vestito della sua grazia porta con sé anche il suo disagio.
Non ha scelto lui di “entrare”.
Lo hanno deciso i grandi per lui.
Talvolta, quando il bambino viene da un paese straniero, i grandi che lo accompagnano non sono neppure i suoi genitori, ma persone attente che di lui si prendono cura. Possono essere insegnanti illuminati, educatori sensibili, anime belle.
Il bambino entra nella stanza del terapeuta e piccole parole nomadi prendono ad accompagnare i giochi (se gioca). Equilibrismi lessicali tentano di spiegare le cose del mondo.
Con parole cangianti e nessuna scrittura (De André, 1996) il bambino e il terapeuta si incontrano, ciascuno dei due provando nuove evoluzioni prova dopo prova, sorriso dopo sorriso, cercando di non perdere la voce, di capire e di farsi capire, prima ancora di comprendere e di farsi comprendere.
Così ricordo il primo pomeriggio complesso e affollato con Willie, anni dieci, volto chiuso e duro, corpo massiccio, nessuna concessione mondana, e con suo fratello Paco, anni cinque, agile e fiducioso, guizzante e furbetto. Insieme, perché le terapie con i bimbi che vengono da lontano devono fare i conti non solo con le distanze delle grandi città e con gli impegni scolastici, di doposcuola, di sostegni vari, ma anche con i turni di lavoro dei familiari, che sono sempre molto gravosi e, spesso, con la disponibilità della persona di buona volontà che li accompagna.
Willie e Paco arrivano dall’altro capo del mondo. Vivono con la madre nella casa di una anziana signora che lei assiste e loro molto amano e rispettano (ricambiati) per antica tradizione e cultura, per affetto fresco e gentile, per paura spaventosa del futuro.
«Se muore la Signora, non abbiamo più nessuna casa e nessun posto per vivere», dice cupo Willie.
«Io la faccio ridere, la Signora, così non muore mai», commenta Paco.
Nessun posto perché non si può tornare indietro nel paese lasciato e non si sa dove andare se si dovesse essere costretti ad abbandonare la dimora ospitale.
Poche notizie del luogo d’origine, scarsa voglia di raccontarlo perché le memorie fanno male e molte cose, si sa, è meglio non farle sapere a nessuno.
«Non si sa mai cosa non è giusto da dire», considera Willie nella sua saggezza.
Di sicuro c’è la nostalgia dopo questo lungo viaggio di sola andata, senza biglietto di ritorno.
Anzi la «nostalhia» che, di sera specialmente, prende alla gola, «quando vai a letto e sembra come la malattia dell’asma», dice Willie che infatti soffre d’asma.
una nostalgia senza nome piangeva senza suono
… nella mia anima…
scriveva H. von Hofmannsthal.

Il dizionario della lingua italiana dice che la nostalgia (nostos = ritorno, algos = dolore) è un irresistibile desiderio della terra lontana che può diventare vera malattia della distanza dai propri luoghi familiari e amati.
«“Nostalgia” – scrive Umberto Galimberti in Parole Nomadi (Saggi Feltrinelli, 1994) – è una parola introdotta da uno studente di medicina diciannovenne che, nel 1688, presenta a Basilea una tesi di laurea in cui propone di nominare “nostalgia” una sindrome che colpiva militari mercenari in terra straniera, ragazze al servizio presso famiglie lontane dalla loro terra natia, esuli, sradicati, stranieri.»
La nostalgia di Willie è diversa dalla nostalgia di Paco, perché ogni nostalgia ha colori e sapori e odori differenti.
Willie dice: «La mia casa era nella montagna, in un paese o in una città, non so più bene dove era. Mia mamma era già in Italia. Io stavo con mia zia. Mia zia mi raccontava la storia di Capurecita Roja. Noi diciamo solo Rojo».
Interviene Paco col suo lessico personalissimo: «El caciator bueno salva Rojo che estava nella pancia del lupo».
Procede Willie: «Ma il personaggio più importante della storia è il papà di Rojo. Il papà di Rojo è un falegname di trentadue anni. Quando Rojo è andata nel bosco, il papà è andato a lavorare. Era un papà gentile e la accompagnava sempre tutte le volte che aveva tempo. Quando stava lavorando, no. Quel giorno era nel bosco a tagliare la legna. La mamma faceva le focacce per la nonna e qualche volta i panini. Lei non ha pensato di accompagnare Rojo… Se il papà era a casa, non lasciava mai di sicuro andare Rojo da sola nel bosco».
L’opinione di Willie rispecchia curiosamente il pensiero di Berne.
«Ma quale è la madre che manda la propria figlia sola in una foresta, sapendo che ci sono in giro dei lupi?» (Berne, Ciao... e poi?, 1979).
Paco dice: «È bello per Rojo avere un papà». E guarda Willie.
Il terapeuta, colpito dalla presenza piuttosto singolare del papà di Rojo, chiede maggiori informazioni sulla vita di Rojo medesima.
Willie narra come se parlasse di una persona di famiglia: «Ti dico tutto bene. Tanto tempo fa molto lontano c’era una casetta dove abitavano quattro persone, la mamma, Rojo, il papà e la zia che era sorella del papà. Un giorno il papà di Rojo è andato a lavorare e la mamma di Rojo è andata a dire a Rojo, che stava tranquilla su un prato, di venire alla sua casa perché le doveva dire una cosa. La mamma ha detto a Rojo: “Vai dalla tua nonna e porta questo pezzo di focaccia, questo burro e questi panini. E non dare ascolto al lupo”».
Interviene Paco: «E quando trovi un signore che ti dà una caramella, dici: “No, grazie!”».
Willie continua: «Rojo va nel bosco, la zia stava aiutando per la cena. Il papà, te l’ho già detto, era al lavoro. Quando torna dice a Rojo: “Solo perché ti sei fermata a raccogliere i fiori, non ti sei accorta che stava arrivando il lupo. Il lupo si nasconde sempre dietro gli alberi. La prossima volta che ti succede di parlar col lupo ti sgriderò”».
Willie racconta di questo mitico padre saggio e tollerante così diverso dal suo. Un padre forse sognato.
Mentre narra, disegna e colora con ogni cura uno strano oggetto. Dice che si chiama “el latigo”.
Spiega: «Tanto tempo fa, anche i figli grandi ricevevano frustate dai loro padri. Adesso non usa più. Era nell’Ottocento».
Paco vivacetto interrompe: «Anche adesso si ricevono botte dal papà…».
Willie chiude deciso l’argomento: «No, era nell’Ottocento. Adesso si sgridano solo, i bambini. Non si picchiano più».
Paco sussulta e tace.
Willie e Paco hanno fatto dono al terapeuta della loro storia centrale: una storia di adulti distratti e provvisori che mandano i bambini da soli ad affrontare pericoli possibili, poi li sgridano e, se capita, li picchiano.
Al fondo c’è un dolore antico, la malattia della distanza. Dove sarà, cosa farà adesso la zia che raccontava le fiabe? Dove era davvero la casa?
Le parole sono un poco spaesate, provvisorie e anche inventate. Nei curiosi neologismi mediterranei si sente la fatica di cambiar pelle (Zoderer, La felicità di lavarsi le mani, 2005), l’ansia di recuperare, tra le fiabe e i racconti che si intrecciano nella memoria, la propria storia, la propria casa lontana.

Se penso a un luogo o un oggetto simbolico per la mia famiglia, – riflette Rosangela Pesenti – penso alla casa stessa.
La vedo in lontananza, punto d’approdo di una strada che per me solo lì porta, alla casa: illuminata, calda, la immagino sempre nella stagione fredda, con porte e finestre chiuse, oltre i vetri la nebbia, gli alberi bianchi di brina. (Pesenti, Trasloco, 1998)

Chissà come la sogna Willie che, spesso, in seduta, tace.
Paco disegna volentieri. Lui conosce ancora, anzi conosce soltanto, la lingua del disegno, che è una delle lingue dei bambini, la più universale. Le sue case sono particolarmente ricche di colori, fatte di tanti pezzi come un puzzle da comporre.

Anche Willie, a volte, disegnerà nel corso dei nostri incontri, ma come sforzandosi di imitare il piccolo fratello o, forse, adattandosi a quello che gli pare un modo di comunicare gradito al terapeuta.
Il suo sforzo personale peraltro è dedicato alla lingua nuova.
È un apprendistato linguistico faticoso, con accelerazioni improvvise («a scuola tu hai bisogno di capire tutto subito, sennò la maestra diventa nervosa»), regressioni dolorose («certi giorni con le parole mi confondo»), e speranza di potersi magicamente “integrare” e sembrare un bambino uguale agli altri («la maestra ha detto che – se mi sforzo ancora un poco – presto sarò un bambino uguale agli altri»), con un fondo di rimpianto sottile per una perdita vissuta come inevitabile e della quale nessuno sembra darsi pensiero («mi pare che non riesco più a ricordare come si dice in espanolo»).
Un dolore grande, compresso e cupo.
Ci aiuta a comprenderlo Agota Kristof.

All’inizio non c’era che una sola lingua. Gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali, erano quella lingua. Non avrei mai immaginato che potesse esistere un’altra lingua, che un essere umano potesse pronunciare parole che non sarei riuscita a capire. Perché avrebbe dovuto farlo? Per quale motivo? (Kristof, L’analfabeta, 2005)

Si va via. Si deve andare. In un posto con altre parole. Ci si sente “analfabeti”.
Non molto diversamente si esprime Julia Kristeva:

Non parlare la propria lingua materna. Abitare sonorità, logiche separate dalla memoria notturna del corpo, del sonno agrodolce dell’infanzia. Portare dentro di sé come una cripta segreta o come un bambino handicappato – amato e inutile – quel linguaggio di un tempo che sbiadisce e non si decide a lasciarvi mai. Vi perfezionate in un altro strumento, come ci si esprime con l’algebra o il violino. Potete divenire virtuosi in quel nuovo artificio che vi procura del resto un nuovo corpo, altrettanto artificiale, sublimato – alcuni dicono sublime. Avete l’impressione che la nuova lingua sia la vostra resurrezione... Ma l’illusione si squarcia quando vi riascoltate, su un nastro registrato per esempio, e la melodia della vostra voce vi ritorna bizzarra… (Kristeva, Stranieri a se stessi, 1988)

Cosa significa fare terapia con bambini di altra lingua?
Ogni bambino, di fatto, anche il più “locale”, propone la sua “lingua”, chi disegna e chi gioca, chi si fa rincorrere e chi non si muove, chi sussurra e chi grida, chi picchia e chi non respira…
Qualcuno ritiene che sia sicuramente più semplice creare una relazione con i bambini che con gli adulti stranieri, considerata la velocità di apprendimento dei piccoli, la risorsa naturale del disegno e la disponibilità al gioco.
Non per tutti i ragazzini è così. Willie, ad esempio, si sedeva composto e compito e dignitosamente, freudianamente si aspettava la sua talking cure.

Ascoltare e condividere le vicende di Willie e Paco, partecipare alla loro “caccia alle parole” (definizione di Willie), caccia che era, insieme, gioco e necessità, ha finito per far riaffiorare vicende di antichi bambini per ciascuno dei quali inoltrarsi in una o più lingue ha avuto risonanze diverse.
Sono comparsi Elias Canetti, Jacqueline Amati Mehler, Fanita English, Emile Cioran, Agota Kristof, Amelie Nothomb…
Con sapiente esperienza tratta questo tema La Babele dell’Inconscio, un libro di particolare interesse dedicato al linguaggio come aspetto essenziale del processo analitico.
È un saggio pubblicato in prima edizione nel 1990 e già allora frutto di anni di pensieri, letture e incontri con «colleghi di varie nazionalità, seminari, relazioni a congressi e convegni intorno al tema di coloro che parlano, pensano, sognano in più lingue» (Prefazione alla nuova edizione di La Babele dell’Inconscio – Lingua madre e lingue straniere nella dimensione psicoanalitica, Cortina, Milano 2003).
Ora il testo, dopo le traduzioni in inglese, francese, spagnolo, tedesco, olandese, portoghese, vede una nuova edizione arricchita e aggiornata con nuovi e interessanti interlocutori anche di contesti disciplinari contigui, dalla linguistica all’antropologia, alla neurologia passando per la critica letteraria, la sociologia, la pedagogia e con una preziosa riflessione introduttiva che integralmente riporto.

C’è un elemento comune e costante che ci preme sottolineare; e cioè che ogniqualvolta parliamo a un nuovo pubblico del polilinguismo-poliglottismo nella dimensione psicoanalitica, dapprima l’ascolto è attento ma un po’ distaccato, come accade d’abitudine quando ci si confronta con tematiche interdisciplinari.
A mano a mano che il discorso si articola, accade invece che alcuni dei presenti – sorprendendo innanzi tutto se stessi – comincino a scoprire delle risonanze emotive profonde, relative a loro proprie vicissitudini attraverso gli idiomi o i dialetti del passato, che testimoniano “dal vivo” quanto i cambiamenti di nome e di luoghi, i linguaggi perduti dell’infanzia o della famiglia, abbiano segnato il cammino della loro identità e della loro storia (Prefazione alla nuova edizione).

Negli anni ciascuno di noi ha affrontato linguisticamente qualche trasloco: con esiti diversi.
Ferenczy, Greenson in parte la Buxbaum – e con loro la Kristeva, Cioran, Bianciotti – vedono nella condizione stessa del multilinguismo la causa – sia pure potenziale _– di una scissione.
Altri ritengono piuttosto che i processi di scissione si appoggino e – per così dire – sfruttino i diversi registri linguistici come un mezzo per organizzarsi ed esprimersi.
Tornando ai bambini da cui siamo partiti, non per tutti certo la “babele” delle lingue è stata o è un problema.
Vi sono culture e ambienti in cui le lingue sono di casa. Ad esempio:

Jacqueline: “nata parlando quattro lingue”.
Scrive Jacqueline Amati Mehler (1990):

A parte l’inglese nel quale si è svolta la mia educazione scolastica, io ho l’impressione di essere nata parlando perlomeno quattro lingue. Non saprei dire quale è stata la mia lingua materna, anche se io considero che sia lo spagnolo. Da un punto di vista reale ciò è assai improbabile, poiché le lingue più usate in famiglia erano il tedesco e l’yiddish. Lo spagnolo e il francese erano a carico dei miei fratelli maggiori e di figure più distanti, benché parte integrante dell’ambiente dei primi tre anni della mia vita, trascorsi metà in Francia e metà in Spagna, finché per le note ragioni belliche, lasciammo l’Europa per l’America Latina. I miei giocattoli, dunque, avevano nomi francesi, le filastrocche erano in yiddish o in tedesco, e parlavo lo spagnolo con i miei fratelli. Bisogna segnalare che le quattro lingue che ho sentito e imparato a capire prima dei tre-quattro anni fanno parte di un patrimonio, potremmo forse dire strutturale, presimbolico, intimamente collegato a esperienze corporee e a vissuti comunque dell’ordine del concreto, strettamente parenti del processo primario.
A differenza dell’inglese e dell’italiano che ho imparato quando già sapevo parlare (in una dimensione, quindi, di poliglottismo), le altre quattro lingue dei miei primi anni sono state assimilate simultaneamente allo sviluppo stesso del linguaggio. Esse inoltre hanno accompagnato emigrazioni e separazioni multiple della mia famiglia e poi mie personali.

Elias: la lingua salvata
Pensiamo all’esperienza di Canetti, nato a Rustschuk sul basso Danubio, dove vivevano persone di origine diversissima e si potevano sentire sette o otto lingue diverse in un solo giorno. Vi abitavano e transitavano bulgari, turchi, spagnoli, albanesi e armeni. In casa Canetti si parlava spagnolo e delle lingue si discuteva spesso.

Ognuno enumerava le lingue che conosceva; era importante padroneggiarne parecchie, con la conoscenza delle lingue si poteva salvare la propria esistenza e anche quella altrui. (Canetti, La lingua salvata, 1977)

Furono molti i paesi di adozione di Elias Canetti: l’Inghilterra, la Svizzera, l’Austria soprattutto.
E ciascuno di essi ha significato una nuova lingua e un nuovo apprendistato, oltre che l’incontro con un’altra cultura.
L’inglese, ad esempio, venne appreso a sei anni attraverso il padre, con piacere e con gioia, con cura e con diligenza.
Mio padre si sforzava di imparare sempre meglio la lingua inglese (…) Talvolta lo udivo mentre ripeteva più volte singole frasi. Le pronunciava lentamente, come qualcosa di molto bello, gli davano un grande godimento e le diceva più di una volta. (Canetti, La lingua salvata, 1977)

Dopo la prematura morte del padre – il bimbo Elias aveva sette anni – si apre per il piccolo la drammatica vicenda del suo avvicinamento al tedesco e, intrecciata con questa, la stagione complessa della difficile vita con la madre.

A Losanna comunque – dove sempre intorno a me sentivo parlare il francese, lingua che appresi quasi inavvertitamente e senza drammatiche complicazioni – vissi sotto l’influsso della mamma la mia seconda nascita in lingua tedesca, e proprio nel travaglio di quella nascita ebbe origine in me la passione che mi avrebbe legato a entrambe, a quella lingua e a mia madre. (Canetti, La lingua salvata, 1977)

Il tedesco fu la “lingua salvata”, la lingua incantata nella quale i suoi genitori privatamente discorrevano da innamorati: «io pensavo che discorressero di cose meravigliose, che si potevano dire soltanto in quella lingua…». Fu anche la lingua della disperazione e della inadeguatezza, considerati i modi traumatici, ossessivi e crudeli, con cui la madre scelse di trasmettergliela.
Fu, dunque, il tedesco la travagliata lingua dell’amore, della passione e del terrore («una lingua madre imparata con ritardo e veramente nata con dolore») e rimase la bellissima lingua canettiana della scrittura.
Una lingua ascoltata, sentita e “vissuta” da bambino come magicamente segreta.

Nei primi sei anni della mia vita, che trascorsi in Bulgaria, in una città sul Danubio, non capivo il tedesco. Ma i miei genitori, che erano andati entrambi a scuola a Vienna, lo parlavano fra di loro. Era la loro lingua segreta. Credo alimentassero il loro amore con i ricordi per loro più preziosi.
(…) Erano giovani e volevano tenere per sé quella lingua. Io li ascoltavo con l’irrefrenabile curiosità di un bambino, imitavo i suoni che non capivo, li esercitavo e li ripetevo da solo in giochi protratti per ore. (Canetti, Discorso di ringraziamento per il Premio della Città di Vienna, tratto da Elias Canetti, Aufsaetze, Reden, Gespraeche, C. Hansen, Monaco 2005, trad. it. Flavia Foradini, pubblicato su «Sole 24 Ore», 24 luglio 2005)

Così le parole sognate, provate, ripetute hanno acquisito per Canetti una loro vita speciale, delicata, enigmatica. «Non c’è niente che sia paragonabile alle parole, ogni deformazione delle parole mi affligge, quasi che le parole fossero creature sensibili al dolore...» (Canetti, 1987)
Dove le parole – creature misteriose la cui presenza è un dono – significano salvezza fisica e spirituale, ma soprattutto rappresentano un sistema per metabolizzare i distacchi necessitati dalle persone e dai luoghi più cari.
Come suggerisce Jacqueline Amati Mehler, le parole sono state forse per Canetti una terapia sofferta, ma riuscita, del lutto per la perdita del padre e, per l’intera sua vita, uno splendido, vitale, necessario strumento creativo (Mehler, 1990).

Ogni bambino vive diversamente la sua esperienza linguistica anche in condizioni oggettive apparentemente simili. Canetti sembra aver avuto sin dalla più tenera età un suo rapporto di straordinaria intimità con le parole. Ciascuna di esse era speciale e brillava per lui di luce propria ed esigeva il massimo rispetto per la sua essenza unica e irripetibile.

Fanita: molte lingue per comunicare
Se ora poniamo attenzione al copione linguistico di Fanita English, bambina nata anch’essa in un crocicchio culturale e umano particolarmente ricco, vario e stimolante, non molto lontano per quanto riguarda la conoscenza e l’uso di molte lingue da quello di Canetti, incontriamo uno stile più pragmatico ed essenziale.
Fanita visse i suoi primi quattro anni a Galatz, una piccola città della Romania.
Il recente libro autobiografico Fanita English, la sua vita e l’Analisi Transazionale, curato da Sigrid Roehl, si apre con il magnifico ritratto del nonno Gottesmann.

Il nonno Bernard Gottesmann era il mio rifugio e la mia gioia più grande. Era un patriarca con baffi bianchi e colletto alto, severo e generoso al tempo stesso, e, verso di me, sempre amorevole.
Nella sua qualità di presidente della Comunità ebraica di Galatz era persona molto stimata e ascoltata. Non si atteneva in modo particolarmente ortodosso alle tradizioni religiose. Costumanze e usi della cultura ebrea non rivestivano un ruolo significativo né per mio nonno né per i miei genitori. Per me questo nonno, nella cui casa sono nata il 22 ottobre 1916, rappresentava un mito. Lui ricambiava il mio amore assoluto con una tenerezza speciale. Il nonno era la mia salvezza quando sfuggivo al controllo di mia madre per rifugiarmi nel suo soggiorno. “Lasciala qui”, diceva allora il nonno a mia madre usando la lingua tedesca e non il rumeno, poiché si supponeva che io non comprendessi il tedesco, e questo bastava, io potevo restare lì. L’altra frase magica era “Dagliene ancora un po’”, quando io stavo in attitudine desiderante davanti alla credenza dei dolci rigorosamente chiusa. Ecco, queste sono state le prime parole tedesche che io ho imparato a sillabare da piccolissima e, forse per questo, la lingua tedesca mi è sempre stata così cara. (Roehl, 2004)

Seguirono anche per Fanita bambina giorni bui. A quattro anni madre e padre si trasferirono con lei a Istanbul, e fu un trauma inimmaginabile. Lasciò la casa del nonno, gli affetti più cari, la lingua rumena. Non pianse, non fiatò. «Ich erstarrte innerlich. Dentro, mi feci come di pietra. Mi irrigidii.»
La piccola famiglia iniziò un ménage sostanzialmente nuovo, prima inesistente a causa della scarsa presenza del padre, oberato da impegni professionali fuori sede. Ora il padre c’era, ed era, ancor più di prima, cronicamente e dichiaratamente insoddisfatto del suo lavoro aziendale, lui che, essendo ebreo, non aveva potuto – per questo – accedere all’ambita carriera accademica. Se ne lagnava in continuazione e, appena poteva, si isolava con il violino, la sua ancora di salvezza, la sua risorsa personale.

Io non stavo volentieri in casa. Mi ricordo anche poco la nostra abitazione di Istanbul. So che nella mia stanza c’era il lettino, e poi una scrivania, un armadio e, su una piccola sedia, c’era la mia bambola Goldherz (Cuor d’oro), il mio bene più prezioso, un regalo della zia, ricordo di un suo viaggio a Berlino. (Roehl, 2004)

Una bambola tedesca, dunque. Un altro motivo per aver cara la lingua tedesca, con la lucida determinazione di Fanita English, che sempre separò il rispetto e l’ammirazione dovuti alla cultura tedesca dal tragico baratro della persecuzione nazista.
Allo struggimento del distacco si accompagnarono allora per lei, bambina di quattro anni, la fatica e la frustrazione dei contatti con la nuova lingua.
English ne aveva già accennato nel suo libro Es ging doch gut, was ging denn schief (1982).

In Turchia vivevamo piuttosto isolati. A questo si aggiunse che io inizialmente non potevo avere contatti di alcun tipo con il resto del mondo, perché là nessuno parlava rumeno.
Tutto questo accadeva in una età in cui si vorrebbe da bambini riuscire a farsi capire finalmente con le parole. Il fatto che non mi fosse possibile comunicare con gli altri deve essere stato terribilmente frustrante. (Es ging doch gut, was ging denn schief, 1982)

Per Fanita comunicare sembra essere stato da sempre la cosa essenziale, in probabile sintonia con le sue prime esperienze nella casa del nonno.

Vi erano visite continue nella casa di mio nonno, soprattutto ebrei ortodossi e padri di famiglia. Essi speravano che il nonno fosse in grado di aiutarli a evitare ai loro figli il servizio militare nell’esercito rumeno. Ciò significava all’atto pratico, farli emigrare in America per tempo, prima del servizio di leva. La Romania era allora un paese fortemente antisemita, specie in ambito militare. Le giovani reclute ebree venivano osteggiate, trattate con estrema durezza e talora malmenate a morte.
Mio nonno aveva gestito una piccola agenzia assicurativa ed era piuttosto popolare in zona. Aveva mantenuto una vasta rete di buoni rapporti e disponeva di utili contatti in America. Avvalendosi delle sue conoscenze, tentava di trovare per i sedicenni e i diciassettenni a rischio famiglie disponibili ad accoglierli e a far loro apprendere un mestiere. A volte i suoi sforzi erano coronati dal successo, altre volte incontrava delusioni. In tutti i casi teneva molto a questa attività.
E io, appena potevo, mi sedevo nel suo salotto che fungeva anche da anticamera e stavo in mezzo a tutti questi signori. C’erano persone bisognose di aiuto e di consigli, ma anche parenti e amici di famiglia. Queste persone parlavano e giocavano con me che ero la nipotina dell’uomo da cui poteva dipendere il destino dei loro figli. Io credo di aver maturato lì, nel soggiorno di mio nonno, in mezzo a tutta quella gente, quella che è poi stata la base del mio lavoro come conduttrice di seminari, e cioè, il profondo convincimento di essere benvenuta e benvoluta in un gruppo, di percepirne il vasto respiro, di aspettarmi benessere e riconoscimento, di potermi esprimere in libertà non dimenticando il piacere del divertimento. (Roehl, 2004)

E le lingue?
Altre ne seguirono, obbligate dalle migrazioni, l’ultima – 1941 – negli Stati Uniti.
Ci furono problemi? No, per quanto riguarda la parola “parlata”.
Fanita confessò in qualche suo articolo una lontana “fobia per la scrittura”, che Berne le avrebbe risolto.
Ci si potrebbe chiedere se questa cosiddetta fobia, che parrebbe essersi manifestata in concomitanza con un contributo scritto per il «Bulletin», richiesto da Berne quando l’inglese di English non aveva ancora raggiunto la necessaria solidità, avesse a che fare forse anche con l’accelerazione incredibile con cui la bambina, e poi l’adolescente, era stata dalle circostanze costretta a incamerare una lingua dopo l’altra, senza possibilità di scelta e di approfondimenti.
Nel corso di un incontro pubblico in cui si presentava la raccolta dei suoi articoli tradotti in italiano, le fu chiesto quale fosse, eventualmente, la sua “lingua salvata”. English rispose che non faceva differenze, la lingua “salvata” essendo sempre quella, tra le tante, che il suo interlocutore, in quel momento, parlava.
Per lei le parole sono strumento funzionale: più se ne conoscono, più è possibile comunicare e “spiegarsi”.
Talvolta sapersi “spiegare” vuol dire la salvezza, quindi approcciarsi a una lingua nuova può avere a che fare anche con la spinta di sopravvivenza, ma “dire parole” nella lingua dell’altro, per Fanita, è soprattutto una esperienza creativa, dialogica, un arricchimento dei sistemi e delle capacità espressive, uno sfavillante episodio della nostra expressive drive.

Agota: la lingua nemica
Agota era una bimba alla quale piaceva davvero raccontar storie.

Sono ancora molto piccola e già mi piace raccontare storie. Storie inventate da me. La nonna a volte arriva dalla città, a trovarci e per aiutare mamma. Di sera è la nonna che ci mette a letto, cercando di farci addormentare con racconti che abbiamo già sentito un centinaio di volte.
Io scendo dal letto e dico alla nonna:
– Le storie le racconto io, non tu.
Lei mi prende sulle ginocchia, mi culla:
– E racconta, racconta, allora.
Comincio con una frase, una qualsiasi, e il resto si collega da sé. I personaggi appaiono, muoiono o scompaiono. Ci sono i buoni e i cattivi, i poveri e i ricchi, i vincitori e i vinti. È una cosa che non finisce mai:
– E poi… e poi… (Kristof, L’Analfabeta, 2005)

A questa bambina è stata tolta la nativa lingua ungherese.
Si sentirà a lungo (o sempre?) “analfabeta” nella Svizzera dove, profuga nel 1956, amaramente si rifugerà. L’Analfabeta, il più recente dei suoi libri, è il racconto di uno strazio infinito, di un drammatico spaesamento, della lunga fatica d’approccio a una lingua altra e non amata.
Agota piccola era una felice raccontatrice di storie e una lettrice onnivora:

Leggo. È come una malattia. Leggo tutto ciò che mi capita sottomano, sotto gli occhi: giornali, libri di testo, manifesti, pezzi di carta trovati per strada, ricette di cucina, libri per bambini. Tutto ciò che è a caratteri di stampa.
Ho quattro anni. La guerra è appena incominciata.
A quell’epoca abitiamo in un paesino privo di stazione, di elettricità, di acqua corrente, di telefono. (Kristof, L’Analfabeta, 2005)

Quel mondo lei ha dovuto lasciarlo con le sue cose e con le sue parole.
C’è stato prima un collegio, una sorta di anteprima dell’esilio: il luogo del silenzio assoluto e del pianto.

Sì, in quel periodo piango tutte le sere, per mesi interi o per anni, e piango tanto che in seguito non riuscirò a piangere quasi mai più, come se avessi già pianto abbastanza per il resto della mia vita.
Piango la perdita dei miei fratelli, dei miei genitori, della nostra casa, che ormai è abitata da stranieri.
Piango soprattutto la mia perduta libertà. (Kristof, L’Analfabeta, 2005)

Nel collegio si può leggere, è vero, «ma gli unici libri che abbiamo sono di lettura obbligatoria, e si leggono in fretta, e d’altronde quei libri, per la maggior parte, sono anche loro totalmente privi di interesse».
Allora Agota scrive una sua “scrittura segreta”.

In quelle ore di silenzio obbligato, comincio a tenere una specie di diario, invento persino una scrittura segreta affinché nessuno possa leggerlo. Vi annoto la mia infelicità, le mie pene, le mie tristezze, tutto ciò che la sera mi fa piangere sommessamente nel mio letto. (Kristof, L’analfabeta, 2005)

E poi ci fu l’esilio davvero, un altro paese, e un’altra, o più altre, lingue ignote.
Oscure. Estranee. Fredde.

Nella cucina di mia madre, nella scuola di mio padre, nella chiesa di zio Gueza, nelle strade, nelle case del villaggio e anche nella città dei miei nonni, tutti parlavano la stessa lingua, e non si poneva affatto il problema di altre lingue. Dicevano che gli zigani, che stavano ai confini del villaggio, parlavano un’altra lingua, ma io pensavo che non era una vera lingua, era una lingua inventata che parlavano soltanto tra loro, proprio come facevamo Yano e io, quando parlavamo in modo da non farci capire da Tila. (Kristof, L’Analfabeta, 2005)
Eppure questo è il nuovo mondo. Il bel paese.

Come spiegargli, senza offenderlo, e con le poche parole che so di francese, che il suo bel paese non è altro che un deserto, per noi rifugiati, un deserto che dobbiamo attraversare per giungere a quella che chiamano “l’integrazione”, “l’assimilazione”. In quel momento lì non sapevo ancora che certi non ce l’avrebbero fatta. (Kristof, L’Analfabeta, 2005)

Come si può sopravvivere nel nuovo mondo?

Le mie amiche operaie mi insegnano l’essenziale. Dicono: “Oggi è bel tempo” indicandomi il paesaggio di Val-de-Ruz. Mi toccano per insegnarmi altre parole: capelli, braccia, mani, bocca, naso. (…) Cinque anni dopo essere giunta in Svizzera parlo il francese, ma continuo a non saperlo leggere. Sono tornata analfabeta. Io che leggevo già a quattro anni.
Conosco le parole. Quando le leggo, non le riconosco. Le lettere non corrispondono a niente.
L’ungherese è una lingua fonetica, il francese è l’esatto contrario.
Non so come ho potuto vivere senza la lettura per cinque anni. (Kristof, L’analfabeta, 2005)

A conforto c’è stata la scrittura. «Quando manca la terra per le radici, bisogna piantarle nella carta» diceva la madre di Isabel Allende.

Le storie di Willie, di Paco, di Elias, di Fanita, di Agota sono storie di migrazioni e separazioni vissute senza scampo, subite dai bambini e dalle loro famiglie.

Non ho ancora trovato la parola per qualificare quello che ci è successo. Potrei dire dramma, tragedia, catastrofe, ma nella mia testa la chiamo soltanto “la cosa” per la quale non c’è parola. (Kristof, Trilogia della città di K, 2005)

Ma esistono anche forti esperienze di universi linguistici diversi nate in contesti di trasferimenti lavorativi scelti e auspicati dalle famiglie, in cui il tema del piccolo “straniero” assume invece una valenza quasi di stupore rispetto alle infinite variabili del mondo, come sembra essere accaduto ad Amelie, bambina belga figlia di diplomatici in Giappone.

Amelie: la lingua del piacere
Nothomb così racconta di se stessa bambina speciale in Giappone ad anni tre:

Quando arrivò il momento, non mi mandarono alla scuola americana che frequentavano mio fratello e mia sorella; mi iscrissero allo “yochien”, l’asilo giapponese in fondo alla strada.
Sbarcai dunque nella “tampopogumi” (la classe dei piscialletto). (…) Ero la sola non giapponese dello “yochien”.
Ricordo una scena. A una delle caporali stava a cuore che cantassimo, in perfetta sincronia, un piccolo ritornello pieno d’entusiasmo, strombazzando la nostra gioia di piscialletto disciplinati e sorridenti. Avevo deciso all’istante che cantare quella canzone era come andare a Canossa e approfittavo dell’effetto corale per simulare il canto così come simulavo la compiacenza scolastica: la mia bocca accennava le parole senza la minima collaborazione delle corde vocali. Ero molto fiera di quello stratagemma che costituiva una disobbedienza di grande conforto.
Alla maestra venne il sospetto che stessi facendo la furba perché, un giorno, disse:
«Faremo una variazione dell’esercizio: ogni allievo canterà a turno due frasi dell’inno dei piscialletto, poi cederà il testimone al suo vicino, e via di seguito fino alla fine.»
L’allarme non squillò subito nella mia testa, quella volta. Decisi di fare uno strappo alla regola e di cantare per davvero, quella volta. Poco a poco, mi resi conto che non conoscevo affatto le parole: il mio cervello aveva rifiutato a tal punto l’inno dei piscialletto che non ne aveva memorizzata neanche una sillaba. Quando fingevo, le mie labbra non imitavano quello che avrebbero dovuto vocalizzare, ma si muovevano a casaccio in un anarchico coro muto.
Nel frattempo, la canzone avanzava inesorabile, con un effetto domino. L’unica cosa che avrebbe potuto salvarmi, oltre a un terremoto, sarebbe stata l’irruzione, prima che arrivasse il mio turno, di un altro simulatore. Trattenni il fiato.
Non ci fu un altro piccolo furbacchione e il momento fatidico arrivò: aprii la bocca e non uscì niente. L’inno dei piscialletto, che fin là era gioiosamente corso di bocca in bocca a un ritmo impeccabile, precipitò in una voragine di silenzio che portava il mio nome. Tutti gli occhi si voltarono verso di me, a cominciare da quelli della maestra. Falsamente gentile, finse di credere a un piccolo vuoto di memoria e pretese di rimettermi in carreggiata suggerendomi la prima parola della mia parte di canzone.
Inutile. Ero paralizzata. Non riuscii neanche a ripetere quella parola. Mi veniva troppo da vomitare. Insistette, senza sortire alcun risultato. Mi concesse una parola in più, invano. Mi chiese se avessi mal di gola, non risposi nulla.
Al peggio arrivammo quando mi chiese se capivo quello che diceva. Suggerì in questo modo che se fossi stata giapponese, non avrei avuto alcun problema – che se avessi parlato la sua lingua, avrei cantato come gli altri.
Ma io parlavo giapponese. Solo che in quel momento non ero capace di dimostrarlo: avevo perso la voce. Anche questo, però, non riuscivo a dirlo. E lessi, negli occhi dei piscialletto, una cosa spaventosa: “Come mai ancora non ci eravamo accorti che non è giapponese?”
L’episodio si concluse con l’atroce indulgenza della maestra per quella piccola straniera che, per forza, non aveva le competenze dei bravi piscialletto nazionali. La piscialletto belga doveva essere una sub-piscialletto. E il bambino successivo cantò quello che io non ero riuscita a cantare. (Nothomb, Biografia della fame, 2004)

Amelie non osava parlare a casa dell’odio che le ispirava lo yochien, temendo fortemente che la iscrivessero con sorella e fratello alla scuola americana, cosa che le sarebbe parsa ben più terrificante, a causa dei suoni per lei sgradevoli, incomprensibili, antiestetici “dell’anglo-americano”.
Preferiva una lingua che le dava piacere fisico a una lingua “bollita”.

Avevo notato che quando mio fratello e mia sorella parlavano inglese, non capivo niente. Fu una scandalosa scoperta intellettuale per me: una lingua incomprensibile.
C’era quindi un tipo di linguaggio che mi era assolutamente precluso (…).
Io parlavo una sola lingua: il franponese.
Chi vi vedeva due lingue distinte peccava di superficialità, si fermava a dettagli come il vocabolario o la sintassi. Queste bazzecole non avrebbero dovuto impedire a nessuno di scorgere non soltanto i punti in comune oggettivi come la latinità delle consonanze o la precisione della grammatica, ma soprattutto quella parentela metafisica che le univa in più alte sfere: il piacere.
Come non avere fame del franponese? Quelle parole dalle sillabe ben separate le une dalle altre, dalle nette sonorità, erano pezzi di sushi, bocconcini pralinati, tavolette di cioccolata in cui ogni quadratino verbale si staccava facilmente, erano dolci per la cerimonia del tè, con incarti individuali che consentivano la felicità di denudarli e di distinguerne i sapori.
Non avevo fame dell’inglese, quella lingua stracotta, purè di squittii, chewing-gum masticato, che ci si passava di bocca in bocca. L’anglo-americano ignorava il crudo, la rosolatura, il fritto, la cottura a vapore: non conosceva altro che la bollitura. (...) Era una brodaglia non civilizzata. (Nothomb, Biografia della fame, 2004)

La parola per Amelie è gusto e sapore, quanto di più fisico si possa immaginare.
C’è, è vero, il suo essere vissuta come straniera dai nativi, ma c’è anche il potere di una scelta attiva, rispettata, il benessere decisionale di una bambina cresciuta in una famiglia di cultura multilingue con una raffinata tata giapponese innamorata di lei, il suo precoce, e consapevole, definirsi come soggetto autonomo ed eccezionale.

Un bambino come tutti gli altri
Innumerevoli possono essere le combinazioni d’approccio e apprendimento di una lingua da parte di un bambino, e, certo, vi hanno peso determinante l’età, le condizioni personali, familiari, ambientali, economiche, sociali, le circostanze, le necessità, le attitudini, il percorso copionale pregresso e in atto. Impossibile, e limitante, generalizzare.
Infiniti sono gli accessi alle parole nuove. Esse veicolano anche pensieri nuovi, mai prima pensati, adatti ai nuovi climi e importanti per finalmente raggiungere il traguardo sognato, che è – per molti ragazzini stranieri che frequentano la scuola – diventare agli occhi delle maestre un bambino come tutti gli altri.
Il terapeuta è testimone privilegiato di questa evoluzione lessicale e cognitiva: una metamorfosi in parte del tutto fisiologica, giustificata da una maggiore maturità, ma anche frutto di specifiche conclusioni di sopravvivenza, che molto spesso prevedono per i piccoli sradicati l’oblio della propria lingua d’origine.
Anche il terapeuta ha i suoi linguaggi remoti e la sua storia di transumanze linguistiche.
Non sarà dunque neutra la sua presenza. A seconda della sua esperienza esistenziale potrà sostenere o contenere, rasserenare o traghettare, accogliere lo sperdimento, offrire spazi di condivisione, fornire confronti e informazioni, accompagnare i passi della nuova strada.
Con i mesi, ad esempio, Paco diventò in tutto e per tutto «quasi uno scolaro». Assunse un’aria da personcina perbene, esercitò poco le competenze di furetto arrampicatore, perse molto del suo estro libero, ridusse le esternazioni, in qualche modo apparentemente ripercorrendo le prime prudenti orme di Willie («Non si sa mai cosa non è giusto dire»).
Willie si fece grande e severo, e le sue parole divennero complesse, articolate, disincantate.
Mise da parte il buonismo a oltranza, lasciò l’iniziale sperata rosea visione delle cose del mondo, quella che gli faceva dire: «Dalle cose peggiori può uscire una cosa rallegrante».
Cominciò a riflettere sul bene e sul male, sul diavolo «che prima era un servo di Gesù. Prima gli era successo che gli sono cresciute le ali perché era tanto buono. Poi, non so perché, Gesù si è pentito e gli ha sequestrato le ali. Allora lui è caduto giù e, quando è caduto, gli sono cresciute le corna.
È lì che ha incominciato a essere cattivo. Si diventa facilmente cattivi».
Si diventa facilmente “cattivi”, soprattutto quando ci sequestrano le ali, ci estromettono dal paradiso, e non si sa neppure perché.
Comparve, dopo poco, anche un Angelo Guerriero, non particolarmente terribile nei suoi tratti, come si può vedere dal disegno che ne celebrò l’avvento, ma destinato, almeno nelle intenzioni, a farsi valere anche con modi piuttosto rudi.
L’Angelo Guerriero si rese necessario per questioni di belligeranza familiare interna oltre che per le continue guerre «che scoppiano qua e là, come si vede nella televisione».
«Devo fare un Angelo che protegga tutti dalla guerra.
Ci sono guerre dei popoli e guerre in famiglia. Le guerre tra i genitori sono le più pericolose di tutte. Ogni genitore vuole prendersi il fratello più piccolo. Tutti e due dicono che hanno un diritto più grande dell’altro. Nessuno chiede del fratello grande.
Faccio un Angelo Guerriero. Anche gli Angeli, per proteggere dalle guerre, devono essere Angeli Guerrieri.»
È trasparente la rabbia di Willie. Se è guerra, dovunque essa scoppi, anche gli angeli devono armarsi.
«Mia mamma dice che una volta ero un bambino più gentile.»
E adesso basta con i sogni, quelli a occhi aperti, «della gentilezza» e «quelli di notte».
La gentilezza non lo salverà e «quelli di notte sono fantasmi, cose fantasma, cose di una volta che non hai più. Non voglio sognare le cose vecchie».
Willie non vuole più essere preso al laccio dai fantasmi delle cose vecchie, vorrebbe liberarsi da quella lenta danza circolare che è la nostalgia secondo la definizione di Isabel Allende (Il mio paese inventato, 2003). Comincia ad occorrergli una resistente corteccia per superare l’asprezza di questo necessario snodo di crescita, decidere di vivere questa vita, smettere di recuperare il paese perduto, riunire i dispersi, resuscitare i morti…
Servono in questo momento energia e durezza.
Ce lo ricorda Isabel Allende:

Noto una certa serenità e innocenza nella gente che ha vissuto sempre nello stesso posto e che dispone di testimoni del proprio passaggio sulla terra. Chi invece, come me, si è dovuto spostare parecchio, sviluppa per forza una dura corteccia. Non avendo radici solide, né testimoni del passato, dobbiamo affidarci alla memoria per conferire continuità alle nostre vite; ma la memoria è sempre confusa, non ci si può fare affidamento. I ricordi del mio passato non hanno un contorno preciso, sono sfumati, quasi che la mia vita sia stata solo una successione di illusioni, immagini fugaci, episodi che non riesco a spiegarmi o che mi spiego solo in parte. Non ho alcun tipo di certezza.
E non riesco neanche a immaginare il Cile come un luogo geografico con delle caratteristiche precise, come un posto definito e reale.
Mi appare come i sentieri di campagna all’imbrunire, quando le ombre dei pioppi confondono lo sguardo e il paesaggio sembra un sogno.

Quel mondo è un fantasma, come direbbe Willie. Adesso lui, per andare avanti, deve liberarsene.
Poi si vedrà.

Adesso va bene dire di no. Adesso va bene sbarazzarsi dei fantasmi.
Verranno altri tempi, i tempi della maturità, dei bilanci, e dei confini.
Forse l’antico paese diventerà dolce nella memoria e il cuore non si spezzerà più nel ripensarlo e nell’accarezzarlo:

notte, neve e sabbia disegnano la forma
della mia patria sottile...
(Pablo Neruda).

Allora la nostalhia sarà il sentimento necessario per il superamento della perdita.
Essa sarà, nel futuro, un dono prezioso, anche – forse – da condividere con amore nella propria lingua materna.

Poserò la testa sulla tua spalla
e farò
un sogno di mare
e domani un fuoco di legna
perché l’aria azzurra
diventi casa…
(Fabrizio De André, Khorakhanè)


Bibliografia

ALLENDE I. (2003), trad. it. Il mio paese inventato, Feltrinelli, Milano 2003.
AMATI MEHLER J., ARGENTIERI S., CANESTRI J., La Babele dell’Inconscio, Cortina, Milano 1990.
BERNE E. (1972), trad. it. Ciao!... e poi?, Bompiani, Milano 1979.
DE ANDRÉ F., Anime Salve, BMG Ricordi, Milano 1996.
ENGLISH F., Es ging doch gut, was ging denn schief, Junfermann Verlag, Paderborn 1982.
GALIMBERTI U., Parole Nomadi, Feltrinelli, Milano 1994.
KRISTOF A. (2004), trad. it. L’Analfabeta, Casagrande, Bellinzona 2005.
KRISTEVA J. (1988), trad. it. Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano 1990.
NOTHOMB A. (2004), trad. it. Biografia della fame, Voland, Roma 2004.
PESENTI R., Trasloco, Supernova, Venezia 1998.
ROEHL S., Fanita English. Ueber ihr Leben und die Transaktionsanalyse, Iskopress, Salzhausen 2004.
VON HOFMANNSTHAL H., Canto di vita, Einaudi, Torino 1971.
ZODERER J. (1982), trad.it. La felicità di lavarsi le mani, Bompiani, Milano 2005.


*Dolores Munari Poda, psicologa, psicoterapeuta, Analista Transazionale Didatta, collabora con il Centro di Psicologia e Analisi Transazionale di Milano.


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