Riassunto
Amo la compagnia dei miei sogni vuole essere per prima cosa un omaggio a Barrie Simmons, con cui chi scrive ha completato la formazione in terapia gestaltica. La visione dei sogni di Barrie Simmons ci riporta a Fritz Perls, a Claudio Naranjo, a James Simkin. La ricchezza dell’esperienza con i sogni della Terapia della Gestalt viene poi articolata e intersecata con le specifiche conoscenze dell’Analisi Transazionale. Il copione, intero “dramma transferenziale”, diventa riferimento privilegiato nel processo di elaborazione dei sogni. I sogni nel loro divenire da esperienza diretta a racconto, stabiliscono un ponte tra il mondo primario della esperienze non formulate rintracciabili nel protocollo di copione, ai vissuti copionali che man mano emergono e acquisiscono una forma riconoscibile, narrabile, arricchendo la memoria. Emerge una vicinanza con l’intervento sui sogni proposto da James Fosshage.
Abstract
I love my dreams’ company
I Love My Dreams’ Company intends first of all to be an homage to Barrie Simmons, with whom the writer has performed his training in Gestalt therapy. Barrie Simmons’ vision of dreams takes us back to Fritz Perls, Claudio Naranjo and James Simkin. The richness of the experience with dreams of Gestalt Therapy is subsequently articulated and intertwined with Transactional Analysis specific knowledge. The script, a whole “transferential drama” becomes the privileged reference of the dream working process. Dreams, in their development from direct experience to narration, create a bridge between the unformulated experience primary world which can be tracked in the script protocol, to script experience emerging and acquiring a recognizable form, which can be told, enriching memory. There emerges a closeness with the intervention on dreams proposed by James Fosshage.
Premessa
Amo la compagnia dei miei sogni; capisco quando uno o più sogni si sono intrattenuti con me la notte, a volte ne assaporo la presenza e li racconto tra me e me, li rivedo nella mia memoria, ne risento il gusto emotivo. Mi chiedo “cosa c’entra questo sogno con me? Cosa mi sta dicendo della mia vita?” o anche “quale aspetto di me e del mio mondo mi racconta? Quali ripetizioni riconosco?”.
Sono grata ai miei sogni, anche quando non capisco niente e continuo a rigirarmeli per vederli, per dare loro una parola che li illumini e li inserisca nella mia esperienza. I sogni per me sono importanti anche quando sono costituiti da un frammento, da qualche ricordo sconnesso e apparentemente inutile.
Non ho l’abitudine di scrivere i miei sogni: quando facevo l’analisi mi è successo un paio di volte di scrivere un sogno per raccontarlo al mio psicoanalista (uno lo conservo ancora oggi, un pezzo di carta di un blocchetto che usavo all’università, dove diligentemente ho segnato il sogno che poi è diventato uno dei pilastri della mia analisi in quel periodo).
Raramente adesso racconto i miei sogni a qualcuno, una sorta di pudore, come se raccontare un sogno fosse anche parlare in modo intimo di me stessa.
Alcuni anni fa in un momento difficile della mia vita ricordo dei sogni molto simili tra loro, in qualche modo “ricorrenti”, come se contenessero un unico messaggio più e più volte ripetuto, un messaggio molto vicino alla mia vita di quel tempo, alla mia sofferenza.
Attraverso anche lunghi periodi senza sogni, aridi; mi sveglio e non ho memoria di presenze, di immagini, di sentimenti: c’è buio. In quei casi so che è inutile sollecitare i miei sogni; non ci sono e basta e non so quando torneranno.
Raramente ho sognato sogni colorati, di solito i miei sogni sono in bianco e nero o anche senza un colore che li caratterizzi; sono più forti le sensazioni ad essi connessi.
Pur avendo fatto una classica analisi sul lettino non mi viene naturale fare associazioni di tipo psicoanalitico con i miei sogni o interpretazioni di tipo “classico”: più facilmente penso ai miei sogni come a dei compagni di viaggio, a presenze spirituali che emergono da luoghi dimenticati e prendono una forma che chiede di essere inserita nella esperienza quotidiana della mia vita.
Il divenire del sogno
Anni fa, leggendo Edoardo Weiss, sia in Struttura e dinamica della mente umana che nella introduzione a Psicosi e psicologia dell’io di Paul Federn, a proposito di confini dell’Io mi aveva interessato la distinzione tra ciò che l’Io sente come proprio e ciò che percepisce come non-Io:
L’Io percepisce i propri sogni come in stato di veglia percepisce gli eventi fisici del mondo esterno. Questo regno dei fenomeni psichici da cui si origina il sogno non avrebbe potuto essere espresso più adeguatamente che col termine Es, il pronome della terza persona.
Per usare la nostra terminologia, diremo che oltre il muro interiore, senza finestre, hanno luogo non solo fenomeni fisiologici somatici, ma anche fenomeni psichici. Questi ultimi sono inaccessibili in quanto tali all’Io, fino a che non vengono egoicizzati. Quando essi affiorano alla coscienza dell’Io senza essere egoicizzati, come nei sogni e nelle allucinazioni in generale, l’Io li percepisce con i caratteri propri dei fenomeni fisici esterni, che vengono percepiti dagli organi di senso, attraverso le “finestre poste sul confine esterno dell’Io” (Weiss, 1960).
Utilizzando alcune immagini legate alla Analisi Transazionale, mi figuro il sogno come un oggetto di esperienza simile alle esperienze primarie del protocollo di copione, esperienze immediate, non espresse in parole, presenti nella percezione sensoriale; nel momento in cui il sogno diventa oggetto del mio ricordo quando sono sveglia, è come se mi chiedesse di far parte del mio mondo di significati, di avere una forma, di essere inserito nella dimensione del pensiero Adulto: in qualche modo chiede di appartenere all’insieme della mia esperienza fruibile, l’esperienza che mi rende presente come soggetto a me stessa e al mondo. Incomincio a riconoscerlo come oggetto che mi appartiene, che fa parte del mio mondo soggettivo, quando lo racconto anche solo a me stessa e in quella occasione gli attribuisco una prima forma verbale.
Il sogno compie un tragitto da esperienza primaria, tipica del protocollo di copione, a messaggero di nodi copionali a possibile insieme di significati inseriti nella mia vita attuale e fruibili da me soggetto: nel suo divenire attraversa idealmente il B2 e “chiede” di far parte dell’A2.
Il divenire del sogno comporta alcune riduzioni fenomenologiche nel suo processo: l’esperire immediatamente il sogno comprende sensazioni, sfumature, immagini non sempre e non facilmente riproducibili nel racconto del sogno: alcune sensazioni rappresentate dalle immagini del sogno sfuggono ad una formulazione precisa e a volte nel raccontarlo cerchiamo la parola “giusta”, quella che meglio possa rendere l’atmosfera del sogno. Altre volte, raccontando nuovamente il sogno alle stesse persone, aggiungiamo dei particolari, delle angolature che ci erano sfuggite nei precedenti racconti: nel passare da sogno esperienza a sogno racconto realizziamo una ricerca che possa dare al sogno una forma e renda possibile comunicarlo con un linguaggio legato alla veglia, al mondo del pensiero vigile. Spesso il racconto del sogno è differente a seconda delle persone a cui lo raccontiamo, come se la qualità della relazione in atto influenzasse l’emergere dei significati legati alla rappresentazione del sogno; il sogno come elemento dinamico, in divenire, come elemento di processo nella nostra esperienza.
Queste riflessioni ci portano a considerare il mondo del Bambino come ricco di intuizioni, fantasie, immagini, sensazioni; il sogno nasce da lì e quando vogliamo ricondurlo in una dimensione adulta, inevitabilmente perde alcune caratteristiche, anche se il sognatore conserva il sapore del suo sogno, ricordandolo tra sé e sé. Accanto a queste “riduzioni” del sogno nel suo divenire, a queste “perdite” di sensazioni, il sogno raccontato e rielaborato acquisisce una forma che lo rende accessibile e riconoscibile dall’Io, fruibile all’esperienza del soggetto che sogna, ampliando e arricchendo il campo delle forze dinamiche interne.
(Lewin,1976).
Il sogno messaggero esistenziale
L’Analisi Transazionale ha una cultura “povera” rispetto ai sogni. Berne (1968) dedica un capitolo di Guida per il profano alla psichiatria e alla psicoanalisi a I sogni e l’inconscio, dove accanto alle sue conoscenze psicoanalitiche emergono intuizioni circa alcune funzioni dei sogni, e alcune immagini sull’inconscio come sorgente di energia. Ricordo anche l’esempio dell’interpretazione di un sogno che Berne riporta in Principi di terapia di gruppo nel capitolo 10 sulle Tecniche di base.
Sono i gestaltisti, come i Goulding o come George Thomson che, arrivando alla Analisi Transazionale la arricchiscono di questa attenzione verso i sogni. Ricordo il piacere di leggere il contributo di George Thomson quando comparve anni fa nel «T.A.J.» e di ritrovare lì alcuni pensieri e alcune pratiche di lavoro sui sogni che facevano parte della mia esperienza professionale del tempo.
L’articolo di Thomson comparve nel «T.A.J.» nel 1987 ed è stato poi tradotto in italiano nel 2005, nel «Quaderno» n. 43 con il titolo Il lavoro sui sogni nella terapia della ridecisione, considerandolo, a distanza di circa venti anni, un contributo storico, in quanto testimonia una modalità di lavoro con i sogni considerata classica in Analisi Transazionale dagli anni ’80 in poi.
Nel suo contributo Thomson descrive come “ampliare le strettoie di un copione esistenziale-script-limitante, attraverso un approccio ai sogni focalizzato sulla ridecisione, coniugando la teoria della Gestalt di Fritz Perls con l’Analisi Transazionale” (Ligabue, 2005). In realtà, per molti anni il mio modo di lavorare sui sogni è stato strettamente connesso all’uso dei sogni di Fritz Perls, di Barrie Simmons, di James Simkin, di Claudio Naranjo.
È attraverso il mio amico e collega Gianni Fortunato che ho scoperto la portata esistenziale dei sogni, il loro impatto nella vita di tutti i giorni. A quel tempo Gianni Fortunato era avanti a me nella comprensione delle cose psicologiche, ne sapeva di più e aveva una buona conoscenza della Terapia della Gestalt, del lavoro di Perls e di Simkin, della connessione con la ipnosi di Milton Erickson. Conservo ancora oggi alcuni fogli con un programma di un Seminario sui sogni condotto da me e da Gianni alla fine degli anni settanta presso il centro di cui al tempo eravamo entrambi soci e la prima bibliografi a sui sogni scritta nella minuta e precisa calligrafi a del mio collega. Da lì ho avuto il desiderio di approfondire la conoscenza della Gestalt, e ho iniziato la formazione con Barrie Simmons.
Come ho già avuto modo di dire nella breve presentazione a Più Psicoterapie (2006), l’incontro con Barrie è stato importante nella mia vita sia per me personalmente che per la mia professione. La mia formazione con Barrie risale ai primi anni ottanta, e la collaborazione tra noi si è protratta fino a due o tre anni prima che Barrie morisse: Barrie ha mantenuto un legame con il Centro di psicologia e Analisi Transazionale negli anni seguenti, conducendo seminari, partecipando a conferenze e convegni, in un paio di occasioni anche scrivendo articoli per i «Quaderni». Barrie Simmons mi manca, mi manca la sua lucidità, la presenza forte, il suo peso, alcuni odori intensi del suo corpo, la generosità con cui si faceva interprete dell’esperienza propria e altrui: ritengo Barrie un gestaltista, una persona pienamente coinvolta nella esperienza della sua vita.
Quasi tutto quello che so sui sogni l’ho imparato da Barrie Simmons nei lunghi seminari di formazione, che a volte si protraevano anche per più settimane, nei luoghi più improvvisati e con le persone più diverse.
Durante un Seminario sui sogni condotto da Barrie Simmons al Centro di psicologia e Analisi Transazionale, una prima volta nel 1994, Barrie parla del sogno secondo la psicoterapia della Gestalt, sottolineando alcuni elementi di teoria che poi sperimenteremo nel lavoro sui sogni connesso al seminario. Le citazioni che seguono sono trascrizioni verbatim tratte da quel seminario, come anche il testo a conclusione del mio articolo.
Barrie dice testualmente:
È abbastanza insita nella visione gestaltica in generale la priorità, l’importanza che diamo al sogno non solo come elemento di una situazione, di un processo terapeutico, ma come messaggio, guida, comunicazione, opportunità, occasione. Una specie di saggezza dell’organismo, saggezza forse propria del corpo, che ci è regalata tutte le notti nel nostro riposo… L’organismo comunica con sé e trasmette informazioni, spesso informazioni importantissime, informazioni che sono state trascurate nel tran-tran quotidiano, che sono state oscurate da una serie di schermi; l’organismo, potrei dire il profondo dell’organismo, il nucleo, la base, l’insieme comunica con sé (Simmons, 1994).
Il sogno è un’esperienza, un vissuto, e se cerchiamo di decifrarlo, decodificarlo, leggerlo come se fosse semplicemente una comunicazione cifrata, ne perdiamo la pienezza: il sogno è un messaggio esistenziale, una comunicazione dell’organismo con se stesso, dell’individuo con se stesso.
… tutte le cose che popolano il sogno, gli oggetti, creature, persone che si incontrano, in altre visioni, in altre impostazioni teoriche, sono simboli. Per la Gestalt questo non è necessariamente vero. A momenti il sogno può giocare così. Ma per noi ogni elemento del sogno è vero, una specie di essenza con qualità, caratteristiche, così presentato perché questa è la sua natura e tutti i dettagli hanno un senso: c’è una unità, l’insieme regge quell’elemento del sogno. È una sedia perché il suo essere sedia è il significato e il suo significato è essere sedia. E quel rinoceronte, e quella rosa e quella macchina da cucire, per gli stessi motivi non è casuale, non è una specie di gioco allegorico: decido che, decido io inconscio, decido io sognatore che questo rappresenta tal altro…
C’è una inerenza, un rapporto inevitabile tra signifi cato ed essere (Simmons, 1994).
Il sogno può anche “portare a galla” personaggi, fantasmi, impronte, ricordi del passato. Per la Gestalt questo non è capitale: è l’esistenza presente in qualche pezzo del passato, considerato quindi come presente.
L’interesse nostro non è nell’archeologia del sogno, ma nel risultato attuale. E spesso il sogno può sollecitare l’individuo a integrare o ad accettare o in qualche altro modo ad aggiornare un suo atteggiamento di legame, preoccupazione, dipendenza ferma nel passato. Se l’attuale comprende una psicoterapia è facile che i sogni, per esempio del paziente, parlino anche di questo: un registro dei sogni, una linea di lavoro con i sogni si può riferire a cosa sta succedendo tra terapeuta e paziente (Simmons, 1994).
Per Barrie Simmons il sogno è anche una attività creativa.
Ognuno di noi, nel buio, nel silenzio, nella tranquillità della notte, quando non è aperto il centralino, e arrivano scarsamente i messaggi di fuori, ognuno di noi è straordinariamente creativo. In quel momento, facendo sogni, siamo cineasti, poeti, scrittori. Raccontiamo favole, componiamo film, qualcuno compone musica, si esprime con poesie spontanee e così via. Anche per questo il sogno può essere prezioso: chi studia i suoi sogni sta anche studiando le sue opere. Da sempre, in tutte le lingue che conosco, il sogno non è solo quella esperienza di notte che conosciamo, ma anche significa aspirazione, desiderio, quasi bisogno. Per Freud il sogno è sempre espressione di desiderio; e, molto probabilmente, il sogno è desiderio. L’immaginazione inventa, ci fornisce le cose di cui manchiamo: l’esempio estremo è il miraggio attraverso il deserto. Ma neanche l’architetto può costruire un palazzo se non lo immagina prima. L’immaginazione ha una sua funzionalità concreta: il miraggio non sta solo fornendo immaginazione ma quello che manca in realtà, l’acqua. Tiene l’individuo in piedi, lo aiuta a camminare, a non cadere e arrendersi lì per lì, a continuare magari per un altro mezzo chilometro, un’altra ora, un giorno… L’immaginazione fornisce in un certo senso, energia, motivazione: i sogni di notte (come i sogni di giorno) forniscono all’individuo cose che mancano e motivano il suo percorso e il suo progresso (Simmons, 1994).
Barrie Simmons dice, nel suo modo ricco e generoso, cose note a chi conosce il punto di vista della Gestalt: cose che possiamo trovare nei testi di Perls e di Simkin, e in parte in Naranjo.
Nel bel testo L’eredità di Perls. Doni dal lago Cowichan, nel capitolo secondo dedicato alla terapia in riferimento ad una conferenza tenuta da Perls sul sogno, Il messaggero esistenziale, Perls dice:
Come nella psicoanalisi, il fondamento nella terapia della Gestalt è il sogno. Lavoriamo sul sogno anche quando una persona afferma di non sognare. Quando questo accade, secondo la mia opinione, significa che la gente non vuole affrontare i propri problemi esistenziali Se poi queste persone prendono i sogni per qualcosa di esterno, di estraneo, allora le facciamo parlare con il sogno per scoprire perché non lo ricordano. Noi tutti sogniamo e tutti possiamo imparare dai nostri sogni crescendo grazie ad essi. Secondo me il sogno è molto di più del desiderio di portare a compimento una situazione incompleta. Per me, il sogno è un messaggio esistenziale. Può condurre alla comprensione del copione della propria vita, del proprio karma, del proprio destino. La bellezza di tutto ciò è che una volta assunta la responsabilità di questo copione, dei nostri sogni, allora siamo in grado di cambiare la nostra vita (Perls, 1983).
Il pensiero di Perls sui sogni si traduce con precisa coerenza in strumenti tecnici di intervento, in esperienza diretta. Se il sogno è un messaggero esistenziale sta parlando di me, della mia vita, della mia
esperienza attuale e del passato in quanto presente nella esperienza di oggi: il sogno, quindi, è un oggetto vivo e come tale mi serve. Quando un paziente racconta un sogno, dice Perls, molto della vividezza e della vivacità del sogno è andata persa, occorre “riportare il sogno in vita”, riattivarlo come se il sogno stesse accadendo in quel momento.
Nella terapia della Gestalt si attualizza il sogno con un semplice stratagemma grammaticale: si chiede al paziente di raccontare il sogno al tempo presente e usando la prima persona grammaticale, io, come se il sogno fosse la realtà presente.
Se si desidera potenziare questo procedimento così che il paziente possa connettere il copione della vita con l’esperienza del sogno si può chiedergli di aggiungere “Questa è la mia esistenza” dopo ogni frase del sogno. In tal modo si associano i messaggi del sogno con il copione: il sogno è un piccolo episodio che contiene l’essenza del copione della vita, e… “qualcuno dirà: sto nuotando nell’oceano e questa è la mia esistenza”; “non trovo un posto per riposare e questa è la mia esistenza”; “sento di stare per annegare e questa è la mia esistenza”…
Nel trascritto verbatim di una parte del lavoro sui sogni fatto con Barrie Simmons, allegato in conclusione del mio scritto (Appendice 1), Barrie propone a uno di noi che ha raccontato il sogno, di sperimentare la tecnica di cui parla Perls. Avremo così modo di conoscerla attraverso un lavoro di Barrie.
Accanto all’esperienza del riportare il sogno in vita attraverso l’attualizzazione del sogno, nella terapia della Gestalt, Perls e poi Barrie Simmons, pensano il sogno come una storia una rappresentazione teatrale che può essere messa in scena dal sognatore. Il sognatore è il regista, il cast, le scene: attraverso un processo di interpretazione e identificazione dei personaggi e degli oggetti del sogno, il sognatore riporta a sé le “parti alienate”del sogno, si riappropria di ciò che ha proiettato all’esterno: inizia un processo di integrazione e di ripresa delle potenzialità della persona: nel sogno di Nora preso da La terapia gestaltica parola per parola e riportato a conclusione del mio articolo (Appendice 2), dopo il trascritto di Barrie Simmons, si vede bene ciò che Fritz Perls dice nello stesso testo:
Se alieniamo qualcosa che in realtà ci appartiene – il mio potenziale individuale, la mia vita – ne segue un impoverimento. L’eccitazione e la vitalità vanno a poco a poco scomparendo, finché non diventiamo cadaveri viventi, robot, zombie…
…Per prima cosa bisogna vedere se ci si può reidentificare con la parte alienata: questo si può fare immedesimandosi nella parte alienata in questione. Nel caso di Nora la sua proiezione è la casa incompleta. All’inizio non si vive come una casa incompleta. La casa è proiettata come se lei ci vivesse dentro. Ma la casa incompleta è lei stessa. Quel che le manca è il calore, il colore. Non appena diventa la casa ammette di avere fondamenta solide e via dicendo… Se ho una scala senza ringhiera è ovvio che da qualche parte nel sogno la ringhiera c’è, però manca. Non c’è. E allora dove dovrebbe esserci una ringhiera c’è un buco. Dove dovrebbero esserci calore e colore c’è un buco…
Proiettarsi in ogni piccolo frammento del sogno e diventare in tutto e per tutto l’oggetto in questione è riprendersi, ri-assimilare ciò che abbiamo disconosciuto, buttato via, alienato da noi stessi. Disconoscere alcune parti di sé equivale ad impoverirsi; riappropiarsene attraverso un processo di identificazione equivale ad allargare le proprie potenzialità, ad assumere la responsabilità della propria vita, ricominciando a crescere ed essere vivi.
A volte, come scrive James S. Simkin, (1978), la parte mancante del sogno è la soluzione finale. “Se uno sta su un aeroplano e non arriva mai a destinazione, dovunque stia andando, è questa la parte mancante…”. Nell’analizzare il sogno, si stabilisce un contatto con le parti di sé non riconosciute, e nel fare questo ci si riappropria di ciò che manca, della “parte mancante”. A volte nel sogno manca la destinazione, a volte manca la ringhiera, a volte manca la conclusione del sogno, a volte manca il sogno nella sua interezza – ne ricordiamo qualche frammento; a volte manca il ricordo del sogno, il sogno non c’è, non abbiamo sogni. La parte mancante, “alienata”, in qualche misura è presente in ogni sogno e anche nel non-sogno: compito della terapia della Gestalt è riassimilarne il contenuto nell’Io e aiutare la persona a prendersi la responsabilità delle sue potenzialità non riconosciute, proiettate fuori, come immagini estranee.
Agire il sogno, riportandolo nella esperienza attuale del sognatore, comporta, dice Naranjo in Atteggiamento e prassi della terapia gestaltica, una esperienza creativa di interpretazione o traduzione in movimento e quindi comporta una estensione dell’attività creativa espressa nel sogno stesso… questo non è l’unico modo in cui il lavoro sui sogni può essere ampliato. Può essere utile riempire le lacune con la fantasia, o concludere il sogno al punto in cui lo si è dimenticato svegliandosi. Affrontando questo compito l’individuo necessariamente si trasforma di nuovo in sognatore e diventa tutt’uno con il suo sé sognante. O può dar vita ai personaggi che nel sogno hanno sentito solo emozioni inespresse, in modo che ora entrino nel dialogo. Questo è fattibile se l’individuo ascolta il suo sogno, diventando parte di esso (Naranjo, 1991).
La pratica di riportare i sogni nella esperienza attuale del sognatore, così come di rappresentarli, ha radici antiche ed è una pratica nota agli Indiani del Nord America, così come la consuetudine di trovare una conclusione ai propri sogni è stata praticata dal popolo dei Senoi.
Agire i propri sogni attiva un processo di assimilazione per cui il sogno non è più solo un accaduto, un oggetto, ma dietro al sogno il sognatore pone se stesso e ne diventa responsabile, è come dire “questo sogno è me stesso, non soltanto un sogno”: questo favorisce l’integrazione nella coscienza di una attività inconscia, e riporta l’esperienza del sogno nell’esistenza di chi ha sognato.
Sogni e copione di vita
Per molti anni ho incontrato i sogni miei e dei miei pazienti utilizzando le pratiche di intervento della terapia della Gestalt, viste nella esperienza di formazione con Barrie Simmons o in alcuni seminari condotti da Claudio Naranjo o in alcune esperienze con il collega Pio Scilligo, che aveva avuto la fortuna di lavorare direttamente in America con Fritz Perls. Mi affascina il gesto del riportare il sogno in vita; qualunque sia la tecnica usata nella situazione contingente, con il mio paziente arriviamo a un punto in cui effettivamente consegue una esperienza di ampliamento delle potenzialità, di ripresa di responsabilità nella propria esistenza. Magia dei sogni.
Sono sempre stata restia ad utilizzare le tecniche della terapia della Gestalt nel lavoro con i sogni applicando il linguaggio dell’Analisi Transazionale e quindi, per esempio, leggendo le singole parti di un sogno come Stati dell’Io e tentando di metterle in relazione, moltiplicando il numero delle “sedie”. Ho visto questa applicazione in atto anni fa con un collega analista transazionale, forse Francisco del Casale, e ne ho riportato una impressione come di una banalizzazione del lavoro sui sogni proposto e praticato dai colleghi gestaltisti.
Contemporaneamente mi è chiara l’esigenza di mettere in un contesto “relazionale” sia interno che esterno alla persona le singole parti rappresentate, oppure di mettere in relazione la conclusione mancante del sogno con il sogno nella sua interezza, o un frammento di sogno con il sogno stesso e così via. Anche mi accorgo di come il modo, il processo di raccontare il sogno, le inevitabili attribuzioni (è un sogno strano; mi sembra un sogno scabroso; non so cosa c’entra questo sogno con me; è un sogno incompleto; ho l’impressione che siano più sogni in uno…) che la persona utilizza nel parlare del sogno, possano essere parte integrante del sogno come luogo di ampliamento di consapevolezza.
Negli ultimi anni mi sono abituata a considerare il sogno come un messaggio relativo al copione, un messaggio complesso con molte sfaccettature. Il copione in Analisi Transazionale è il modo in cui il bambino racconta a sé la sua vita e quello che è necessario fare per cavarsela senza troppe ferite, all’interno del suo contesto di vita e di relazioni. Naturalmente, il racconto del bambino, più e più volte narrato a sé e messo in scena con altri significativi, è un racconto intuitivo, legato alle impressioni del bambino, a ciò che egli percepisce come suoi bisogni irrinunciabili da una parte e come richieste dell’ambiente dall’altra.
La struttura fondamentale del copione di vita, secondo Eric Berne, è già pronta, provata e riprovata, nei primi sei anni di vita: le linee essenziali tracciate, alcune importanti decisioni prese. Il copione si costruisce all’interno della struttura di secondo grado del B, nella continua interazione tra bisogni del bambino, messaggi percepiti dall’ambiente di vita e strategie che possano creativamente mettere insieme, far coesistere le diverse istanze. Il processo di costruzione del copione appartiene al mondo dell’intuizione, al modo dell’A1, per intenderci, non è costruito da un pensiero adulto consapevole che agisce in modo intenzionale. Con il tempo alcuni comportamenti copionali che pure sono state utili strategie di sopravvivenza in un tempo passato, diventano compagni scomodi, disfunzionali, ripetitivi, non più adeguati alla evoluzione della persona nel suo procedere esistenziale. È attraverso questa ripetizione che si percepisce, soprattutto nelle relazioni con il mondo, che possiamo avere accesso e riconoscere come e per quale buon motivo abbiamo messo a punto un piano di vita, utile là ed allora, un po’ stretto adesso. In qualche modo possiamo riportare in luce, togliere dall’ombra, svelare a noi stessi cosa abbiamo lasciato indietro di “noi” per far posto alle richieste percepite nel contesto di allora, ed anche cosa è importante recuperare oggi per dare spazio al soggetto che vogliamo essere, sia nel rapporto con noi che nella interazione con il mondo. A mio parere i sogni ci parlano di tutto questo: un sogno contiene le tracce del mio copione di vita e le ripropone, rappresentandole, all’individuo che sono oggi, e contemporaneamente apre nuove strade.
Eric Berne dà più definizioni di copione, a seconda della distanza anche cronologica che egli pone tra sé e la sua origine psicoanalitica: accade quindi che le definizioni più vicine ai tempi della sua formazione psicoanalitica risentano maggiormente di questa impostazione. In Analisi Transazionale e psicoterapia Berne scrive:
Il copione appartiene al regno dei fenomeni di transfert, cioè è un derivato o più propriamente un adattamento di reazioni ed esperienze infantili; esso però non si occupa semplicemente di una reazione di transfert o situazione di transfert; è un tentativo di ripetere in forma derivata un intero dramma transferenziale, spesso suddiviso in atti, esattamente come i copioni teatrali, che sono dei prodotti artistici intuitivi dei drammi primitivi dell’infanzia (Berne, 1961).
In questa definizione, Eric Berne sottolinea la dinamicità del copione, costruito, messo in scena e ripetuto nella interazione con altri, in modo inconsapevole; la ripetizione, ri-recitata nella stanza dell’analisi, coinvolge anche la relazione con il mondo con cui interagiamo. In altre occasioni, io stessa (2001) ho avuto modo di accennare al copione come ad un vero e proprio sistema di attaccamento che il bambino costruisce a partire dalle prime, significative interazioni con il suo ambiente; sistema di attaccamento che contiene in sé le qualità relazionali e interattive destinate ad essere ripetute nelle diverse esperienze relazionali future, diventando modello inconsapevole di rapporto con il mondo (Rotondo, 2001).
I sogni contengono tracce del nostro copione e ci parlano, a mio parere, del nostro rapporto con il mondo, o meglio del sistema di attaccamento, spesso in ombra, che siamo portati a ripetere nelle relazioni con gli altri. A questo proposito ricordo un breve sogno che mi sembra possa illustrare quello che dico.
Un sogno
Il sogno che trascrivo di seguito viene raccontato in un contesto di supervisione da un collega. È il sogno di un paziente che il collega segue da quasi tre anni. Nel riferire il sogno, il collega dice di essersi “sentito gelare” quando il suo paziente lo racconta; ha avuto la sensazione che il sogno fosse rivolto direttamente a lui, ha deciso di tacere, di non fare nessun intervento: come se si fosse “preparato a fronteggiare un attacco”, una aggressione.
Nella supervisione la domanda che il collega si pone è relativa alla sua reazione, in particolare al senso di distanza emotiva che l’ha accompagnato, ripensando al suo paziente, anche nei giorni seguenti. Prima di raccontare il sogno il paziente ha detto testualmente: “non è un sogno è un flash, e voglio solo raccontarlo”. Il collega si chiede se la sua sensazione di distanza emotiva possa essere connessa alla “presentazione” del sogno fatta dal suo paziente. Il sogno dice: “Sono nella stanza della terapia, c’è gente e tra questa gente anche il mio analista che è il re. Mentre lo guardo rimpicciolisce, diventa piccolo, minuscolo, la sua voce è debole, nessuno lo ascolta. Io gli rido in faccia mentre parla, chinandomi su di lui”.
Il paziente è un uomo di una cinquantina d’anni, sofferente di gravi crisi depressive, legate a una persistente percezione di vuoto esistenziale; da qualche tempo è in trattamento farmacologico. È sposato, ha due figli adolescenti, ha un lavoro verso cui manifesta motivazione e interesse. È stimato nel suo ambiente professionale, anche se a volte si ritira ed evita i contatti con i colleghi. È alla sua terza analisi, avendo interrotto le due precedenti. Qualche settimana prima del sogno, ha comunicato la sua intenzione di interrompere anche questa ultima per iniziarne una quarta. La comunicazione aveva il carattere di una scelta già fatta: il paziente aveva già sentito il suo prossimo analista, su indicazione di una conoscente, aveva già preso accordi e avrebbe probabilmente fatto, con lo stesso analista, anche alcuni incontri di coppia, nella speranza di rendere meno difficili i rapporti con la moglie. Anche in quella occasione il collega racconta di aver avuto la sensazione di una distanza emotiva non colmabile; anche lì ascolta la decisione del suo paziente di interrompere l’analisi, senza commentare.
Da alcune informazioni sul paziente emerge una persistente difficoltà relazionale che ha origini antiche: egli ha da tempo interrotto i rapporti con la sua famiglia di origine e ha spesso riferito dei suoi contrasti con il padre con cui ha avuto fin da bambino una relazione difficile, e da cui si è spesso sentito non capito e disprezzato per le sue scelte. La madre del paziente è morta di una grave malattia, quando egli era ancora un ragazzo e il paziente racconta di aver pensato che la responsabilità fosse del padre.
Con il collega ripercorriamo alcuni elementi copionali del paziente: emergono alcuni messaggi, da lui percepiti, da parte dei genitori, in particolare un comando paterno che spinge il paziente a “compiacerlo” se non vuole essere abbandonato e un ordine materno a “farcela da solo”, se non vuole morire. Dal comportamento del padre il paziente ha capito come deve fare per restare estraneo e essere svalutante, tenendo così lontani gli altri. Questi messaggi e comportamenti genitoriali hanno sottolineato una più antica difficoltà ad avere fiducia in sé e negli altri e a sperimentare un sentimento di intimità e di appartenenza non solo verso le persone, ma verso la stessa esistenza. In qualche modo, in un tempo lontano il paziente deve aver deciso di far fronte alla sofferenza e al dolore, vagando da una perdita all’altra, alla ricerca di un attaccamento sicuro e affidabile, che contemporaneamente attacca e distrugge.
Durante la supervisione mi viene in mente un libro che sto leggendo Amore e odio nel setting analitico di Glen Gabbard, da cui cito testualmente:
Alcuni pazienti possono scivolare temporaneamente in transfert di odio maligno e tuttavia conservare gli aspetti “come se” del transfert per gran parte del lavoro analitico. La mia attenzione si rivolge qui al paziente il cui transfert prevalente è la forma maligna dell’odio, nel quale i momenti di riflessione e sollievo dall’intensità dell’affetto negativo sono l’eccezione piuttosto che la regola. Uno dei veri paradossi che caratterizzano questi pazienti è il loro ricorso ripetuto al trattamento, nonostante una totale insoddisfazione con ciascun terapeuta. Spesso passano da un analista all’altro, portandosi dietro ogni volta sentimenti di delusione e di risentimento.
Sembra che si rivolgano al trattamento perché il nucleo più profondo del loro essere dipende dall’esistenza di una relazione in cui attaccano colui che cerca di aiutarli.(…) I pazienti di questo tipo che appartengono a un gruppo più ampio di persone inclini alle reazioni terapeutiche negative, sono spesso identificati con un oggetto interno sadico e crudele, capace di dare una parvenza d’amore solo se associato a odio e sofferenza. In altre parole l’odio è il prezzo da pagare per il loro attaccamento. L’alternativa è lo stato di inesistenza. Questa formulazione, naturalmente, suggerisce la ripetizione di una situazione infantile in cui le figure di accudimento erano maltrattanti (Gabbard, 2003).
Il sogno porta alla luce uno stile di attaccamento probabilmente ripetitivo: qualcuno che un tempo era una persona importante e ascoltata (un re), ora rimpicciolisce, diventa minuscolo e nessuno lo ascolta. Il passaggio da re a essere minuscolo e inascoltato avviene sotto lo sguardo del paziente nel sogno che “gli ride in faccia mentre parla”, chinandosi su di lui: come distruggere gli attaccamenti significativi, svalutandoli e rimpicciolendoli, in attesa di separarsene. Naturalmente, questo processo di svalutazione proiettato all’esterno, riguarda anche il dialogo interiore del paziente con se stesso, a cui sembra essere associata una notevole sensazione di possibile fallimento.
Nel sogno è in luce la strategia difensiva del paziente su come tenere lontani da sé i legami importanti della sua vita; possiamo però intuire qualcosa, rimasto in ombra, che ‘giustifica’ la portata degli aspetti difensivi: il bisogno originario, profondo, del paziente di un legame con qualcuno che possa ascoltarlo, comprenderlo, relazionarsi con lui in modo affidabile e continuo, che sostenga il suo esistere.
Il sogno racconta la storia ripetitiva e difficile di questa ricerca, la sua importanza nella vita del paziente. Per un analista può essere utile, a volte, intravedere ciò che è in ombra, risalire ai bisogni originari del suo paziente, così da distanziare da sé e reggere eventuali attacchi distruttivi, da una parte e sostenere eventuali processi di cambiamento intravisti nel sogno.
Farsi condurre dai sogni
A volte si potrebbe raccontare la storia analitica di un paziente attraverso i suoi sogni, i passaggi rappresentati nei sogni. Penso ad un mio paziente che per un certo periodo ha sognato di avere smarrito la sua automobile in un parcheggio e di temere di non ritrovarla: una parte dei sogni di questo periodo è dedicata alla ricerca della automobile smarrita. Poi, un sogno più “radicale”, potremmo dire, forse, venuto da più lontano, da più lontano degli stessi nodi copionali, e reso possibile dai sogni che lo avevano preceduto, lo mette di fronte a qualcosa che sta succedendo nella sua vita da molto tempo: nel sogno un chirurgo gli esporta organi vitali e li trapianta in altri “sono tutto aperto, grondo sangue, ma non sento niente, sono anestetizzato”. Il paziente del sogno assiste a questa operazione, in qualche modo impotente, e alla fine è costretto a ricucirsi da solo.
Questo sogno coincide con alcuni cambiamenti sofferti e importanti nella vita del paziente, soprattutto con il cambiamento di alcune sue modalità relazionali consolidate e ripetitive: i suoi sogni lo aiutano a intravedere come, proteso in una risposta senza condizioni alle richieste dell’altro, rinuncia a sé, alla sua voce, ai suoi bisogni correndo il rischio di perdersi, soprattutto di perdere aspetti vitali di sé. In questo processo di cambiamento emerge, accanto ad alcune modalità di comportamento ripetitive, la decisione antica di copione del paziente, presa in un tempo in cui da bambino ha sperimentato la inaffidabilità delle persone adulte, (quelli che dovrebbero curarlo), intorno a lui e ha deciso di fare da sé e di “riparare” i danni procurati da altri. A distanza di qualche tempo, il paziente sogna di essere alla guida di un’auto, la sua, e di guidarla pur avendo alcune difficoltà nel riconoscere la strada ad un incrocio: nella elaborazione di questo nuovo sogno, ci focalizziamo sul fatto che, pur avendo alcune difficoltà a trovare la direzione, è lui alla guida della sua auto.
Come dice Barrie Simmons i sogni sono messaggeri esistenziali, ci parlano di noi e di ciò che stiamo vivendo nelle profondità del nostro organismo; nel fare questo i sogni svolgono una funzione importante, fanno da guida, ci aiutano a rendere “storia” il passato e a collegarlo al presente. Mauro Mancia (2004) sottolinea la dimensione costruttiva e ricostruttiva del sogno. Nella sua funzione costruttiva il sogno apporta “preziose tessere al mosaico che si forma nell’hic et nunc della seduta”; la funzione ricostruttiva
può scaturire da alcune rappresentazioni del sogno che permettono all’analista di offrire al paziente delle immagini relative alla sua vita infantile precoce, alle sue emozioni, affetti, vissuti, angosce, rabbie, risentimenti, disperazione che il bambino che è in lui ha esperito nei confronti di sua madre e di traumi minori o maggiori che può avere incontrato in questa precoce relazione. Attraverso queste immagini il paziente, anche senza il ricordo, può crearsi una rappresentazione di sé e nel transfert rivivere emozioni passate. Attraverso di esse egli può iniziare un processo ricostruttivo quale base per una ritrascrizione della sua storia passata e dimenticata (Mancia, 2004).
Il sogno diventa così per Mauro Mancia, una esperienza totale all’interno di una relazione analitica, perché permette sia l’emergere di un inconscio rimosso, attraverso il ricordo di esperienze passate depositate nella memoria, sia il recupero di esperienze inconsce non rimosse depositate nella memoria implicita.
Il sogno assolve in tal modo ad una funzione di ponte tra le esperienze del passato e quelle del presente, dà continuità alla storia come è stata costruita nel copione di vita, luogo dei contenuti dell’inconscio rimosso che man mano emergono alla memoria; e alla storia che precede la costruzione copionale, come è stata intuita, percepita, non formulata, nel protocollo di copione, sede delle esperienze inconsce non rimosse, depositate nella memoria implicita. Il sogno ci aiuta a rendere narrabili le esperienze più antiche e più intime della nostra vita, e ad inserirle nel nostro pensiero di oggi.
Il sogno è una guida anche all’inizio del processo analitico, nel primo o nei primi colloqui. Aiuta il terapeuta a vedere dove si sta posizionando con il suo paziente, che direzione sta prendendo all’interno di una storia copionale già tracciata, quali precauzioni eventuali possono essere utili per evitare una inconsapevole collusione con i comportamenti relazionali ripetitivi del paziente, rinforzandoli senza averne conoscenza.
Un paio di anni fa una giovane donna chiede con una certa insistenza un primo colloquio e, avendo io ritardato qualche giorno a richiamarla, non esita a lasciare una lunga lista delle sue disponibilità di tempo alla segretaria. Ci incontriamo prima dell’estate per un colloquio, e restiamo d’accordo di risentirci poi, dopo le vacanze estive per altri colloqui ed eventualmente per un percorso psicoterapeutico. Durante il primo colloquio ho modo di costatare la simpatia, l’intelligenza, la disponibilità della giovane donna. A inizio settembre la telefonata di ripresa dei nostri contatti tarda ad arrivare, tanto che mi chiedo se non ho sbagliato a capire: forse toccava a me richiamarla. Di fatto richiama lei un po’ in ritardo rispetto a come mi aspettavo, e ci incontriamo per la seconda volta. Ho da subito una sensazione di fatica, come se questo secondo incontro fosse più pesante del primo; mi dispongo ad ascoltarla. Come già avevo notato, è una donna intelligente, vivace, capace professionalmente: mi piace. Durante l’estate ha messo a punto, anche seguendo alcune cose dette tra noi nel primo colloquio, la sua situazione affettiva. È sposata con un uomo con cui trova poco soddisfacenti le relazioni di intimità e gli scambi affettivi, ma che in compenso è un ottimo padre per i due figli. Nella sua richiesta iniziale, nel primo colloquio, compariva il desiderio di avere uno spazio più ampio per sé, di avvicinarsi ai suoi bisogni, al suo mondo emotivo: ritiene di essere troppo impegnata, tra casa, lavoro, figli e di dover fare tutto da sola, a volte con fatica e soprattutto con pochi riconoscimenti emotivi. Reincontrandoci si dichiara perplessa, ha come perso una parte della motivazione iniziale, in particolare teme di turbare l’equilibrio del rapporto con il marito anche se ritiene questo rapporto insoddisfacente per lei. Racconta un sogno: si trova in una casa di campagna, una casa della sua famiglia di origine, “simile come struttura a questo posto”, c’è una sala di attesa e una panca; all’interno, un divano. Sul divano insieme a lei qualcuno con cui volentieri avrebbe scambiato un dialogo affettivo, intimo. Ma è consapevole che non può perché nel resto della casa ci sono altre persone e deve trovare per loro un letto e lenzuola adeguate, deve provvedere alla loro sistemazione.
Nel rileggere il sogno insieme emerge una sorta di ambivalenza, come se la paziente fosse sospesa, forse contesa, tra due istanze: da una parte dal “dovere esser” adeguata a ciò che la sua situazione attuale, e forse anche le situazioni precedenti, le richiedono (deve essere pronta, disponibile rispondere adeguatamente alle richieste dell’ambiente, darsi da fare); altrove emergono i suoi bisogni di intimità e di affetto, di attenzione a sé. Questa duplice aspettativa la segue fin nella stanza dell’analisi, dove da un lato desidera scambi di intimità, trovare spazi per sé, riprendere in considerazione i suoi bisogni; dall’altro esita, teme di “mettersi in un altro tipo di dovere” dove alla fine potrebbe chiedersi di mettere a rischio un equilibrio esistente, di trascurare i suoi doveri (sistemare le persone della casa): nel sogno i doveri distanziano la giovane donna dai suoi desideri, dall’abbraccio desiderato sul divano. Aver intravisto queste semplici linee del sogno, averne parlato insieme, ci aiuta a intuire alcune modalità difensive, copionali, con cui la giovane donna si tiene lontana da sé e dagli altri e come queste possano
eventualmente essere ripetute lì, nel suo percorso terapeutico, nella relazione con l’analista; ma anche ci permette di intuire, attraverso le immagini del sogno, come in filigrana, ciò che la spinge, la motiva verso un cambiamento.
Farsi condurre dai sogni ha il significato di accettare la presenza dei sogni nel percorso analitico, di vederne la pregnanza. I sogni riguardano l’esistenza di ciascuno di noi, e possono avere differenti significati, per chi sogna, ma anche per chi ascolta il sogno. I contenuti del sogno non appartengono ad un uni-verso di significati; un sogno è poli-verso, può esprimere molteplici significati contemporanei: questo implica un non giudizio e anche l’assunzione della ricchezza contenuta nei sogni. Il non giudizio aiuta ad ascoltare il sogno, accoglierlo, permettendogli di lasciare il suo segno di immagini, intuizioni, sensazioni, senza volerlo costringere in una interpretazione, unica e certa, come usava un tempo, e magari “vera”. La ricchezza della molteplicità dei significati consente di ascoltare il racconto di un sogno e di vedere solo una parte dei messaggi ad esso legati, e di riprendere in seguito lo stesso sogno e coglierne altri aspetti, a seconda della qualità relazionale presente tra paziente e terapeuta, del momento analitico attraversato, della disponibilità emotiva presente nel contesto dell’analisi. Si può non reagire subito ad un sogno, se il racconto del sogno non suggerisce una reazione: il sogno può essere ripreso in altri momenti, quando alcune delle immagini che esso racchiude si intersecano con ciò che sta avvenendo nel rapporto con il paziente, o quando emerge una direzione, un messaggio indicato dal sogno e appropriato alla situazione analitica.
Farsi condurre dai sogni ha anche il senso di considerare il sogno come una presenza, un oggetto di relazione tra analista e paziente, un oggetto condiviso, elaborato insieme, un oggetto di attenzione per i due soggetti impegnati nella relazione analitica: il sogno racconta qualcosa di ciò che sta avvenendo lì, connesso ad altri tempi e luoghi, di come procede la relazione paziente analista. Il sogno permette di sviluppare reciprocità. Spesso i sogni contribuiscono a costruire un lessico condiviso, che consente di esprimere emozioni e immagini intuitivamente, rinforzando l’alleanza analitica.
Per l’analista farsi condurre dai sogni ha il significato di accogliere con affetto i sogni del paziente, sapendo che in un tempo o nell’altro la ricchezza in essi contenuta emergerà e contribuirà ad allargare il campo delle forze dinamiche presenti nella relazione analitica e della responsabilità soggettiva del paziente.
Per concludere
Dal sogno emergono linee di aspetti copionali, rintracciabili in schemi di comportamenti relazionali ripetitivi; ma il sogno oltre a indicare attraverso le immagini i meccanismi difensivi, svolge anche una funzione evolutiva.
Per Barrie Simmons i sogni forniscono all’individuo energia, motivazione verso ciò che manca nella realtà, e sostengono il suo percorso e il suo progresso. James Fosshage, con un diverso linguaggio, nell’articolo La funzione organizzativa dell’attività mentale del sogno, che compare di seguito in questo numero dei «Quaderni», sottolinea l’attività mentale e riorganizzativa del sogno, e ci mostra come i sogni contribuiscano non solo ad elaborare informazioni, ma anche a costruire immagini di nuovi comportamenti, favorendo così lo sviluppo dell’individuo.
L’analista deve poter individuare accanto agli aspetti difensivi presenti nel sogno, gli aspetti creativi, i “momenti” di svolta, che testimoniano la funzione evolutiva dell’attività mentale durante il sogno e sostenere le nuove configurazioni di immagini e di comportamenti rivolti al cambiamento. Mi piace concludere queste pagine con le parole di Pio Scilligo, studioso e ricercatore, amante dei sogni, che ha dedicato molte delle sue energie a scrivere di sogni e ha aiutato molti di noi a credere nella direzione indicata dai sogni:
I sogni sono una fonte ricca di conoscenza del proprio modo di essere a livello conscio e inconscio e una guida preziosa per orientare la propria vita; sono una risorsa per spiegare e capire il passato, il presente e per intuire verso quali orizzonti la persona si sta orientando; sono uno strumento di integrazione di importanti processi iniziati durante la vita di veglia e di parziale gestione dei conflitti che insorgono nell’esperienza della vita quotidiana. In altri termini nei sogni la persona ha a propria disposizione uno strumento per rivelarsi a se stessa nei propri segreti passati, per informarsi sulla propria condizione esistenziale attuale, per illuminarsi e sperimentarsi sui probabili piani futuri e per lavorare attivamente sui problemi derivanti dai successi e dagli insuccessi nei vissuti e nelle speranze di ogni giorno (Scilligo, 1988).
Bibliografia
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Simmons B., trascrizione verbatim dal Seminario sui sogni, condotto presso il Centro di psicologia e Analisi Transazionale, Milano1994
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Weiss E., (1960), trad. it. Struttura e dinamica della mente umana, Cortina Editore, Milano 1991
APPENDICE 1:
TRASCRIZIONE VERBATIM DAL SEMINARIO SUI SOGNI
CONDOTTO DA BARRY SIMMONS
Il seminario si è tenuto nel 1994 presso il Centro di Psicologia e Analisi Transazionale di Milano. La trascrizione è a cura di Anna Rotondo
B. Tu ricordi un sogno. Raccontalo. Sarò contentissimo di sentirlo. Si può raccontare il sogno con delle particolarità, al tempo presente grammaticalmente parlando – cioè non “sono stato, ho visto, vedevo” ma “vado, vengo, dico”, come se stesse succedendo adesso a una persona, cioè io, in prima persona.
Non mi interessa l’interpretazione: il perché ho sognato questo, perché non ho sognato quell’altro. Invece voglio i dettagli, anche i più piccoli, fisici, emotivi, visivi, come se tu stessi descrivendo, non so, un filmato che hai visto, una emissione televisiva. Ovvio che non puoi raccontare quello che non ricordi; non c’è da preoccuparsi. Ma sono contento di sentire tutto quello che ricordi.
S. Incomincio?
B. Incomincia guardando qualcuno: chiunque, o cambiando da persona a persona. Guardando, racconta il tuo sogno a persone, non all’aria o così, di fronte a te.
S. Mi era più facile chiudendo gli occhi.
B. Lo so, fallo con difficoltà allora.
S. Faccio con difficoltà, allora.
B. Non è necessario essere forti per affrontare una difficoltà. Siamo in grado di affrontarla.
S. Io sono in macchina e sono insieme al mio compagno e un’altra persona che non ricordo ma è un mio amico. E c’è la figlia del mio compagno che guida. Però non è lei. Io sento che lei è la figlia del mio compagno ma non è lei.
È una bella giornata, stiamo andando e io mi sento un po’ preoccupata che ci sia lei alla guida. Perché da… non mi fido molto. Non mi fido che prenda la strada giusta. E adesso stiamo avvicinandoci a uno di quei grossi cartelli che ci sono in autostrada, dove ti dicono tutte le direzioni dove andare e stiamo per passarci sotto e io le dico di rallentare, perché così possiamo vedere qual è la strada giusta per Grenoble. E lei non lo fa, passa. E io non ho fatto in tempo a vedere la direzione giusta. Neanche lei, neanche gli altri. E adesso siamo a un bivio. Ci sono i cartelli lontano, ma io non riesco a vederli. E allora lei prende la macchina e sterza a sinistra, va a sinistra e quella è l’autostrada sbagliata. E io so che mi sono un po’ “incazzata” con lei, perché ha preso quella strada sbagliata. E adesso siamo fermi, siamo dentro come a un grill dell’autostrada e io sto parlando con loro e c’è il mio compagno, c’è Andreina, c’è quest’altro amico e io sto parlando con loro e dico a Andreina: «Permettimi di farti un appunto. Avresti dovuto fermarti quando sei arrivata a quel cartello e guardare con attenzione dove stavi andando». E io dico questa cosa e il mio compagno mi dice: «Ma smettila di rimproverarla» e io mi arrabbio moltissimo e gli dico: «Ma insomma! Non si può mai dire niente a tua figlia. Non si può mai correggerla su niente. Tu sei troppo tenero con lei e questo non è il modo di crescere una ragazzina; ogni tanto bisogna pur dirle quando sbaglia». Fine.
B. L’ultima immagine… se fosse un film: l’ultimo fotogramma, l’ultima inquadratura visiva del sogno… Ti svegli, ti accorgi di…
S. Stavo in piedi, io sto parlando con il mio compagno e c’è questo amico da una parte e la figlia sempre lì vicino. Non so dire quando sento che è lì, non so se sta ascoltando o no.
B. Ti sarei grato se tu… Come ti chiami?
S. Sandra
B. Se tu puoi raccontarci questo stesso sogno da capo… nella misura possibile. Lo so che non sei un computer, ti sto dicendo qualcosa di assurdo, ma nella misura che più ti è possibile, con le stesse identiche parole con cui hai raccontato il sogno.
Da capo. Stesse parole. Solo con una piccola aggiunta, dopo ogni frase compiuta soggetto, verbo, oggetto- non spaccando le frasi, ma dopo ogni frase, aggiungi le parole «e questa è la mia esistenza»… tot, tot, tale «e questa è la mia esistenza»… e ancora… io così, quest’altro «e questa è la mia esistenza», eccetera eccetera.
Dopo ogni frase: «e questa è la mia esistenza». Sbaglierai, non utilizzerai precisamente le parole di prima: sarebbe un raggiungimento oltre l’umano. Comunque, nella misura in cui puoi, usa le stesse parole. E alla fine di ogni frase: «e questa è la mia esistenza». Guarda me.
S. Sono in macchina, in autostrada… e questa è la mia esistenza.Sono in compagnia di mio marito…
B. Del mio compagno.
S. Del mio compagno, della figlia del mio compagno e di un altro amico e non ricordo chi. E questa è la mia esistenza.
B. Puoi ripetere questa frase?
S. Sono in compagnia del mio compagno, della figlia del mio compagno e di un amico che non mi ricordo chi è. E questa è la mia esistenza. Alla guida dell’auto c’è la figlia del mio compagno e questa è la mia esistenza.
B. Puoi ripetere questa frase? Alla guida…
S. Alla guida dell’auto c’è la figlia del mio compagno.
B. E questa…
S. E questa è la mia esistenza. Stiamo viaggiando, io sono preoccupata perché è Andreina che sta guidando e questa è la mia esistenza.
B. E sono preoccupata perché è Andreina che sta guidando. Vai avanti.
S. Non mi fido di lei, ho paura che sbagli strada e questa è la mia esistenza.
B. Puoi ripetere? Non mi fido…
S. Non mi fido di lei, ho paura che sbagli strada. E questa è la mia esistenza. Stiamo per arrivare a un cartello, grande, dove ci sono indicate le direzioni da prendere. E questa è la mia esistenza. Io chiedo ad Andreina di rallentare per guardare bene i cartelli. E questa è la mia esistenza. Lei va veloce, non lo fa, passiamo sotto il cartello senza che io abbia potuto vedere. E questa è la mia esistenza. Adesso sono…
B. Puoi ripetere anche qua? Lei va veloce…
S. Lei va veloce, non si ferma, passa sotto
B. Il cartello
S. Il cartello
B. E io…
S. E io non posso vedere bene
B. E questa…
S. E questa è la mia esistenza. Adesso sono a un bivio. Siamo a un bivio
B. Siamo a un grande bivio
S. Siamo a un grande bivio
B. Citazione testuale: siamo a un grande bivio.
S. E questa è la mia esistenza.
B. Ripeti
S. Siamo a un grande bivio e questa è la mia esistenza.
B. E poi?
S. Non so. Non riesco a vedere bene. Ci sono dei cartelli.
B. Lontani
S. Lontani. Non riesco a vederli bene.
B. E questa
S. E questa è la mia esistenza. Giriamo a sinistra. Andreina gira a sinistra.
B. Andreina gira a sinistra.
S. E questa è la mia esistenza. Io mi accorgo che abbiamo sbagliato strada. Dovevamo andare dall’altra parte. E questa è la mia esistenza. E adesso siamo…
B. C’era un riferimento a Grenoble?
S. Sì, la direzione per Grenoble era l’altra. E questa è la mia esistenza. E adesso siamo sul grill dell’autostrada. Fermi. E questa è la mia esistenza.
B. Ripeti… e adesso…
S. E adesso siamo sul grill dell’autostrada. E questa è la mia esistenza. Ci siamo tutti. C’è il mio compagno, c’è Andreina, c’è l’altra persona che non mi ricordo. E stiamo lì parlando.
B. In piedi.
S. Siamo in piedi. E questa è la mia esistenza. E io dico a Andreina: «Permettimi di farti un appunto». E questa è la mia esistenza.
B. Ripeti
S. E io dico a Andreina: «Permettimi di farti un appunto». E questa è la mia esistenza.
B. … (fa un cenno con la mano)
S. E io dico a Andreina: «Permettimi di farti un appunto». E questa è la mia esistenza.
B. Un’altra volta. Vogliamo sentire bene.
S. E io dico a Andreina: «Permettimi di farti un appunto». E questa è la mia esistenza.
B. Ah!
S. « Avresti dovuto fermarti a guardare bene la direzione. E non l’hai fatto! ». E questa è la mia esistenza. E mio marito…
B. Compagno
S. Compagno mi dice: «Smettila di rimproverarla». E questa è la mia esistenza. E io mi arrabbio moltissimo e gli dico: «Ma non si può mai dire niente a tua figlia».
B. E questa…
S. E questa è la mia esistenza. «Sei troppo tenero con lei». E questa è la mia esistenza. «Così lei non cresce bene». E questa è la mia esistenza.
B. Dì quello che stai provando adesso. Il sentimento che hai in petto, in pancia, in gola, su questo asse centrale. Sentimento. Se deve arrivare tramite una sensazione fisica va bene, puoi dire prima quella. Se riconosci subito il sentimento…
S. Non mi viene… paura
B. Paura. Bene. Per te esiste la paura. È quello che ti ha colpito. Sì, qualcosa, okay, che ti ha colpito, che hai visto. O sul sogno o su te stessa, sulla tua esistenza. Raccontando il sogno questa volta in questo modo, è quello che hai notato.
S. Adesso ho fatto un po’ delle scoperte. Man mano. Beh, alcune sono delle riscoperte.
B. Sì, sì. Noi siamo psicologi e la prima regola è: nessuna scoperta è fatta per la prima volta. Io, quando mi accorgo di qualcosa, dico sempre: «Ah sì, lo sapevo già!». Perché lo sapevamo già sul manuale.
S. Ma una… La prima scoperta riguarda la persona che c’è, ma che non riconosco.
B. Cioè?
S. Cioè che è vero che io sto viaggiando nella mia vita con un legame del passato molto forte che non ho mai voluto sciogliere definitivamente. E questo legame c’è. Sento la presenza di questa persona nella mia vita. L’altra scoperta…
B. Vedi… posso sbagliare. Io immaginavo che è anche tuo padre.
S. Lo è. In qualche modo lo è e non lo è. Un po’… lo è. Quello vero non c’è più. Poi, un’altra cosa è il sogno in generale. Cioè, io vado avanti nella mia vita cercando di prendere delle decisioni alla svelta e spesso anche buttandomi nelle cose e sono poco disposta a tollerare gli errori che faccio. Quindi mi rimprovero tantissimo e non mi do tregua. Non so come dire.
B. Perché da una parte tu non rallenti, passi sotto il cartello. Dall’altra ti rimproveri. Questo stai dicendo.
S. Questo.
B. E poi? L’altra piccola scoperta che stavi per dire e che ho perso per strada…
S. Probabilmente adesso non avevo…
B. Sì, vai avanti.
S. Stavo pensando al mio compagno tollerante. Lo è. Cioè ha questa parte tollerante. Questo. La fatica che faccio… Cioè questa cosa qui. La fatica che faccio a perdonarmi.
B. Perdonarmi?
S. Sì.
B. Altro? … Io sono stato anche colpito dal fatto che c’erano parti… di pezzo di tuo sogno, di te, che è figlia del tuo compagno. Ed è lei che è al volante. È lei che schizza via. È lei che passa veloce sotto l’indicazione. Più rapidamente che tu puoi vedere. E poi che siete a un bivio. «Siamo a un grande bivio». E le indicazioni sono in lontananza, non le vedi.
E… «che sento che la strada giusta era l’altra… Che ho fatto? Io svolto, giro e lo sento che non è la strada giusta».
E poi ero colpito io dall’ultima scena. Fermi all’autogrill, in piedi. Dove c’è questo discorso sul rimprovero. E c’è il rimprovero per rimproverare. Perché tu non ti perdoni neanche il non perdonarti. E c’è una catena: prima, che tu rimproveri Andreina e poi il padre di Andreina che rimprovera te, per rimproverarla.
Queste cose… certo… elaborazione della consapevolezza: accorgersi di quello che uno ha appena detto, accorgersi che i tuoi input sono infiniti ma…
Io posso fermarmi qua, io voglio fermarmi qua. Se tu hai altro che puoi dire al riguardo t’ascolto molto volentieri. Se no, no … C’è una disponibilità.
S. Una cosa che stavo pensando in questo momento è che non… Ho sentito anch’io che sono a un bivio di qualche tipo, ma che non so, ma che resto con il mio sapere di che bivio si tratti. La cosa che io spero è che sia un bivio in cui io possa uscire da un mio modo di essere con me stessa che è molto pesante per me. Però questa è proprio una speranza. Io non so se questo bivio ha a che vedere con altre cose della mia vita.
B. Quindi io so o sento che sono a un bivio e non so quale bivio è. Testuale. Questo anche… A questo riguardo anche il sogno rispecchia latua esistenza.
Proprio il sogno di stamattina è la realtà attuale. Okay.
Il sogno, ho detto, proviene in qualche modo dal profondo dell’organismo, o dall’insieme dell’organismo, con tutte le sue capacità percettive, capacità di metabolizzare i contesti, che equivale all’insieme, che equivale, forse, al profondo. E noi quotidianamente perdiamo questa preziosità. Il sogno, l’ho detto, è il momento in cui sono artista, pittore, poeta, musicista, drammaturgo. Parliamo quotidianamente di anima scomparsa, dimenticata… via questa ricchezza. La logica del nostro lavoro, dunque il principio trainante da me dato al nostro incontro è di riallacciare il rapporto con il sogno. Come si dice in generale, il sogno è la vita.
È un buon augurio che i tuoi sogni siano realtà. Ma già raccontare il sogno, già ricordare il sogno e in più raccontarlo è un passo verso mettere il sogno in vista, cioè portarlo dalla privacy, dalla chiusura ermetica di dentro la mia testa, dentro il mio sistema nervoso, dentro il serbatoio segreto delle esperienze non comunicate, a fuori. Dunque già dirlo è un passo verso metterlo nel mondo. E forse già precedentemente ricordarlo, cioè portarlo dal sonno allo stato di veglia, almeno come traccia. A mio parere, quasi tutti i sistemi di lavoro sul sogno, i metodi di lavoro sul sogno, tutti di diverse impostazioni psicologiche, hanno questo scopo: integrare sogno e realtà.
Le associazioni libere del lettino psicoanalitico, sono tentativi di integrare, cioè, lo spazio dal sogno verso altri contenuti, provare anche connessioni improbabili, anche connessioni ignote. Connettere dunque integrare.
Noi abbiamo impiegato una tecnica semplice: «E questa è la mia esistenza» e chissà come il sogno ha assunto caratteristiche e qualità della mia esistenza e ha rivelato caratteristiche della mia esistenza.
Chissà che cosa vuol dire veramente. Comunque lo dico e sembra vero.
È semplicemente facendo questo che hai fatto tutte le scoperte, o riscoperte, ed eri, a mio parere forse sbaglio del tutto- più di un po’ emozionata, per certe di quelle scoperte. E tu non me lo dici.
Senza fare nessuna interpretazione. Adoperando solo le parole, un mezzo semplice, abbiamo allacciato un inizio di rapporto con il sogno, o tra sogno e realtà.
Ci sono molti altri modi di lavorare con i sogni, anche senza interpretare il sogno. E io ho detto qualcosa: per esempio, ho buttato dentro un padre che certamente è un’interpretazione, ma qui sono un pochino, forse, non è detto, sul terreno della Gestalt. Una volta la Gestalt era quello che faceva Fritz Perls. Adesso la Gestalt è quello che fanno diverse migliaia, forse decine di migliaia, non so, nel mondo, di gestaltisti. Fritz Perls insisteva sull’inammissibilità dell’interpretazione. Questo dopo quarant’anni come psicoanalista. Era stufo di interpretazioni.
Inoltre ci sono molti modi di fare interpretazioni. Basta accorgersi che se io chiedo che quella frase sia ripetuta è già un’interpretazione. Io sto, per implicazione, dicendo: quella frase ha importanza, quella frase vale la pena di enfatizzare. È già un intervento interpretativo. Le parole stesse «e questa è la mia esistenza» sono un’interpretazione del sogno.
Alla base sono partito da un principio interpretativo che il sogno è la tua vita, la tua libera emozione o che so, qualcosa del genere. Per me l’interpretazione allora… a parte che non è escludibile perché stiamo interpretando in continuazione… Volendo o nolendo, non siamo così morti da solo osservare, ma siamo abbastanza vivi a interpretare anche, cioè a osservare e fantasticare.
Se… abbiamo… si può parlare di diverse possibilità, qui si può parlare di dimensione più rigorosa, di dimensione più immaginativa, spontanea. Comunque, noi osserviamo e subito fantastichiamo al riguardo. Per me è legittimo interpretare, proprio perché è inevitabile, perché fa parte della nostra natura. Fritz Perls lo faceva anche e lui aveva ragione nel dare enfasi a qualche altra cosa.
È per correggere un atteggiamento sbilanciato o ossessivamente interpretativo che ha voluto richiamarci all’aspetto esperienziale. Oggi per me l’interpretazione è un intervento legittimo.
Abbiamo lavorato col tuo sogno senza grande apparato o attività interpretativa. Un qualcosa hai avuto. Potremmo andare avanti lavorando col tuo sogno, o possiamo cogliere e sentire altri sogni. Tu stessa come ti senti? Basta per adesso o vuoi che io continui?
S. Sono divisa.
B. Sei al bivio, certo.
S. Da una parte sono molto curiosa, quindi vorrei andare avanti. Dall’altra, invece, c’è l’altra che dice: «ma insomma, ce n’è già abbastanza». Perché già percepisco qui tante di quelle cose… Dai, andiamo avanti.
APPENDICE 2:
IL SOGNO DI NORA
Da: Fritz Perls (1969) trad. it. La terapia gestaltica parola per parola, Astrolabio, Roma, 1980 (pp. 105-109)
Nora: In questo sogno ero in una casa incompleta, e le scale non avevano ringhiera. Salgo su per queste scale e arrivo molto in alto, ma le scale non vanno da nessuna parte. So che nella realtà sarebbe spaventoso arrivare tanto in alto su delle scale del genere. Nel sogno è abbastanza spiacevole, ma non è poi così spaventoso, e mi chiedo sempre come faccio a sopportarlo.
Fritz: Benissimo. Fai la casa incompleta, e ripeti il sogno un’altra volta.
N Be’, salgo su per le scale e le scale dalle due parti non hanno ringhiera.
F. Io sono una casa incompleta, io non ho…
N. Sono in una casa incompleta, e salgo le scale…
F. Descriviti. Che genere di casa sei?
N. Be’, ha un …
F. “Io sono…”
N. Io sono la casa?
F. Sì, la casa sei tu.
N. E la casa è …
F. “Io sono…”
N. Io sono la casa, e sono incompleta.
E ho soltanto lo scheletro, le parti, e praticamente non ho nemmeno i pavimenti e i soffitti. Ma ci sono le scale. E mancano le ringhiere che dovrebbero proteggermi.
Però salgo lo stesso le scale, e …
F. No, no. Tu sei la casa. Non sali.
N. Però qualcuno sale sulle mie scale. E poi arrivo a un certo punto e sono in cima, e le scale… le scale non portano da nessuna parte, e …
F. Dillo a Nora. Sei la casa, e ti rivolgi a Nora.
N. Stai salendo sulle mie scale e non arrivi da nessuna parte. E potresti anche cadere. Di solito cadi.
F. Vedi? È proprio quello che sto facendo io; cerco di salire su di te… e non arrivo da nessuna parte. Ci è voluto un bel po’ prima che tu riuscissi a identificarti anche solo con la casa. Ora, come casa, dì la stessa cosa a qualcuno dei presenti.
“Se cerchi di salire su di me…”.
N. Se cerchi di salire su di me, cadrai.
F. Potresti dirmi qualcosa di più su quello che gli faresti, se cercassero di vivere dentro di te e via dicendo?… (Nora sospira).
Sei una casa in cui si può vivere comodamente?
N. No. Sono aperta, e senza protezione, e dentro di me tira un gran vento.
(La voce si affievolisce fino a diventare un sussurro).
E se mi sali sopra, cadi. E se cerchi di giudicarmi… crollo.
F. Cominci a sentire qualcosa? Che cosa provi?
N. Voglio litigare.
F. Dillo alla casa.
N. Voglio litigare con te. Di te non m’importa nulla. No, me ne importa, invece.
Non voglio che me ne importi. (Piangendo)… Non voglio piangere, e non voglio nemmeno te … Non voglio nemmeno che tu mi veda piangere.
(piange)… Mi fai paura… Non voglio che tu mi compatisca.
F. Dillo ancora.
N. Non voglio che tu mi compatisca. Sono abbastanza forte anche senza di te.
Non ho bisogno di te e … io, io vorrei non aver bisogno di te.
F. Bene, ora facciamo un dialogo tra le scale e la ringhiera inesistente “Ringhiera, dove sei? Dov’è che ci si può aggrappare?”
N. Ringhiera, posso vivere anche senza di te. Su di me si può salire lo stesso.
Però sarebbe bello se ci fossi.
Sarebbe più bello essere completa, avere qualcosa sopra il cemento, e avere delle belle ringhiere lucide.
F. Che genere di pavimenti hai?
N. Di cemento. Pavimenti di cemento, senza rivestimento…
F. Belli duri, eh? Con fondamenta solide.
N. Sì.
F. Potresti dire al gruppo che hai delle fondamenta solide?
N. Ci potete camminare sopra, e sono solide, e potreste viverci se non vi importa di stare un po’scomodi.
Su di me si può fare affidamento.
F. E allora di cos’hai bisogno per essere completa… ?
N. Non saprei. Io … non penso di aver bisogno di… ho solo ho solo la sensazione di volere di più.
F. Aha. Come potremmo fare per rendere questa casa un po’ più calda?
N. Be’ potremmo ricoprirla, chiuderla… metterci delle finestre: metterci pareti, tende, bei colori … dei bei colori caldi.
F. Benissimo, potresti fare la parte di tutti questi accessori, di tutto quello che manca, e rivolgerti alla casa incompleta: “Sono qui per completarti, per integrarti”.
N. Sono qui per completarti. Vai abbastanza bene così, ma potresti essere molto meglio, vivere dentro di te potrebbe essere molto più piacevole se tu avessi me – saresti più calda e più vivace e più comoda – potresti avere bei colori, magari delle tende e dei tappeti, qualche oggetto vivace e morbido, e magari potrebbe esserci anche un po’ di riscaldamento.
F. Cambia sedia. Fai la casa incompleta.
N. – Bè, siete tutti dei lussi. Dei lussi si può anche fare a meno…
E poi non so se potrei permettermi di avervi.
+ Bè, se pensi che ne possa valere la pena allora potresti… allora prova a metterci dentro di te.
Ti faremmo sentire più carina, staresti meglio.
– Bè, ma non è vero che in realtà siete tutte cose false?
Voglio dire, in effetti siete soltanto una copertura…
+ La struttura sei tu.
– Sì, la struttura sono io.
+ Bè, se tu pensi di riuscire a vivere anche senza di me, và pure avanti. Perché non lo fai?
F. Che sta facendo la mano sinistra? Te ne sei accorta?
Sì, fallo un’altra volta…
N. Be’…
F. No, era la mano sinistra.
N. Non è che ti sto spingendo via. Ti sto facendo il solletico…
F. Ahah… Adesso cambia sedia un’altra volta.
N. Ho proprio la sensazione di essere ostinata, insistente, e non penso proprio di aver davvero bisogno di te. Voglio dire, sarebbe bello se tu ci fossi –forse se tu ci fossi cercherei di ricordare com’era prima…
Voglio convincerti, e devo cercare un modo più efficace…
Tutti quanti potremmo vivere in case di cemento senza mura.
F. Che stai facendo con la mano sinistra? (Fritz si strofi na la faccia).
È questo quello che stai facendo, no?
N. Mi sto strofinando la faccia.
F. Fai parlare le dita con la faccia.
N. Ti sto strofinando… per richiamare la tua attenzione…
Chi sei?… Sto pensando, lasciami stare.
F. Stai pensando, e ti devono lasciar stare. Benissimo.
Nora, che impressione ti ha fatto lavorare con me, questo poco lavoro che abbiamo fatto? Sei rimasta terrorizzata
N. no.
F. Il messaggio esistenziale ti è arrivato?
N. Sì, eccome.
F. Qualcosa ti è arrivato, eh?
Lasciatemi dire qualcosa sul sogno in generale. Vedete, l’idea stessa di rimozione è un assurdo. Se guardate bene, c’è già tutto. Ora, la cosa più importante da capire è il concetto di proiezione. Ogni sogno, ogni storia, contiene già tutto il materiale che ci serve. La cosa difficile da capire è l’idea della frammentazione. Tutte le varie parti sono disperse qua e là. La persona che ha perso gli occhi, per esempio – che al posto degli occhi ha un buco, troverà sempre gli occhi nell’ambiente. Avrà continuamente l’impressione che il mondo la stia guardando.
Ora nel caso di Nora la sua proiezione è la casa incompleta. All’inizio non si vive come una casa incompleta. La casa è proiettata come se lei ci vivesse dentro. Ma la casa incompleta è lei stessa. Quel che le manca è il calore, il colore. Non appena diventa la casa ammette di avere fondamenta solide e via dicendo. Se riuscite proiettarvi completamente in ogni piccolo frammento del sogno, a diventare in tutto e per tutto l’oggetto in questione, allora cominciate a riassimilare, a riappropriarvi di quel che avete disconosciuto, che avete dato via. Più disconoscete, più vi impoverite. Ed ecco l’occasione di riprendervi quel che avete disconosciuto. La proiezione assume spesso l’aspetto di qualcosa di spiacevole, l’aspetto di un ragno, di un treno, o di una casa morta, di una casa incompleta. Ma se arrivate a capire, a dire: “Questo è il mio sogno. Ne sono responsabile. Sono stato io a dipingere questo quadro. Ogni parte è una parte di me”, allora le cose cominciano a marciare e a unificarsi, invece di essere incomplete e frammentate. E molto spesso la proiezione non è nemmeno visibile, ma è comunque ovvia. Se ho una scala senza ringhiera è ovvio che da qualche parte nel sogno la ringhiera c’è, però manca. Non c’è. E allora dove dovrebbe esserci una ringhiera c’è un buco. Dove dovrebbero esserci calore e colore c’è un buco. E a questo punto troviamo una persona con molto coraggio, magari ostinata, che riesce a riempire questi buchi. Bene.
(1) Anna Rotondo, psicoterapeuta, analista transazionale didatta. Lavora presso il Centro di psicologia e Analisi Transazionale di Milano e presso la cooperativa Terrenuove. (e-mail: anna.rotondo@centropsi.it) |