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I.S.A.P. - Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi
Freud politico
un dialogo postumo tra Lou Andreas Salomé e Sigmund Freud

René Major, Chantal Talagrand


L.AS Quando sono morta, nel 1937, Lei ha fatto il mio elogio in termini molto benevoli, scrivendo che considerava «come un onore» che io avessi preso posto tra i suoi collaboratori e compagni di lotta e che il mio passo costituiva «una nuova convalida del contenuto di verità della teoria psicoanalitica». Indubbiamente il mio sodalizio con Friedrich Nietzsche apportava al suo pensiero una cauzione filosofica che Lei non ricusava, mentre la mia iniziazione alla poesia a fianco di Rainer Maria Rilke mi rendeva particolarmente sensibile a tutto ciò che nella sua scoperta non si ipoteva ridurre né alla metafisica, né alla scienza. Ma al tempo stesso Lei sembrava dimenticare che gli ultimi venticinque anni della mia vita, profondamente cambiata dall’incontro con Lei, li ho dedicati a sostenere la Sua ricerca. L’onore era dunque mio!

S.F Ho anche scritto in quell’elogio – e non mi meraviglierei se Lei lo avesse dimenticato – che Lei «era una donna di rara modestia e discrezione» e che «non parlava mai delle sue proprie creazioni poetiche e letterarie». Ho aggiunto anche Lei «sapeva bene dove cercare i veri valori della vita» e che «chiunque la avvicinasse riceveva una impressione fortissima dell’autenticità e dell’armonia della sua natura» e si accorgeva «non senza stupore che tutte le debolezze femminili e forse la maggior parte delle debolezze umane Le erano estranee o erano state da Lei superate nel corso della sua esistenza».

L.AS Riconosco qui l’elogio che si sarebbe potuto fare di Lei, che ha scritto a Romain Rolland : «Ho passato veramente gran parte della mia vita a lavorare alla decostruzione delle illusioni mie e dell’intero genere umano». Sono lusingata nel vedermi attribuire da Lei le Sue proprie audacie.

S.F Lei sa che non ho mai rinunciato, negli elogi funebri che ho avuto occasione di scrivere, a dire esattamente quello che pensavo. Lei serba certamente memoria della mia lettera a Thomas Mann per il suo sessantesimo compleanno, nel 1935, nella quale mi sono preso la libertà di esprimergli, sotto la forma del sospetto, la nostra certezza che non avrebbe fatto o detto mai niente – le parole del poeta non sono forse atti? – che fosse vile o basso, e che, anche in tempi e situazioni che rendono incerto il giudizio, avrebbe seguito la via giusta e avrebbe saputo indicarla anche agli altri.

A. LS Lei non aveva dimenticato che il nostro Nobel per la letteratura prima di scrivere La montagna magica si era mostrato ardente ammiratore dell’imperialismo prussiano e che la guerra del 1914 si confondeva per lui con la difesa della cultura tedesca. Perciò Lei restava diffidente, benché dopo l’esilio in Svizzera lui avesse espresso chiaramente le sue inquietudini di fronte all’ascesa del nazismo e fosse diventato sensibile sia ai giudizi politici di Lei, sia alla portata politica delle scoperte di Lei.

S.F Sì, è solo in occasione del mio ottantesimo genetliaco, nel 1936, che lei avraà potuto riconoscere senza ambagi e senza ambiguità la capacità della psicoanalisi di svelare le motivazioni vere coperte dal pathos demagogico dei discorsi destinati alle folle per nutrire le loro illusioni.

L.AS Lei ha sempre dato prova di lucidità politica rifiutando di accettare le tesi nazionaliste nel 1914, quando erano sostenute da molti intellettuali, criticando non senza humour gli ideali rivoluzionari del bolscevismo o scrivendo a Jeanne Lampl-de-Groot il giorno stesso che Hitler fu nominato Cancelliere: «Siamo tutti inquieti di ciò che diventerà il programma del Cancelliere Hitler la cui sola mira politica sono i pogrom». Non si potrebbe dar torto a un celebre analista francese, Jacques Lacan, che ha potuto scrivere: «si ha proprio ragione di intestare la psicoanalisi alla politica e questo potrebbe non essere di tutto riposo per ciò che ha fatto fin qui figura di politica, se la psicoanalisi se ne mostrasse avvertita».

S.F La chiaroveggenza di cui deve dar prova la psicoanalisi nelle questioni politiche non è di tutto riposo. Le tesi che ho sostenuto in L’uomo Mosè e la religione monoteista, così come le mie reticenze a proposito del sionismo, mi hanno valso, Lei lo sa, le più gravi ingiurie. E se non mi sono mai dissociato dalla sorte del popolo ebreo, non ho mai provato un’ombra di simpatia per la pietà fuorviata che costruiva una religione nazionale a partire dal muro di Erode e sfidava i sentimenti degli abitanti di quel paese.

L.AS Lei presentiva senza dubbio gli interminabili conflitti che ne sarebbero conseguiti. Uno dei più grandi pensatori del giudaismo, Yeshayahou Leibowitz, responsabile della Grande Enciclopedia Ebraica e pertanto sionista certo più fervente di Lei, non cesserà di prendersela con quasi tutti i responsabili politici dello Stato di Israele, dopo la sua creazione, mettendoli in guardia al tempo stesso contro gli effetti nefasti del loro fervore nazionalista e contro il loro bisogno di dominio. E in effetti, nel 1968, ha dichiarato, all’indomani della Guerra dei sei giorni, che «questa vittoria è uno dei più grandi disastri della nostra storia. Abbandoniamo immediatamente, senza aspettare un giorno, questi territori che saranno causa della nostra rovina».

S.F Se Leibowitz tiene, per ragioni religiose, al carattere sacro della lingua ebraica che vede pervertita dall’esercizio del potere con i suoi accenti di conquista, da parte mia penso che la lingua ebraica dovrebbe potersi staccare dal suo ancoraggio teologico, anche se so bene che la marca del teologico persiste nella lingua delle società più secolarizzate. Lei si ricorderà che alla fine della prima parte del mio Mosè pervenivo alla conclusione, formulata schematicamente, aggiungendo due nuovi dualismi a quelli ben noti della storia ebraica: due fondazioni della religione, la prima delle quali, dopo essere stata rimossa dall’altra, risorge vittoriosa, tuttavia, più tardi, e due fondatori di religione che si chiamano tutti e due Mosè. Se il Mosè egiziano aveva dato a una parte del popolo un’altra rappresentazione di Dio, più ancorata nella Geistigkeit, nella vita dello spirito, ancorata a sua volta nella traccia della lettera simbolica, rappresentazione lontana dal fantasma del desiderio di dominio, resta tuttavia che un altro Mosè, il Mosè madianita, si riferisce a un dio Yavhé, rude e violento, che ha promesso ai suoi partigiani di dare loro il paese dove «colano il latte e il miele», incitandoli a sterminare «a fil di spada» quelli che, all’epoca, lo abitavano. Non si tratta per me di [prendere] una posizione religiosa, né antireligiosa, ma di analizzare e di decostruire l’una e l’altra, mostrando come è stato archiviato il rimosso e come si manifesta il suo ritorno nella storia.

L.S L’archivio non è dunque per Lei questione di passato. Le tracce dell’archivio allora possono essere sempre riattivate e in questo senso sono tanto una promessa quanto una minaccia. Si pone allora una grave questione: l’archivio psicoanalitico, i suoi modi di lettura e di interpretazione, la storia stessa del suo sviluppo e dei suoi concetti possono essere trattati secondo un metodo indipendente dalla logica che Lei mette in opera nel Mosè, e che è già presente nell’Interpretazione dei sogni. Questa logica dell’après coup, della ‘posteriorità’, secondo la quale il senso di un’esperienza e di un’impressione si vede differito nel tempo, in cui ciò che appare a scoppio ritardato deve ancora apparire dà o darà un altro senso a impronte lasciate in precedenza, non introduce a un altro concetto della storiografia, a un altro modo di scrivere la storia, compresa anche la sua storia? Compito ancora più difficile di quello che Lei lasciava intravedere ai suoi biografi e agli storici della psicoanalisi! Lei non ha parlato spesso della verità, ma in una lettera indirizzata ad Arnold Zweig – era il 31 maggio 1936, poco prima della mia morte, ha usato questa parola in rapporto alla biografia. Mentre si mostrava ironicamente turbato per il pericolo che il suo corrispondente, di cui ammirava il talento letterario, diventasse il suo biografo, Lei lo rassicurava dicendogli che lo amava troppo per permettergli una cosa simile, e che d’altronde lui aveva qualcosa di più importante da fare. E aggiungeva per convincerlo, che ogni biografo è portato a dissimulare, o abbellire o a colmare le lacune della sua comprensione, perché non si può possedere la verità biografica. Mi domando ancora che cosa Lei potesse voler dire con questa espressione: «la verità biografica». So bene che Lei ha introdotto nel Mosè una vertiginosa differenza tra «verità materiale» e «verità storica», su cui riposa l’intera questione dell’archivio, ma questa differenza presenta ancora per me un carattere enigmatico abissale.

S.F Finge di aver dimenticato o desidera che io ricordi quello che Le scrivevo nel 1935? Mi sembra che fosse di gennaio, precisamente mentre ero occupato a scrivere il Mosè, di cui del resto Le parlavo a lungo. Quella lettera mi sembra oggi precisare ciò che per alcuni è rimasto enigmatico. Vi dicevo a proposito delle religioni - ma lo si potrebbe dire altrettanto bene delle credenze e delle illusioni - che sono reminiscenze di processi arcaici altamente effettuali [effectifs] della storia, reminiscenze dell’umanità quanto dei singoli individui, che traggono la loro forza - dicevo - non dalla verità “reale” (reale), ma dalla verità “storica”. Questo vuol dire, per la biografia di Mosè, come per ogni biografia, che ciò che ne costituisce la trama non è una verità di cui si trovi la contropartita in una realtà empirica, ma una verità logica che si potrebbe chiamare quella del futuro anteriore.

A.LS Già nell’interpretazione dei suoi sogni Lei prendeva in considerazione questa logica del futuro anteriore. Nel sogno della bambinaia Nannie che Lei racconta a Fliess, le cui associazioni le riportano il ricordo di una scena di angoscia che ebbe luogo ventinove anni prima, una scena in cui suo fratello Philip apre una guardaroba, dove Lei pensa di trovare sua madre, si vede bene che vi si trovano embricati tre tipi di racconto: il racconto che riveste di parole le immagini del sogno, quello che articola i frammenti di un ricordo d’infanzia e il racconto di sua madre a proposito della bambinaia, che è esso stesso una ricostruzione del suo proprio ricordo. Nessuno dei racconti detiene più degli altri due lo statuto di verità materiale. La verità logica è costituita dalle differenze, nell’archiviazione della memoria, tra impressione e impronta delle tracce mnestiche. Quei tre racconti costituiscono la trama del sapere inconscio fatto di tracce sparse che il linguaggio raccoglie secondo la logica propria di quel sapere. Dopo che Lei ha introdotto il concetto di traccia e ha mostrato gli effetti differiti della sua iscrizione, tutta una logica della temporalità e dei riferimenti cronologici tradizionali ne è stata profondamente modificata, insieme con la nozione di archiviazione, di storiografia in generale e con il concetto stesso di archivio.

S.F Devo dire che la maggior parte dei miei biografi hanno fatto poco caso al cambiamento radicale che questa logica introduce nella storiografia. Non parliamo di Fritz Wittels che per primo, quando ero ancora in vita, si è misurato con questo genere. Ho dato al suo saggio la qualifica di “pamphlet biografico”, perché privilegiava nel modo più stretto il legame che può avere un pensiero con l’umore suscitato da un evento, come avviene d’abitudine nel caso di uno scritto polemico. Per quanto dolore abbia provato alla morte di mia figlia Sofia, non ho introdotto la pulsione di morte in Al di là del principio di piacere, come Zola ha scritto il J’accuse. Volendo stabilire un legame diretto tra l’evento doloroso e l’introduzione di un nuovo dualismo pulsionale, Wittels trascura tutto ciò che logicamente mi ci poteva condurre, dall’osservazione dei limiti imposti al principio di piacere, dalla ripetizione di scene traumatiche che si riproducono nei sogni e negl’incubi, fino all’esplorazione in Totem e Tabù dei più antichi atteggiamenti [attitudes] dell’uomo che si dedica a penosi riti di espiazione in seguito ad azioni di guerra omicide. Avevo recepito anche le tesi sull’istinto di morte che Sabina Spielrein aveva presentato a Vienna nel 1911.

L.AS Lei mi annunciava il suo contributo a questo problema in una lettera del 10 marzo 1919.

S.F Se la pulsione di morte permette di comprendere il fenomeno dello slegarsi [déliaison] nel corso del processo analitico, cioè della liberazione dell’energia prigioniera della coazione a ripetere, è perché la pulsione di morte può mettersi al servizio della vita. Essa permette anche di vedere quello che tiene in scacco la pulsione di potere, ciò che la mina dall’interno, quando la violenza e la crudeltà che essa può esercitare confiscano, per metterle al suo servizio, le pulsioni sessuali e le pulsioni di distruzione.

L.AS E che direbbe di quello che è stato considerato il Suo biografo ufficiale?

S.F Se parliamo di Jones, la sua è la storia di gran lunga più seria. Egli si è servito di numerosi documenti, che non erano stati ancora resi pubblici, di cui ha potuto prendere conoscenza e ha utilizzato i fatti di cui è stato testimone nel corso della nostra lunga frequentazione e della nostra voluminosa corrispondenza per stabilire una cronologia anno per anno, secondo il metodo tradizionale degli storici. Ma gli archivi non parlano da soli. I protocolli di lettura, i metodi di decifrazione variano da uno storico all’altro, tenendo conto anche dei pregiudizi e del modo in cui i fantasmi di ognuno entrano a colmare le lacune della ricostruzione. Jones avrà potuto abbellire la storia. Glielo si è spesso rimproverato, mentre si era al tempo stesso costretti a fare riferimento al suo lavoro. Ma il vero problema non è qui; risiede invece nello statuto che lui dà al ricordo. Prendiamo un esempio capitale poiché si tratta del passaggio dal metodo catartico alla psicoanalisi, di cui ho attribuito la paternità a Breuer. È capitale, perché ruota intorno alla scoperta del transfert. Io ne ho parlato parecchi anni dopo che era finito il trattamento di Anna O. da parte di Breuer in circostanze non chiare. Mi ricordo soprattutto che gli era manifestamente penoso che si evocasse questo apparente contrattempo. Dico “apparente” perché l’“amore di tranfert” della giovane, che Breuer avrà sperimentato come un fastidioso contrattempo, sarebbe diventato per la psicoanalisi un fortunato contrattempo, quando piuttosto che vederlo come una manifestazione che non avrebbe dovuto aver luogo, lo si fosse riconosciuto come un dato inerente al processo della rammemorazione.

L.AS Riconoscerlo implicava separarsi dal potere che il “terapeuta” poteva ancora concedersi nel lavoro catartico, vedendo in sé stesso la causa di questo “amore di tranfert”.

S.F Ho supposto che Breuer avesse dovuto scoprire numerosi indici che testimoniavano a favore della natura sessuale del transfert. Non me ne ha informato direttamente, ma diversi punti di riferimento che mi ha fornito mi permettono di fare a posteriori questa supposizione. Ne ho dovuto parlare a Jones, così come ne ho parlato molto più tardi a Maria Bonaparte. Ma a partire dal possibile fantasma transferenziale di gravidanza che ha potuto andare a un certo punto fino all’idea delirante, Jones avrà voluto stabilire la verità reale, empirica, di una gravidanza nervosa e di un falso parto (una pseudocyesis) immaginando che Breuer, sgomento, avrebbe abbandonato Vienna con sua moglie Mathilde per una seconda luna di miele a Venezia, dove sarebbe stata concepita la loro figlia Dora, che secondo lui – non capisco dove abbia potuto trovare questa notizia – si sarebbe suicidata venticinque anni più tardi a New York, mentre in realtà si è avvelenata a Vienna al momento di essere arrestata dalla Gestapo. Del resto non era stata concepita alla data che Jones indica, ma anteriormente, e quando parla di Venezia si tratta piuttosto di un viaggio che i Breuer hanno effettuato a Gmunden, che è assai meno romantico. Ricostruendo la storia con un tale fantasma di desiderio che vuol far combaciare gli eventi con i ricordi, così come sono ricostituiti, si suppone un lettore che prenda per verità storica - intendo adesso questa espressione nel senso che le danno gli storici – la storia leggendaria del periodo regio di Roma, secondo il racconto di Tito Livio.

L.AS Che cosa non si scriverà, temo, a partire dalle voci messe in giro, dopo la Sua morte, da Jung a proposito della relazione che Le attribuisce con Minna, della quale avrebbe ricevuto le confidenze il giorno stesso che le fu presentato. Può immaginare Lei sua cognata che si confida con uno sconosciuto, goy per di più, che avrebbe stigmatizzato l’inconscio ebraico per differenziarlo dall’inconscio ariano? Non oso pensare all’uso che certi veri-falsi [vrais-faux] storici della psicoanalisi non mancheranno di fare di questi pettegolezzi, dimenticando di considerare la personalità di colui che ne è autore e che a più riprese fu trovato in difetto quanto alla sua leggenda. Infilzato alla sua storia con una delle sue pazienti, Sabina Spielrein, Jung non vedeva certo di buon occhio il ruolo che quest’ultima Le aveva fatto rappresentare, come confidente e analista al tempo stesso.

S.F Questo non impedirà questi pseudo-storici che si chineranno sulla nostra affettuosa corrispondenza di proiettare dei rapporti amorosi tra noi, proprio loro che non possono nemmeno concepire un’amicizia vera tra un uomo e una donna! E questo basterà ai revisionisti americani o ad altri, che considerano il fantasma come il travestimento di una realtà vissuta, per accordare ai fantasmi di Jones lo statuto di verità empirica della storia e vedere da quel momento la scoperta del transfert come una “affabulazione”, e per prendere come denaro contante le calunnie che Jung avrà sparso. Si spingeranno- mi creda – fino a verificare i registri degli alberghi nei quali Minna ed io siamo scesi in occasione dei nostri soggiorni all’estero!

L.AS Insomma, per tornare a Jones, quello che fa come storico è paragonabile a quello che fa il medico che cerca di ristabilire lo stato in cui si trovava il paziente prima delle trasformazioni operate dalla malattia, fisica o psichica. Ora, trattando gli eventi della vita psichica Lei non ha mai smesso di mostrare, in tutti i suoi passi, che sono le differenti versioni del passato che interessano l’analisi e la logica inconscia che determina le loro combinazioni successive nel tempo. Quando Lei ha accordato un ruolo preponderante al fantasma in rapporto alla realtà - nella seduzione, per esempio – non smetteva tuttavia di pensare che i fantasmi trovano un punto di aggancio nella storia, a partire da ciò che è stato visto, inteso o provato. Lei ha acquisito assai presto la convinzione che non esiste per l’inconscio nessun “indice di realtà”, perché non c’è un criterio che permetta di distinguere il fantasma dalla realtà. Se i fantasmi si formano per frammentazione dei ricordi, sono indipendenti dalla cronologia in senso volgare. Questa scoperta è stata fatta nel corso dei Suoi scambi con Fliess, in un rapporto che Lei ha potuto qualificare successivamente [après coup] come transferenziale in senso analitico. Ma Lei non ha potuto riconoscerlo come tale e dirlo che a cose fatte [après coup].

S.F Ci sono anche storici che ribaltano il tempo secondo su un tempo primo. Ciò che è stato riconosciuto in un secondo tempo [après coup], è riferito come se fosse stato percepito di primo acchito. In questo modo ciò che dipende da una ricostituzione della memoria attraverso documenti diversi di epoche differenti, la raccolta di testimonianze costituite anch’esse di ricordi che hanno subito spostamenti, trasformazioni, sostituzioni, va a costituire un racconto che è messo avanti come <quello del>la verità reale del passato. Quel racconto diventa a sua volta parte costitutiva dell’archivio psicoanalitico e, nel caso che evocavamo a proposito di Anna O. e della natura sessuale del transfert, porta l’impronta della sua teoria sessuale. Questo equivale a dire, di passaggio, quanto la concettualità psicoanalitica sia indissociabile dalla biografia, dunque dal nome proprio, benché tenti di acquisire indipendentemente da quest’ultimo la sua consistenza. Questo mi ha fatto dire - ma su questo punto raramente sono stato capito - che la mia vita non aveva interesse che in rapporto alla psicoanalisi. Ma ritorniamo all’archivio a cui attinge il biografo. Trattandosi della voluminosa biografia scritta da Jones, l’archiviazione a cui si riferisce e l’archivio, che essa stessa costituisce a sua volta, pongono il suo autore – in uno statuto di priorità – in posizione originaria di arconte, di guardiano e, in posizione di autorità, alla testa delle sequenze storiche. Un tale archivio esercita dunque una violenza che tende a cancellare le tracce delle condizioni dell’archiviazione. Questa violenza, questa provocazione silenziosa come capitalizzazione della memoria in un luogo esterno, maschera i difetti [failles] di una rammemorazione rigorosa, garantendo al tempo stesso la possibilità di ripetizione e di riproduzione, e addirittura la coazione a ripetere. Il solo archivio, come tale, lavora dunque in parte contro di sé. Non soltanto l’archiviazione rimuove il non archiviato, ma comporta in sé il principio della propria rimozione.

L.AS Si capisce che Lei abbia concepito l’inconscio come un luogo d’iscrizione di ogni ordine, delle lettere, delle cifre, dei geroglifici, degli archivi in disordine insomma, a partire dai quali il linguaggio costruisce dei racconti che comportano volta a volta reiezioni [rejets], smentite, sconfessioni e rimozioni. Per esempio la costruzione delirante di Norbert Hanold nella Gradiva di Jensen, tentando di far coincidere un’impressione recente da lui ignorata con l’impronta lasciata dal passo di una giovane donna in un passato lontano, trae il suo rigore da quel punto di ancoraggio nella storia archeologica di Pompei talché la sua archiviazione nella memoria ne fa ricoprire le tracce secondo le modalità di un desiderio attuale alla ricerca del suo adempimento. Se l’impressione crea l’evento tanto quanto lo archivia, il modello del bloc-notes magico per descrivere il funzionamento della memoria mette in scena dei luoghi differenti tra la permanenza dell’iscrizione e l’effimera spontaneità della memoria. Neanche l’archivio interno all’apparato psichico si confonde con la memoria o l’anamnesi nella loro esperienza spontanea e vivente. Nel descrivere un archivio psichico distinto dalla memoria immediata, pur garantendo a quest’ultima la possibilità di memorizzazione, Lei installava una protesi dal di dentro. Quali che siano i dispositivi di archiviazione più sofisticati, che esistono oggi, e le protesi di memoria cosiddetta viva, non aboliscono lo scarto irriducibile tra l’archivio e la memoria in quanto tali. E le protesi di fuori conoscono anche il loro male del di dentro.

S.F Quello che Lei evoca a proposito dell’archivio e della memoria, che il fuori ha un dentro come il dentro ha un fuori – e bisognerebbe aggiungere che “fuori” e “dentro” non sono in una opposizione semplice, ma in un processo costante di alterazione reciproca – è uno dei fili del pensiero psicoanalitico. D’altronde un mio celebre erede lo illustrerà con la banda di Möbius. Mostrando nell’analisi dei sogni come ciò che pareva irrazionale aveva la sua razionalità propria, lasciavamo intravedere come la ragione stessa è abitata da ciò che pretende di relegare all’esterno, cioè dalla sua follia. Ho dovuto io stesso pagare il prezzo lasciando vedere nei miei sogni dei pensieri incestuosi e dei voti di morte – non raccomando a nessuno una simile sincerità – ma dovevo riconoscere in me quello che scoprivo negli altri tanto nei migliori romanzieri contemporanei, quanto nelle tragedie di Sofocle o di Shakespeare. Non potevo rilanciare la mia propria analisi che per mezzo di conoscenze obbiettivamente acquisite. Dovevo affrontare una costante messa in tensione dell’elaborazione teorica e dell’implicazione soggettiva. E mi sono sforzato di prelevare solo nella lingua corrente le parole che potevano diventare concetti, per lasciare ai concetti la possibilità di essere facilmente ripresi dal linguaggio dell’inconscio.

L.AS Quello che mi ha ripetutamente stupito prendendo conoscenza delle Sue lettere a Fliess o della Sua corrispondenza con Martha – tutte cose che ignoravo quando eravamo in vita – è precisamente questo: tutto quello che, scoprendolo in sé, Le poteva apparire estraneo o singolare, Lei arrivava rapidamente a pensarlo come un dato universalmente costitutivo della psiche. Non direi: come se non ne provasse vergogna né senso di colpa, poiché appena provate la vergogna e la colpa entravano a far parte dell’universale. Lei varcava agevolmente le tradizionali frontiere stabilite tra il normale e il patologico, così come abbatteva le barriere tra l’individuale e il collettivo. Impresa che non era di tutto riposo, se si pensa ai fenomeni di gruppo o anche di massa, come quelli che abbiamo conosciuto. Ho fatto la Sua conoscenza poco prima che scoppiasse la Grande guerra. Eravamo tutti e due disperati per la piega che stava prendendo il corso del mondo. Mi sembrava, Le scrivevo, che non avremmo potuto mai più essere felici. Lei mi rispondeva che non avremmo più visto il mondo sotto la stessa luce di prima, ma che l’umanità si sarebbe certamente ripresa.

S.F Pensavo che la conoscenza dell’anima umana che avevamo acquisita ci permetteva già di intravedere che gl’impulsi [les impulsions] primitivi e selvaggi dell’uomo non sono mai aboliti in ciascuno di noi, ma restano attivi, ancorché rimossi nell’inconscio, in attesa di occasioni per manifestarsi ancora. Se quel tempo di guerra ci ha permesso di osservare le crudeltà e le ingiustizie di cui si rendono responsabili le più civili tra le nazioni, si comprende che ciò che la psicoanalisi ne ha potuto dire, non ha contribuito certo alla sua popolarità. Quando gli uomini sono invitati a fare la guerra, loro vi rispondono favorevolmente per motivi ben diversi da quelli che sono messi in primo piano,. Il piacere che si tira dall’esercizio della crudeltà e dalla distruzione è determinante, e l’amalgama di queste tendenze con altre, erotiche e ideologiche, facilita la loro soddisfazione.

L.AS Quel che Lei mette avanti, della partecipazione della sessualità – nelle sue più crudeli modalità di esercizio – ai motivi della guerra, e che si sono immancabilmente rivelati come tali in seguito [après coup], fu precisamente ciò che era così fortemente negato e quindi riconosciuto nel modo della negazione , quando furono bruciati i Suoi libri a Berlino nella notte del 10 maggio 1933, proclamando che veniva fatto in nome della nobiltà dell’animo umano e contro l’esagerazione, la Sua esagerazione della vita istintuale che disgrega lo spirito. Commentando quell’autodafé Lei ha avuto l’humour di dire che in altri tempi non i suoi libri ma Lei stesso sarebbe stato bruciato. Che progresso! Ma in una nota preliminare al Suo Mosè Lei annunciava, nel 1938, il regresso a una «barbarie quasi preistorica» che stava per coprire l’Europa di sangue, fuoco e cenere.

S.F Le mie sorelle saranno vittime di tanta abiezione. Se, nel 1933, a Berlino si qualificava meno la psicoanalisi di scienza ebraica, di quanto non si associasse il mio nome alla liberazione dei bassi istinti dell’uomo, - confondendo il riconoscimento del fantasma (nella libertà di pensiero) con la sua messa in atto – era in effetti già ammettere, sconfessandola, la crudeltà più primitiva alla quale ci si apprestava a dare libero corso, il libero corso più infame. Per il comunismo, che ha potuto qualificare la psicoanalisi come «scienza borghese», era più che altro «la cosa sessuale». I borghesi di Vienna non mi salutavano più per strada quando nel 1905 ho pubblicato i Tre saggi sulla teoria sessuale. Erano Krafft-Ebing e Havelock Ellis a raccogliere i loro favori. Quegli autori mantenevano una frontiera tra le condotte normali e quelle considerate come patologiche. Non vedevano la presenza della sessualità fin dalla prima età, né la sua essenza propriamente erratica, la mancanza di un orientamento prestabilito, di una via segnata in anticipo. È proprio questo, io credo, che il bolscevismo ha capito subito e di cui ha pensato di poter fare un uso precoce, fin dagli anni di scuola: mettere la forza della libido infantile al servizio della Nazione, perché i bambini fossero meno figli di famiglia sottomessi all’autorità di un padre, che figli di una più vasta comunità, dipendente dall’autorità dello Stato. Quanto alla Chiesa, ha potuto fare della psicoanalisi una scienza atea, in ragione della minaccia che essa rappresenta, in quanto non lascia la sessualità al servizio della procreazione, ma la pone sotto l’egida del principio di piacere.

L.AS A questo riguardo, sia l’ideologia che la religione si arrogano il potere di mettere la sessualità di ciascuno al servizio degli scopi che perseguono. Ma qualcosa di non meno storto, e forse anche di più, vediamo oggi, perfino nei paesi che possono sembrare meno succubi di un’ideologia o di una religione, parallelamente all’esibizione della sessualità nelle sue forme più degradate o traumatiche, nella repressione dei sintomi prodotti dalla sessualità – che abbiamo conosciuto e largamente descritto – con tutti i mezzi possibili di condizionamento o di riduzione farmacologica. E questo avviene prendendosela fin con le manifestazioni più precoci del bambino. Lei aveva visto insorgere questa resistenza enorme alla scoperta o alla rivelazione più scandalosa della psicoanalisi, quella della sessualità infantile, mettendo in guardia contro una nuova ideologia, quella dell’efficacia, che , accompagnata dal proverbiale «time is money», in seguito non ha fatto che allargare il suo dominio. I poteri pubblici hanno tutto l’interesse ad addossarle la loro politica per controllare la turbolenza e la ribellione in statu nascendi. L’alleanza del furor sanandi e del furor prohibendi con la propensione dello Stato a mettere sotto tutela, ha avuto successo dopo le Sue conferenze su questo tema al Consiglio superiore della Salute della città di Vienna che braccava la ciarlataneria perfino tra i ranghi dei suoi collaboratori. Lei ha avuto l’audacia di dire loro che i medici fornivano all’analisi il più grosso contingente di ciarlatani, e che un diploma di Stato non offriva nessuna garanzia per la pratica della psicoanalisi. Ma la domanda più imbarazzante non si è con ciò estinta: ha la psicoanalisi il diritto, come l’inconscio nella vita psichica, di occupare un posto così inqualificabile all’occhio della buona coscienza? Al ritmo a cui marcia l’ideologia pragmatica e securitaria attraverso il mondo, quelli che si preoccupano di andare fino alla radice dei sintomi del malessere, perché ciascuno acquisti più indipendenza e libertà, faranno sempre più la figura di “illuminati”, che i poteri pubblici hanno il compito di inquadrare e di mettere chiaramente o discretamente al passo.

S.F La libertà cui Lei fa allusione non è semplice perché, in ultima analisi, si trova in una certa sottomissione della vita pulsionale a una dittatura della ragione.

L.AS La libertà che Lei stesso ha acquistato o per meglio dire conquistato per sé e per gli altri sarà stata strappata al potere medico che ha sempre conferito al medico il sapere e al paziente l’ignoranza. Lei ha operato un rovesciamento radicale riconoscendo al paziente un sapere inconscio concernente quello che gli accade e all’analista un a priori di non sapere. Tale conquista non è avvenuta d’un tratto, ma attraverso una serie d’imprevisti, di sorprese, di contrattempi. E questo è un altro filo della storia.

S.F Lei si ricorda quanto io sia rimasto impressionato dal professor Charcot, del quale ho avuto la fortuna di seguire le presentazioni a La Salpêtrière. Le sue conferenze erano un capolavoro di costruzione e di composizione e soprattutto non era mai così grande come quando manifestava francamente i suoi dubbi e le sue esitazioni. Riduceva così il fossato tra il maestro e l’allievo. Ciò mi è servito sicuramente di lezione. Ma se Charcot si situava nella linea di Pinel, che aveva liberato gli alienati dalle loro catene, si fece strada in me, traducendo le sue Lezioni, l’idea che allo stesso modo bisognava liberare l’isterica dal suo assoggettamento all’ipnosi. Perché se l’isterica era sommersa da un affetto, di cui la sua coscienza sembrava ignorare la causa, ci doveva pur essere un processo psichico in grado di renderne conto. C’era in germe l’ipotesi di un sapere inconscio e quel sapere era legato alla «cosa sessuale», di cui Charcot a giusto titolo faceva gran caso. Ma per pervenire a quel sapere, insaputo [insu] dal soggetto, bisognava privare l’isterica della messa in scena del significato inconscio del sintomo, con un gesto che privava al tempo stesso il medico dell’esercizio di un certo suo potere. E tuttavia, volendo liberarmi di Meynert e della sua concezione puramente neurologica dei disturbi del linguaggio, mi dovetti accorgere che l’apparato linguistico al quale si riferiva Charcot privilegiava la rappresentazione visiva della parola. Ma è piuttosto mettendo l’immagine acustica della parola – che sarà chiamata più tardi “significante” – in posizione di relais privilegiato della cosa inconscia, che il fantasma soggiacente al sintomo si metteva spontaneamente in evidenza. Era già anticipare la situazione analitica che favorirà l’ascolto di tutto ciò di cui il linguaggio è portatore per poco che sfugga alla vigilanza della coscienza. Ma ci sarà voluto ancora che una mia paziente mi ingiungesse di lasciarle dire liberamente le cose che le venivano in mente, senza farsi guidare, perché il metodo della libera associazione divenisse, come per l’interpretazione dei sogni, la regola fondamentale dell’analisi.

L.AS Quello che Lei dice presuppone una vigilanza diversa, un’attenzione portata all’inatteso, a ciò che sopravviene e che potrebbe anche contrariare la sua attesa o sfuggire al suo calcolo. I contrattempi oltrepassano le convenzioni sociali e la storia dei codici, delle convenzioni e dei simulacri. Per un’altra misura del tempo o un’altra misura del luogo il contrattempo arriva a tempo. Giusto in tempo. O, come Lei dice, nell’anticipazione dell’après coup, della ‘posteriorità’. Mai nella concordanza dei tempi.

S.F Lei mi fa ricordare la storia della cocaina. Dopo la disavventura con il mio amico Fleischl per tentare, con l’aiuto di quel nuovo alcaloide, di guarire la sua intossicazione da morfina, ero sul punto di scoprire le sue proprietà anestetiche per la chirurgia dell’occhio. Scoperta che avrebbe dovuto darmi quella celebrità, che toccherà invece a Carl Koller. Lo avevo messo su quella pista prima che facesse gli esperimenti decisivi che avrei sicuramente fatto, se non mi fossi assentato dal laboratorio per andare a vedere Martha ad Amburgo. Fu un felice contrattempo, che avrebbe distolto l’attenzione che stavo portando a quegli ospiti, presenze estranee in noi, che parassitano la nostra coscienza.

L.AS Lei vuol parlare di quegli impulsi e di quelle passioni che ci dirigono assai più di quanto noi non pensiamo o crediamo di padroneggiarli. Se Lei si fosse occupato solo di neuroni avrebbe certamente ottenuto il premio Nobel, e non avrebbe inflitto all’uomo quella terribile ferita di amor proprio, contro cui non cesserà mai di insorgere. Ma ci sono certo molti altri episodi, legati alla scoperta delle forze inconsce che si sono prodotti per caso. È vero che Lei ha sostenuto che nella vita psichica nulla avviene per caso e ha spiegato a lungo, nell’analisi della Sua fobia dei viaggi, come per Lei Roma restasse una «terra promessa», che, come Annibale o lo stesso Mosè, poteva temere di raggiungere. Quando infine, accompagnato da Suo fratello Alexander, Lei è riuscito a vincere la Sua resistenza, è curioso che vi siate ritrovati, appena arrivati a Roma, nella chiesa di San Pietro in Vincoli. Aveva idea che ci fosse il Mosè di Michelangelo?

S.F Fu assolutamente per sbaglio, come ho scritto a Martha, che ci siamo trovati davanti all’imponente statua di Mosè e all’enigma che essa costituisce e che ha suscitato tante interpretazioni contraddittorie. Quante volte mi sono chinato sull’opera di Michelangelo, dopo aver letto tutti i commenti sull’espressione del viso di Mosè, e ne ho esaminato tutti i dettagli prima di arrivare alla conclusione che vi si trovano rappresentati due Mosè: l’uno irascibile e soggetto ai trasporti della passione, che spezza le Tavole della Legge; l’altro, per il quale la sola minaccia dello sguardo fulminante ha lo stesso effetto che se avesse realmente infranto le Tavole.

L.AS Lo sdoppiamento della figura storica di Mosè, che Lei vede nell’opera di Michelangelo, anticipava il ruolo dei due Mosè, di cui poi Lei parlerà nella sua ultima opera così controversa ed oggi purtuttavia così illuminante. Sostenendo d’altra parte che la virtualità dell’atto, nella seconda figura del Mosè che Lei mette in valore, equivaleva alla sua effettuazione per l’inconscio del suo popolo, Lei ha reso vana la disputa intorno alla realtà dell’omicidio di Mosè, perché la semplice intenzione, così com’è attestata, avrà lasciato le stesse tracce della sua realizzazione nella memoria del popolo. Interrogandosi sulle ragioni per le quali il popolo ebraico da lungo tempo si attira tanto odio, Lei ricorda che i Greci reagivano già alla particolarità ebraica nello stesso modo dei paesi di accoglienza oggi, come se credessero al primato che il popolo d’Israele rivendicava per sé e osa affermare – usa Lei stesso questa espressione – che la pretesa di questo popolo ad essere il primogenito e il favorito di Dio Padre alimenta la gelosia degli altri, come se dessero credito a una simile pretesa. Da quel momento Lei si è adoperato perché quella credenza o illusione, anche se rafforzava il sentimento di amor proprio, fosse abbandonata, pur riconoscendo che il Mosè egiziano – non il Mosè medianita –, ridando vita alla religione di Akhenaton, incarnava la figura del ricordo, della memoria, della traccia della Lettera simbolica e, a questo titolo, incitava a fare progressi nella vita dello spirito abbandonando ogni fantasia di desiderio di dominio. Nulla permetteva tuttavia di pensare che quel dilemma sarebbe stato deciso una volta per tutte. Mi ha colpito, nella Sua prefazione all’edizione ebraica di Totem e tabù, scritta poco prima del suo Mosè, un argomento che gira intorno alla lingua. Prendendo le distanze dagli ideali nazionalisti della religione dei padri, come di ogni religione – senza rinnegare per questo né la Sua ebraicità, né il Suo popolo – Lei parla della lingua ebraica come di una lingua viva togliendole ogni carattere sacro. Cosa che è valsa a rimandare di parecchi anni la pubblicazione della Sua opera a Gerusalemme. Ora, negli stessi anni che precedono l’avvento al potere del nazionalsocialismo, una violenta disputa scoppia tra Gershom Scholem e Franz Rosenzweig, che porterà alla rottura tra loro. Quella disputa verte appunto sulla lingua. Il cuore del dilemma per il popolo ebreo riposerebbe, per Scholem, su quella che lui chiama «la catastrofe della lingua», il male della lingua, la sua violenza e la sua follia, la sua illusione o la sua ostinazione. Mentre Rosenzweig pensa che il popolo ebreo possa appropriarsi senza timore della lingua dei suoi ospiti, perché non si identifica con la lingua che parla, e che può dunque staccare la lingua ebraica da qualsiasi condizione politica o nazionale, mantenerla svincolata da ogni Stato-nazione e riservarla alla preghiera, Scholem da parte sua crede che l’ebraico possa passare da lingua sacra a linguaggio quotidiano, e da sionista convinto – convinto per una ragione di lingua – si attende il rinnovamento del giudaismo dalla sua rinascita in una patria linguistica, lo Stato d’Israele, anche se la potenza religiosa della lingua ebraica rischia di ritorcersi violentemente contro quelli che la parlano. Qualche anno più tardi Scholem avrebbe manifestato la sua preoccupazione per il messianismo sionista che, secolarizzando la lingua sacra, portava alle più pericolose conseguenze nazionali e politiche. Egli avrebbe attribuito la causa del male ai detentori del potere in Israele, falsari del sionismo, che non capivano niente dell’essenza del linguaggio. Lei aveva detto in anticipo che l’esercizio del potere li avrebbe resi ciechi al messaggio del Mosè egizio, che voleva ancorare il suo popolo nella vita dello spirito e dargli come scopo supremo una vita di verità e di giustizia. In definitiva Lei è rimasto più fedele al Mosè egizio.

S.F Fedele in questo senso, d’accordo. Ma infedele in un altro. Non credo in alcuna elezione divina. Poiché Lei parla di giustizia, dico che ci sono due modi di concepirla o di farla. Se si crede di opporre il diritto alla violenza, ci si accorge ben presto che il diritto stesso è violenza, che si è sviluppato a partire dalla violenza, e si mantiene attraverso di essa. Di fronte alla violenza del diritto, c’è un diritto alla violenza, un diritto della violenza, di fronte all’ingiustizia, a interrompere la manifestazione di un tale stato del diritto, perché si accordi meglio con la giustizia, come scrivevo ad Einstein. La violenza che il diritto esercita lo minaccia dunque tanto dall’interno che dall’esterno, perché non può pensare sé stesso se non a partire da ciò che ha tentato di escludere. La “giustizia”, alla quale Lei faceva allusione, concerne, io penso, quella che è fatta all’altro in considerazione della sua singolarità, come quella che io posso attendermi. Ma si è potuta concepire attraverso le epoche – non ne mancano gli esempi – una “giustizia totale”, che si dovrebbe rendere a un popolo in ragione delle umiliazioni che ha subito nella storia. La restaurazione del suo amor proprio ha bisogno in questo caso di passare per l’invenzione di un mito, di una potenza superiore, in nome dei quali, si esercitano una violenza e una crudeltà che possono spingersi fino ad abolire i diritti preesistenti per instaurare un nuovo ordine che ha i caratteri dello stato di eccezione.

L.AS Tra le due guerre, di fronte alla violenza crescente che accompagnava la crisi del potere e l’impasse nella quale si trovava la democrazia parlamentare in Germania, nel mio paese, molti pensatori ebrei tedeschi e tedeschi non ebrei, hanno tentato di comprendere il crescere di una tale violenza. Walter Benjamin stabiliva così un’opposizione tra una giusta violenza divina, da cui trae la sua autorità Mosè, e una violenza mitica, di tradizione greca, che si autorizza da sé a instaurare un ordine nuovo.

S.F Quello che il mondo avrà conosciuto, dopo che l’abbiamo lasciato, della logica di questa violenza mitologica spinta all’estremo, che tenta di distruggere il testimone di un altro ordine, non ha potuto essere immaginato e programmato solo all’interno del suo sistema. Essa può essere pensata solo a partire da ciò che ha tentato di escludere, di sradicare: ciò che la assillava dal di fuori e dal di dentro, una “giustizia totale” che si arroghi la violenza divina. Avevo già osato scrivere, nel L’avvenire di un’illusione, che ogni popolo che pretende di rappresentare una giustizia che decide del Bene e del Male radicale ritorna agli inizi storici dell’idea di Dio. E aggiungevo – cosa che non mi è stata perdonata – che la pia America era l’ultima in ordine di tempo, per quello che mi era stato dato di sapere, ad avanzare la pretesa di essere la Patria propria di Dio (God’s own Country). Da un popolo eletto all’altro, se così si può dire. Certi vi potranno vedere, in seno a ciò che si chiama oggi “globalizzazione”, quello che costituisce e minaccia le egemonie e le alleanze.

L.AS Nell’analisi che Lei fa, con Bullitt, del presidente Wilson, di cui si tende a ricordare solo il ritratto psicologico che Lei ne delinea, si vede levarsi, con l’impegno bellico degli Stati Uniti, lo spettro della globalizzazione del mercato. La parte nascosta di quello spettro, che s’iscrive nell’orizzonte della morte di Dio, si alimenta della promessa di una nuova redenzione. Wilson non diceva forse, con accenti che sarebbero tornati oggi familiari, che «per divina Provvidenza, si leva oggi in America una luce nuova che proietta i raggi della libertà e della giustizia in lontananza, su tutti i mari, e anche sulle terre che ristagnano nelle tenebre e rifiutano di vederla»? La ua ostinazione a voler divenire ad ogni costo il Padre delle Nazioni, lo farà cedere ciecamente alle ambizioni dei vincitori per concedere una pace ingiusta che pareva dettata solo dall’odio e che in avvenire avrebbe spinto i popoli a numerose guerre. Il messianismo americano, che è durato fino ai nostri giorni, non sembra conoscere limiti, salvo quelli che gli impongono le avversità che può incontrare sotto forma di resistenze diverse, violente o non violente, provenienti sia da ciò che lo mina all’interno, sia dall’esterno che si arma contro di lui. Nella Sua corrispondenza con Einstein si proponeva, da parte di entrambi, una limitazione della sovranità, alla quale gli Stati avrebbero dovuto consentire in vista di una pace durevole. Lei riconosceva che ci sarebbe voluta un’organizzazione sovrastatale, che fosse stata in grado di conferire alla sua giurisdizione un’autorità incontestabile e i mezzi per applicare le sue decisioni. Il mondo attuale ne è ancora ben lontano.

S.F Traversando le esperienze successive che mi hanno condotto dall’ipnosi alla suggestione, dall’imposizione delle mani alla libera associazione, e alla scoperta del transfert che mi faceva occupare una posizione terza, di una dritte Person nella relazione con il paziente, mi accorgevo che ciascuna di queste tappe si accompagnava ad una limitazione del potere che potevo o che mi si poteva concedere, e che questa restrizione all’esercizio così pulsionale del potere favoriva nel paziente l’acquisizione di una maggiore indipendenza e libertà. Penso anzi che la reticenza di alcuni tra i primi adepti della psicoanalisi a riconoscere la natura sessuale della libido, il suo ruolo inconscio e la sua partecipazione al transfert, atteneva alle restrizioni imposte all’esercizio di un potere che essi credevano, al contrario, di veder accrescere con l’analisi e poter mettere al servizio dell’ideologia dell’efficacia. Si rifugiarono dunque in una reinterpretazione dei fatti analitici in termini astratti, impersonali e astorici. A questa pulsione di potere, di dominio o di sovranità, nella corrispondenza con Einstein, ho chiesto di rendere conto, nella sua radicalità, di una crudeltà originaria, inestirpabile, capace di mettere al suo servizio le pulsioni sessuali e di amalgamarle con il perseguimento di fini ideologici. È questo che, in tempi di guerra, induce gli uomini ai più crudeli atti di barbarie.

L.AS Se Lei pone la crudeltà come qualcosa di irriducibile nella vita psichica e la pensa analiticamente, al di fuori di quello che ne è stato fatto fin qui teologicamente e politicamente, Lei impegna la psicoanalisi in una critica dell’uso che ne hanno fatto e ne fanno ancora i poteri religiosi o i poteri politici. Per poco che questi poteri vi badino, è proprio il diritto alla psicoanalisi, tra tutti i diritti dell’uomo, a finire nel loro obiettivo. Quando si sa ciò che, negli Stati apparentemente più democratici, i poteri statali hanno conservato delle crudeltà della Storia, anche delle più recenti, non ci si meraviglia che di fronte alle mutazioni tecniche impressionanti dei tempi che corrono, da cui si possono sentire minacciati, la loro crudeltà si interessi all’uso di quelle tecniche per moltiplicare i dispositivi polizieschi di controllo e di sorveglianza. Lei ha messo in guardia i suoi successori, ingiungendo loro di non permettere che la psicoanalisi facesse atto di obbedienza a nessuna autorità, quale che fosse, anche e soprattutto se quell’autorità ha la pretesa di legittimarla o addirittura di proteggerne gli interessi, perché, come Lei ha espressamente notato, si tratterebbe soltanto di un tentativo di appropriazione mirante a distruggere l’oggetto che si appropria, o a conservarlo nella sua forma meno destabilizzante, più accettabile per le istanze statali. Mi domando incidentalmente se Lei, che ha sempre talmente anticipato le successioni della Storia, aveva previsto ciò che stava per succedere ai Suoi figli – quelli che mutuano la loro autorità dal Suo nome proprio – nei loro rapporti futuri con lo Stato.

S.F Ponendo la questione del nome proprio, su cui mi sono soffermato in Totem e tabù, Lei abborda quella dell’identità e in questo caso, poiché sta parlando dei nostri eredi, dell’identità dello psicoanalista. La nostra legittimità si staglia sempre su un fondo di illegittimità. E sarà sempre contestata. Sarebbe più dannoso per la psicoanalisi ottenere un maggiore riconoscimento dai poteri pubblici, che essere lasciata al suo destino. Essa presenta una situazione inedita nella storia del pensiero, rispetto alla quale tutte le qualifiche accademiche restano inadeguate. Lei sa che ho formulato, per la formazione degli psicoanalisti, le più alte esigenze, che comprendono la conoscenza sia delle scienze dello spirito sia di quelle della natura. Quindi una vasta cultura. Ma per quanto vaste siano le conoscenze dello psicoanalista, esse devono accompagnarsi a un’arte molto particolare che implica il costante riconoscimento delle proprie resistenze all’inconscio, nell’ascolto delle manifestazioni dell’inconscio dell’altro, sempre singolari e inattese. Se quest’arte ha il suo rigore e la sua logica propria, non ha niente di paragonabile a ciò che è misurabile o facilmente oggettivabile in altri campi. Ho rivendicato alla psicoanalisi il diritto di non essere assoggettata a un altro sapere costituito. Né, d’altra parte, a una religione o a una ideologia o a un potere dello Stato. Io vedo, ahimé, che oggi in molti paesi la pratica della psicoanalisi è abbassata, sotto la copertura dei poteri pubblici, al rango di tante altre pratiche che si sarebbero potute credere caduche.

L.AS Lei ha anticipato il ritorno di ciò che la psicoanalisi avrà rimosso dietro certe frontiere della storia o, piuttosto, di ciò che la sua rivoluzione [révolution] aveva superato [révolu].

S.F Le lodi che Lei fa delle mie capacità di previsione questa volta mi trovano in difetto. Ho detto un giorno a Maria Bonaparte che dagli insulti mi so difendere, ma di fronte alla lode sono disarmato. Lei mi trova in questo caso doppiamente indifeso, perché ricordo di aver scritto a Ernst Jones – era, mi sembra, il 1920 -: «Sono sicuro che fra qualche decennio il mio nome sarà dimenticato, ma le nostre scoperte resteranno». Lei vede che la mia previsione era erronea, poiché otto decenni più tardi, si è potuto commemorare il 150mo anniversario della mia nascita, invocare il mio nome, anche se per maledirlo in nome dell’autorità della coscienza e della morale. Quanto alle nostre scoperte, ci si può domandare che cosa ne sarà della pratica della psicoanalisi nei decenni a venire.

L.AS Lei desiderava che la psicoanalisi si emancipasse dal Suo nome, che non fosse una scienza troppo strettamente legata a un nome proprio, come non dovrebbe essere associata all’ebraicità, né alle circostanze della Sua nascita. La psicoanalisi ha d’altronde profondamente impregnato la cultura, in tanti campi, che lo si voglia o no, che lo si sappia o no, e la scoprono sempre nuovi paesi e culture diverse che ne sembravano lontane. E questo anche se la terra della psicoanalisi dovesse restare per sempre impromessa [impromise].

S.F Lei cerca di rassicurarmi, ma è vero che il suo avvenire resta in larga misura imprevedibile. Quante volte ho sentito, quando ero in vita, la sua morte annunciata nel corso di dotti congressi. Oggi, che progresso! la notizia ci arriva quotidianamente dalla stampa. Ne avevo sorriso a quel tempo, ne sorrido anche oggi pensando a quel telegramma che Mark Twain aveva indirizzato a un giornale annunciando la falsa notizia del suo decesso: «La notizia della mia morte è esagerata». Questa volta è un fantasma che lo dice.

L.AS Lei ci ricorda la nostra inesistenza. Chi sa se ci rivedremo. Allora, addio!

S.F Addio, Liebe Lou!

i Dall’obituary di Freud, dalle Opere, Bollati Boringhieri, vol. 9, p. 493.



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