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A e P --> HOME PAGE --> N° 1 - Gennaio 2001




Anno I - N° 1 - Gennaio 2001

Figure della violenza in adolescenza




Il trattamento della violenza *

B. Carau



"Si può addirittura asserire che gli autentici
archetipi della relazione di odio non traggono
origine dalla vita sessuale, ma dalla lotta dell'Io
per la propria conservazione e affermazione."

(Freud S., "Pulsioni e loro destini", 1915, p.33)


Un titolo così puntuale e impegnativo come "Il trattamento della violenza", potrebbe creare aspettative onnicomprensive: il mio intento non ha finalità esaustive come potrebbe far pensare la sua formulazione; anche perché il tema della violenza ci impone, a vari livelli, un confronto con il limite.
Una curiosità: il significato più peculiare, nella lingua italiana del termine "trattamento" rispetto a quello di "cura" (quale in questo contesto si può intendere), fa riferimento al "modo o maniera di accogliere" e indirettamente anche all'idea di "elaborazione". Due significati che forse colgono meglio il filo conduttore del mio intervento.
La recente attenzione al tema della violenza "nel trattamento" dell'adolescente, permette d'individuare prospettive diverse che possono affinare la qualità dell'intervento, e ampliare il "fuoco percettivo e la sensibilità" del terapeuta non solo nell'ambito istituzionale, ma anche nella clinica individuale.
Una focalizzazione che, partendo dalla dinamica e l'economia interna di questi stati di violenza, ne chiarisce la funzione destrutturante o forse anche strutturante, in ogni caso peculiare del tempo adolescenziale, e ne circoscrive i fondamenti teorico-clinici su cui s'impernia qualsiasi discorso sulle modalità di intervento.
Parlare del trattamento della violenza significa gettare uno sguardo sull'articolazione della violenza nella relazione terapeutica esposta al fluttuare adolescenziale tra movimenti attuali e irruzioni primarie, bisogni narcisistici e spinte oggettuali nel loro reciproco intersecarsi.
Da questo punto di vista il tema proposto suggerisce e richiede una tale complessa articolazione di tematiche che sarebbe velleitario pensare di andare oltre la proposta di alcuni spunti di riflessione in merito, sulla scorta, ovviamente, dell' esperienza personale con questi adolescenti che, fin dall'inizio del mio lavoro, ho avuto modo di seguire in psicoterapia psicoanalitica con esiti a volte incerti, limitati, altri soddisfacenti.
Ho colto l'occasione di queste riflessioni, per ricordare il primo ragazzo che mi ha introdotto, per così dire, al trattamento degli adolescenti difficili con i quali la violenza in varie forme ed espressioni domina il quadro clinico. Nel trattamento di Luigi, la violenza agìta era la caratteristica essenziale nel setting, invadeva la relazione terapeutica in modo prepotente, portandola spesso al limite del tollerabile.


Luigi era un ragazzo già instabile a 12 anni e forse avrebbe potuto padroneggiare la natura violenta del risveglio puberale attraverso la sua difesa maniacale se proprio in quel momento del suo sviluppo non fosse intervenuta la morte del fratello minore, mentre nuotavano insieme nel mare.
Sopraffatto da un'angoscia persecutoria e depressiva e dalla colpa, non molto tempo dopo,Luigi tenta il suicidio buttandosi sotto il camion del padre, per fortuna senza conseguenze.
Si avvia bene nella psicoterapia, grazie anche alla ferma decisione dei genitori e al loro trattamento parallelo. Emerge, fin dall'inizio, un transfert esigente, d'impossessamento. L'aspetto più incontrollabile è la sua agitazione e il tentativo continuo di smantellare e distruggere tutto quello che trova nella stanza, sottoponendomi sadicamente ad attacchi e sfide sempre più spinte, fino al lancio diretto di coltellini che porta con sé appositamente. Il veicolo essenziale di comunicazione non sono le parole, ma le azioni. Afferma che è un "suo diritto fare quello che vuole" per concludere sarcasticamente: "Tanto sei pagato per questo!".
E' impossibile fare qualsiasi intervento che possa riguardare, sia pure indirettamente, il suo mondo interno e la sua disperazione. Durante le sedute sono impegnato nella gestione della situazione immediata, come in un intervento di urgenza che non lascia tregua. Con un ragazzo come Luigi, la sorpresa e l'urgenza diventano la specificità dell'incontro; ma assumersi l'urgenza significa esporsi al rischio di rispondere più all'urgenza che al bisogno, se non si trova la possibilità di modificare l'urgenza in emozione e sentimento utili all'interpretazione del bisogno: e' un attacco alla permeabilità emotiva del terapeuta.
Ricordo ancora il mio stato di ansia e di paura in attesa della seduta, una posizione controtransferalmente speculare che lui percepisce molto bene e che sembra controllare sadicamente in funzione del suo stato interno. Un gioco stretto senza mediazione possibile.
Inutile dire che in poco tempo ha distrutto o danneggiato tutte le supellettili della stanza ed è di grande sollievo quando propone il gioco delle carte. In quel periodo si attenua l'agire violento in seduta, che trova un'altra modalità di espressione nel linguaggio, non meno sprezzante e violento. Un registro diverso che non solo segnala un movimento, ma inaugura, con il gioco delle carte, la possibilità della sfida senza mire distruttive e nel contempo il racconto delle sue avventure all'esterno, accettando qualche mio commento interpretativo.
Commento:
La dinamica della relazione con Luigi per circa due anni s'impernia intorno alla violenza agìta, come se il ragazzo non conoscesse un altro modo di mediare con gli oggetti interni ed esterni: affermazione di sé, sessualità, differenziazione e identità, sembrava potessero dispiegarsi solo con la connotazione di violenza all'interno e all'esterno del setting.
Violenza che si configura come un "diritto" (che, peraltro, suscitava in me una forte irritazione), di poter fare tutto quello che voleva, anche distruggere. Diritto singolare il suo, diritto sull'oggetto che non tollera scarti rispetto all'onnipotenza primaria: un risarcimento senza condizioni che possiamo tradurre come bisogno-rivendicazione di uno spazio interno dove poter configurare la violenza dei suoi vissuti.
Il gioco delle carte ha rappresentato una mediazione fondamentale, un luogo intermedio, prima occupato o devastato dal comportamento violento. Con questo passaggio ha potuto non solo modulare l'irruenza dell'impatto transferale, ma anche trasformare il potenziale di azione in una modalità di gioco: un evento ancora possibile nella prima adolescenza.
Questo caso ha avuto un significato, per così dire "iniziatico" per me, rispetto alla possibilità del trattamento della violenza in adolescenza e sono rimasto, con la convinzione che se la psicoterapia arriva in tempo é possibile far riprendere linee di sviluppo e persino pensare che il potenziale violento possa evolversi in una risorsa a disposizione dell'Io. Resta l'interrogativo se il percorso terapeutico con Luigi sarebbe stato possibile al di fuori dell'istituzione che, sicuramente, ha avuto un peso nella dinamica del transfert e del controtransfert.


Quale spazio terapeutico.

Certo "la tendenza al pessimismo terapeutico" in certi casi, come osservava già qualche tempo fa D.Miller (1983), non é scongiurata e penso non lo sarà mai del tutto almeno come interrogativo, realistico, sulla trattabilità nell'ambito di un setting individuale. D'altra parte lo stesso Winnicott che si è molto interessato, in particolare, della delinquenza e della tendenza antisociale e, nonostante - o proprio per - le approfondite ipotesi sul significato della tendenza antisociale e la sua eziologia nota a più riprese che il "trattamento analitico non è elettivo per questo tipo di pazienti". (Winnicott. 1956, 1961) Stimolando la ricerca di altre forme di intervento, a partire dal significato stesso che diamo alla violenza in età adolescenziale.
In particolar modo alla "percezione soggettiva" che, come osserva P. Jeammet (1997): "é determinante... nella ricerca del senso e dello spazio nell'economia psichica" non solo per l'adolescente, ma anche e soprattutto per lo psicoterapeuta.
In ogni caso, in adolescenza, il momento evolutivo peculiare ne amplifica e circoscrive insieme il suo significato e la sua evoluzione: in questo senso diventa fondamentale una focalizzazione in merito nella ricerca di nuove modalità d'intervento.
Ma quando parliamo di violenza adolescenziale e della possibilità o meno di un percorso terapeutico a che cosa ci riferiamo?
Quali varietà di comportamento sono circoscritte, ad esempio, nel termine -atto violento-? Ognuno di questi, infatti, differisce enormemente dall'altro quanto a motivazioni, metodo, configurazione della personalità e condizioni necessarie a far insorgere la reazione violenta.
L'irrompere all'interno del setting terapeutico dell'agire violento non é l'aspetto più specifico, anche se molto ingombrante ed é immediato il riferimento all'idea di violenza.
Al contrario, infatti, si pone l'interrogativo di come definire l'impossibilità di raggiungere e/o rappresentare la violenza interna con certi adolescenti.
Sicuramente il primo aspetto é quello che più destabilizza l'assetto mentale del terapeuta e del setting stesso nel suo complesso, pur non essendo, almeno in molti casi, l'aspetto più severo dal punto di vista della patologia, anche se ciò non attenua la difficoltà del trattamento, ma sposta l'asse di riferimento sulle nostre risorse a livello terapeutico. Adolescenti molto impegnativi clinicamente, per la messa in atto, spesso sono quelli che potrebbero usufruire della psicoterapia.
E' il caso di Luigi cui ho accennato, che nonostante le difficoltà e la perdita del controllo nei suoi attacchi violenti, in più occasioni anche il corpo a corpo, non presentava certo una patologia così severa. La violenza aveva per lui anche un significato evolutivo-reattivo sia rispetto al trauma attuale che a quello originario e, inoltre, la difesa maniacale permetteva di controllare affetti più devastanti per tutto il tempo necessario al lavoro della terapia oltreché lasciare uno spazio a soluzioni intermedie che, in molti casi é un'opportunità preclusa.
La violenza agita o comportamento antisociale attraversa orizzontalmente molte forme di patologia adolescenziale e i fattori in gioco sono molteplici a partire dal significato economico e strutturale in rapporto all'età dello sviluppo, prima, media e tarda adolescenza e all'intersecarsi o meno della violenza con lo sviluppo sessuale.


Violenza passiva.

Non meno insidiose sono le forme passive di violenza interna, silente (violenza muta come la chiama Jeammet P. 1997) il cui passaggio all'atto può esitare, nella sua forma estrema, nel suicidio dove il soggetto non può più reagire: "apparentemente" presenta meno rischi e potrebbe apparire più accessibile ad un trattamento, ma sicuramente non meno impegnativo.
Kernberg O. (1999), nota che, "Il tipo passivo é molto meno pericoloso e comunque lascia uno spazio potenziale per l'intervento psicoterapeutico anche se con l'interrogativo circa la sua efficacia"
Con certi adolescenti ci dobbiamo interrogare sul destino interno della violenza adolescenziale, se anche un semplice moto aggressivo acquista, per loro, in fantasia connotazioni di violenza paralizzante.
Ad esempio una situazione positiva di transfert, persino seduttivo può sottendere processi dissociativi, sentimenti di rabbia e distruttività scissi insieme al ricordo doloroso.
Altre volte sentimenti violenti sono spostati su un bersaglio sicuro culturalmente, magari supportato dal gruppo, di fronte alla minaccia al senso d'identità: sono altrettante figurazioni della violenza il cui lavoro interno potrebbe passare inosservato.
Come far emergere o riattivare nella relazione terapeutica un processo evolutivo che includa insieme all'assunzione del corpo sessuato, affetti e pulsioni legati alla violenza? che del resto sono inscindibili.
Il dilemma terapeutico con molti adolescenti non é gestire l'espressione agita, ma far emergere la violenza il cui lavoro interno passa inosservato per poterla rappresentare. Quando la violenza, la rabbia e l'odio non emerge in seduta e si perde nella trama della relazione in una negazione collusiva, si espone l'adolescente a un altro tipo di violenza non meno distruttiva.
In proposito emerge un altro quesito rispetto al trattamento delle difese nei confronti della violenza, spesso ostinate.
Parafrasando P.Gray (1973) si potrebbe dire che siamo più preparati per tradizione, a trattare pienamente con le difese nei confronti degli investimenti libidici o anche di sviluppi erotici nel transfert più di quanto riguarda le difese nei confronti della violenza o solo dell'aggressività. Il discorso diventa stimolante e significativo in adolescenza proprio per il potenziale di violenza insito nel processo adolescenziale stesso.
Siamo esposti, infatti, a un compito qualitativamente diverso quando si tratta di mantenere un assetto mentale di fronte a un moto di violenza per i potenti fenomeni di controtransfert mobilitati e la tensione che costringe a uno stato di all'erta.
Quando invece "il terapeuta, troppo gratificato dai sentimenti positivi del suo paziente, é disposto ad accettare il ruolo onnipotente, fa notare Miller (1983) non ha mai a che fare con le esperienze di rabbia e di angoscia che si esprimono nel comportamento autodistruttivo che ha condotto il ragazzo o la ragazza al trattamento" D'altra parte l'adolescente proprio con la protezione offerta dalla terapia, spesso, riesce a fare i conti con la sessualità, prendere contatto con il corpo sessuato senza aver elaborato sufficientemente il potenziale di violenza insito nella sessualità stessa e nelle rappresentazioni dei suoi oggetti interni.
La sessualità stessa, in questo caso, costituisce l'unica via d'uscita dal confronto e l'integrazione della violenza. Una sessualità che sembra garantire un processo di sviluppo in realtà si rivela uno sfruttamento delle risorse libidiche per la sopravvivenza del Sé. Perde la sua funzione evolutiva per ripercorrere un destino primario senza la possibilità della secondarizzazione nell'apré coup, né tantomeno di una riformulazione edipica. In questo senso, parentesi molto articolata, la soluzione perversa acquista un significato intermedio come un tentativo di articolare la violenza con la sessualità. Tentativo dai confini incerti che non sempre riesce.
E' come un corto circuito terapeutico che rischia di lasciare vaste zone inesplorate nell'integrazione della stessa sessualità dove la difesa dal potenziale violento rischia di coinvolgere collusivamente lo spazio terapeutico.
In proposito voglio fare riferimento ad alcuni aspetti emersi nel percorso terapeutico con un tardo adolescente che dalla pubertà era sfuggito a qualsiasi proposta di psicoterapia fino a quasi 19 anni, quando riesce a motivarsi, forse, più consapevole della sua sofferenza. Una consapevolezza che diventa garanzia nell'intraprendere un lavoro individuale, altrimenti molte volte improponibile.


Il motivo immediato della richiesta di Aldo è stata la crescente difficoltà a stabilire un rapporto con una ragazza. Una motivazione che sottende, tuttavia, una vita assolutamente vuota: abbandonati gli studi con le medie è sempre alla ricerca di amici che puntualmente lo evitano, trascorre le giornate in giro per la città spesso senza meta. Orfano di padre dal primo anno di vita, intrattiene con la madre una relazione di natura sado-masochista, con connotazioni incestuose. Aldo ingaggia con lei violente liti che finiscono sempre in un corpo a corpo intollerabile e pericoloso. Ormai è lasciato a se stesso, in un destino di strada, se non fosse per l'interessamento di una zia sensibile e, direi, ancora fiduciosa nelle sue possibilità di sviluppo. Lo ha assistito per tutto il tempo della psicoterapia più di quanto possa aver fatto la madre la cui presenza è stata comunque determinante nel far fronte alle aggressioni fisiche quotidiane del figlio, prima che potesse profilarsi un confine interno alle sue proiezioni agite.
Con l'inizio del lavoro terapeutico, le tre sedute settimanali diventano l'unico impegno significativo che acquista, ben presto, un significato interno di temporalità.
Avevo accettato con una certa diffidenza il lavoro con Aldo, in quanto mi era stato già riferito che presentava una rigida struttura caratteriale e picchiava la madre. Tutto ciò sembra però contrastare con l'atteggiamento dipendente e collaborativo che mostra dall'inizio, pur non facendo mistero della sua rabbia verso la madre, della sua presunta superiorità nei confronti di tutti che tradisce una grandiosità e una rigidità di natura quasi psicotica.
Il racconto degli incontri con qualche ragazza e i prevedibili rifiuti occupa per oltre un anno il tempo delle sedute in una dimensione fluttuante tra realtà e fantasia, vero-falso il cui significato transferale si rivela ben presto più determinante della realtà dei suoi racconti. La relazione terapeutica stessa, a un certo punto, sembra avere un andamento simile alla qualità del rapporto con le ragazze. La ragazza nel suo vissuto adolescenziale si configura come un'immagine da una parte idealizzata e irraggiungibile e dall'altra sessuata e pericolosa. Un'idealizzazione che assume in terapia un aspetto particolare dove il terapeuta è una "condizione" anziché un "oggetto", per cui sembra più l'idealizzazione di "se stesso nella relazione" come dispiegamento della sua onnipotenza narcisistica.
Sono molto attento negli interventi per non essere intrusivo o turbare la sua vulnerabilità, tuttavia, gradualmente comincio a "mettere in discussione" questo mondo, fiducioso ormai della protezione che la continuità del setting può garantire e del clima di collaborazione instauratosi.
Emerge in poco tempo, con tutta la sua irruenza, il vissuto di rigidità che aveva tenuto come in sordina accennandovi solo di sfuggita: le liti, le aggressini dentro e fuori casa, gli agiti delinquenziali. Un comportamento antisociale che finora aveva mantenuto completamente dissociato dalla situazione terapeutica.
E' come una tempesta emotiva che si riversa totalmente all'interno della dinamica del transfert e del controtransfert sul filo della fantasia che da un momento all'altro rischia di degenerare nel passaggio all'atto, circoscritto invece alla sua agitazione in seduta: si alza e passeggia per la stanza gesticolando o sbattendo i pugni sul tavole o sul muro.
"Stia zitto lei" è l'ingiunzione perentoria che sistematicamente Aldo mi lancia ogniqualvolta tento di fare qualche osservazione nei momenti in cui, stravolto dalla rabbia, rivendica, urlando, le sue improbabili ragioni nelle liti violente che ingaggia in particolare con la madre, ma anche con compagni occasionali o con chiunque gli faccia un'osservazione in contrasto con i suoi modi di fare o di pensare. Con la fantasia onnipotente di voler quasi modellare un "mondo perfetto con la forza"
L' espressione tradisce la sua incapacità di modulare internamente la rabbia che emerge invece come esplosione incontrollata di cui è difficile prevedere l'esito. Mostra una rigidità ossessiva, prima solo intravista, tesa a mantenere un'unità interna minacciata. Reagisce a chiunque possa non dico contrastare, ma solo interferire con questi suoi riferimenti sia interni che esterni, come se la compresenza di un punto di vista diverso significhi non solo non aver ragione, ma "perdere la ragione, la testa e quindi non esistere".
La relazione terapeutica acquista ben presto una connotazione d'instabilità e di precarietà che qualifica il suo mondo interno costantemente minacciato dall'angoscia di annientamento e da un Super-io persecutorio e arcaico. Come è evidente anche da un sogno che porterà più avanti nella terapia, in cui rappresenta un aspetto della deprivazione primaria. Nel sogno Aldo rientra a casa e la madre gli riferisce che un bambino lo ha cercato per telefono, ma non si sa chi sia. Lui si arrabbia e ingaggia la lite, abituale, con la madre perché vorrebbe richiamare il bambino, ma non può.
Il sogno circoscrive una rappresentazione del Sé infantile dissociata, che non può mettersi in contatto perché narcisisticamente fagocitata dall'ambiente materno nel tentativo di far fronte alla propria depressione e al lutto: dissociazione, falso Sé, isolamento sono le protezioni che il bambino ha messo in atto non integrando "la violenza primaria" per usare l'espressione di Bergeret (1984) né tantomeno l'affermazione del Sé infantile minacciato da un Super-io arcaico.


Commento.

La mia preoccupazione costante, e qui richiamo il focus percettivo, era quella di non amplificare il potenziale di violenza agìta di Aldo. Un aspetto che sicuramente ha condizionato il modo di essere in seduta e il tipo di ascolto richiesto da Aldo. Anche quando era, ormai sicuro che in seduta si potesse escludere un passaggio all'atto, oltre alla problematica esterna restava in primo piano il suo destino interno e la negoziazione tra le varie istanze.
Se da una parte un'ingiunzione così perentoria, come "stia zitto lei" induce irritazione e rabbia paralizzante, non solo per l'attacco diretto alla funzione analitica, riducendomi spesso al silenzio e all'impotenza e mettendomi nella posizione del bambino ferito e sopraffatto da un Super-io arcaico e sadico, (rappresentazione che abbiamo potuto riprendere più volte, in particolare in occasione del sogno), dall'altra è indubbio che una provocazione così diretta contiene una sfida che richiederebbe un confronto aperto con l'adolescente: con tutti i rischi che una risposta di questo tipo comporta.
Ma é possibile un confronto aperto quando la rabbia narcisistica pervade la scena?
Comprendere e tollerare la rabbia che pervade anche il terapeuta è un momento importante e delicato. In certi frangenti la sua accoglienza rasenta una deriva masochista, poco funzionale al processo se non metabolizzata in tempo. Ma un confronto diretto con la violenza, soprattutto quando c'è ancora il rischio della messa in atto, non è possibile. D'altra parte accorciare le distanze da un atteggiamento super-egoico è molto facile, ma non so quanto terapeutico; anche se mi rendo conto che molto spesso è inevitabile, almeno come ridefinizione dei confini del setting. La spinta a una mobilitazione di funzioni superegoiche, sia nel terapeuta che nell'adolescente, coinvolge in una spirale carica comunque di una violenza impositiva.
Aldo è un esempio, e non dei più gravi, in cui la violenza, nelle sue multiformi espressioni, fa irruzione all'interno dell'assetto terapeutico dopo un periodo di relativa collaborazione, forse utile nelle fasi iniziali di una psicoterapia. Successivamente la relazione terapeutica sembra collassare in una condizione primaria, azzerando qualsiasi differenziazione utile al processo. Una situazione, peraltro, che espone l'adolescente, come osserva R.Cahn (1998) "al terrore di fronte alle implicazioni incestuose e mortifere delle sue pulsioni erotiche e aggressive...amplificate dai tempi originari brutalmente riattivati".
E' difficile pensare che questi possano essere anche momenti utili, in ogni caso inevitabili con molti adolescenti, e che la situazione clinica stessa contribuisce a creare, nel senso che la rabbia narcisistica trova uno spazio in cui poter emergere nella dinamica della relazione psicoterapeutica.
D'altra parte la violenza, quando si manifesta con particolare intensità nella psicoterapia, magari dopo un periodo, appunto, relativamente tranquillo, può indicare che qualcosa si muove: conflitti non simbolizzati sono stati mobilizzati dal lavoro terapeutico e si profila l'accenno di una differenziazione.
La risposta terapeutica in questi frangenti diventa determinante: c'è sempre un rischio se non è consolidata una protezione narcisistica che garantisca il processo senza imbrigliarlo in una relazione onnipotente che potrebbe portare alla paralisi.


Protezione narcisistica e spazio intermedio.

In proposito sorgono una serie d'interrogativi sul come costruire all'inizio una protezione utile, sufficientemente aperta da tollerare piccole dosi di frustrazione, senza che tutto si esaurisca all'interno di essa: è molto facile la collusione e il rischio di un ingorgo narcisistico. Molti autori mettono in guardia da questo rischio, anche se in particolari momenti nel corso del processo, a mio avviso, diventa inevitabile. La sfida si pone su un altro livello, in questi frangenti: è un coinvolgimento al quale bisogna poter accedere senza sostare troppo e soprattutto con la consapevolezza di poter comunicare e interpretare, al momento opportuno, le dinamiche in gioco.
Certo la linea di confine, tra un transfert che garantisca una protezione narcisistica all'adolescente e un transfert narcisistico fagocitante e paralizzante, non è così facile da individuare anche perché più spesso ci troviamo di fronte a momenti diversi che si alternano nel processo o anche all'impossibilità, in certi casi, di trovare uno spazio utile perché la dinamica transfert si possa instaurare e si mantenga nei margini di tollerabilità anche controtransferalmente.
In questi casi lo spazio intermedio che si qualifica nel gioco tra interno ed esterno, tra il Sé e l'oggetto, necessario perché un trattamento individuale diventi realisticamente possibile, è uno spazio distorto o inesistente. Più spesso occupato proprio dalla violenza come difesa estrema e unico tentativo di mediazione che garantisce l'adolescente da uno stato indifferenziato e dalla minaccia alla sua identità.
L'area intermedia diventa essa stessa il luogo della violenza in quanto rappresenta o esprime proprio lo strappo e la rottura originaria di quest'area fondamentale, satura di un materiale persecutorio e violento.
In ogni caso ci porta a considerare la linea di confine o il limite della percorribilità o meno del trattamento adolescenziale in un setting individuale e ci costringe a pensare spazi terapeutici diversi e articolati, sempre nell' ambito di un'orientamento analitico.
Un limite spesso in primo piano oltre il quale non è possiblile il dialogo terapeutico e ci confronta con ambiti istituzionali e modelli d'intervento articolati dove il peso del transfert non ricada totalmente nella relazione terapeutica.
E' necessario uno "spazio terzo" esterno al setting individuale, che assuma la funzione di mediatore e permetta un accesso alla simbolizzazione attraverso modalità vicarianti.
In proposito sono stati fatti dei passi avanti nella sperimentazione e nella ricerca partendo dal significato della realtà esterna e del suo intersecarsi con il mondo interno per l'adolescente.

Mi riferisco a un'ambito terapeutico allargato senza sottovalutare o sospendere la possibilità di creare o preparare comunque un setting individuale che a un certo punto del percorso l'adolescente stesso richiede e che acquista una rilevanza interna fondamentale proprio per sostenere o qualificare soggettivamente un processo evolutivo rimesso in moto dal lavoro fatto in ambiti diversi dal setting individuale.
A titolo di esempio vorrei far riferimento, brevemente, a un'altra situazione particolare del percorso terapeutico di una ragazza di 16 anni, ospitata in casa famiglia in seguito a una storia di violenze e abbandoni. Ho potuto seguire in supervisione la collega (Dr.ssa Clelia De Vita) nel setting individuale e contemporaneamente, per un certo periodo, anche gli operatori della casa famiglia, con incontri regolari.
Sara, una ragazza borderline molto grave, è inviata in psicoterapia perché, a un certo punto della sua permanenza nella casa famiglia, dopo un periodo trascorso "all'insegna della compiacenza e passività, aveva iniziato a creare problemi di gestione con le sue esplosioni di rabbia e aggressioni verso l'ambiente circostante che per la prima volta, nel suo sviluppo, si propone in termini di affidabilità". Così nota la collega sottolineando la funzione terapeutica determinante di un'ambiente allargato come la casa- famiglia.
Le fughe continue rappresentano un altro suo modo di opporsi: "la ragazza vagabondava per strada, esponendosi a situazioni di pericolo, alla ricerca dei luoghi del suo passato recente".
La collega aveva accolto con simpatia Sara, nonostante il prevedibile impegno controtransferale sottolineato: simpatia che le ha permesso di sopravvivere agli attacchi successivi.
Mi sembra significativo notare come la situazione terapeutica allargata ha permesso di diluire gli investimenti transferali, appoggiandoli agli oggetti reali con livelli ed intensità diversi.
La ragazza segnala un luogo neutro tra riconoscimento, estraneità e separatezza assimilando la terapeuta all'operatrice a lei più cara: "Sei proprio uguale a X, hai i capelli neri come i suoi!" Al contrario, evocando la figura di un'altra operatrice esprime le angosce persecutorie: "Y mi tratta male".
Nel frattempo Sara "ossessivamente continua ad aggiustarsi il nodo della sciarpa, dicendo alla terapeuta, che se è troppo larga teme le cada restando scoperta, ma quando la stringe troppo si sente soffocare" Con ciò ella segnala i due eccessi transferali e la "necessità di trovare la giusta distanza" tra il "bisogno-timore di essere inclusa-fagocitata nella relazione terapeutica e l'angoscia del rifiuto e dell'abbandono". La stessa immagine èriproposta, sempre concretamente, più volte, con il trascorrere anche ore intere sulla soglia, sospesa tra il bisogno di entrare e quellodi fuggire.
Questo modo di porsi, a volte persistente, è per Sara l'unico modo di comunicare, per quanto agìto; forse é anche un modo provocatorio di saggiare la tenuta e la disponibilità, ma non è un attacco al setting terapeutico. Questo è il setting. Lo spazio terapeutico non è dato, stabilito, ma costruito insieme all'adolescente, ed é proprio negoziando spazio e tempo nella realtà della seduta che si prefigura la possibilità di negoziare tali istanze dal punto di vista interno.
La collega nota "un forte senso d'impotenza, ma anche l'attenuarsi dell'urgenza di una risposta con la possibilità di poter stare in anticamera". Ciò configura una posizione controtransferale particolare che resta periferica senza imporsi all'adolescente.
Vorrei sottolineare la complessità e l'accessibilità del transfert nell'intersecarsi delle sue dinamiche nel setting individuale e nell'ambiente quotidiano con gli operatori, come una diffrazione che, espandendosi all'esterno, garantisce la tollerabilità interna. Contestuale, in questo caso, anche l'intersecarsi del controtransfert.
In un periodo particolare, più avanti nella terapia, l'intolleranza della ragazza diventa incontrollabile sia all'interno della seduta che all'esterno costringendo gli operatori e la terapeuta alla ricerca di un confine alla sua aggressività violenta e distruttiva.
Sara vive tutto come maltrattamento: non vuole andare in terapia accusando la terapeuta di maltrattarla per poi arrabbiarsi con lei perché non la libera dagli operatori che, secondo lei, la perseguitano. "All'interno di questa dimensione, nota la collega, momenti di aperta aggressività e distruttività vengono, tuttavia, bilanciati da nuove possibilità d'insight: "Sai da piccola, mi hanno picchiato. Io bevevo il caffé, tu non hai il caffé?".
La possibilità di oscillazione in un gioco intermedio proiettato e controllato all'esterno, nella compresenza di livelli diversi di transfert, ha permesso una sua modulazione nelle fasi di persecutorietà preservando la continuità del processo finché la ragazza non riesce a configurarsi un suo spazio interno: condizione indispensabile per l'instaurarsi dei processi di differenziazione e dell'identità.
E' dalle trame del percorso terapeutico allargato che per questi adolescenti può iniziare un processo di storicizzazione della violenza capace di ridare una temporalità al trauma.


Per concludere vorrei riprendere alcuni elementi emersi anche dai momenti clinici presentati, che ritengo essenziali in merito al tema della trattabilità di molti casi la cui adolescenza è connotata da una violenza insostenibile, sia che essa appartenga alla realtà esterna (come espressione e controllo, in ogni caso, di un mondo interno) sia che appartenga alla realtà interna, (però non avvertita come tale dall' adolescente, per cui non può essere rappresentata).

a) In entrambe le modalità il vincolo della violenza nell'adolescente lascia intravedere la sua natura primaria che, con la pubertà, riemerge prepotentemente dove non ha potuto instaurarsi una differenziazione Sé-oggetto né essere metabolizzate le angosce relative a questa indifferenziazione, attraverso la funzione simbolica ambientale.
La vulnerabilità narcisistica dell'adolescente (che , in questi casi, egli protegge con la violenza perché sfugge al controllo dell'Io, nella situazione terapeutica mette a dura prova la vulnerabilità narcisistica del terapeuta che non è sempre facile riconoscere.

b) Il lavoro abituale con gli adolescenti, anche quando presentano patologie meno gravi mobilita dinamiche peculiari. Di fronte alla violenza si ha immediatamente la sensazione di non essere attrezzati, di non avere la risposta giusta per contenere e tradurre in forma interpretativa affetti grezzi, quali la rabbia narcisistica.
Il discorso sul controtransfert meriterebbe un capitolo a parte. Esso non é rappresentabile con le immagini e le reazioni emotive immediate della situazione terapeutica. Queste ultime le possiamo qualificare meglio come derivati controtransferali, che a loro volta rimandano ad aspetti più profondi sollecitati sul versante primario e narcisistico. Bergeret J.(1984) osserva che "L'emozione affettiva individuale, intima e profonda, che l'adulto prova di fronte alla riattivazione angosciante della propria primitiva violenza, non é mai completamente integrabile e- conclude - gli psicoanalisti non sfuggono a questa reazione".
Un collega in supervione, non sapendo come descrivere uno stato emotivo sperimentato in seduta con un ragazzo, mi chiede a bruciapelo: "Le è mai successo di provare rabbia nei confronti del paziente al punto tale da spaventarsi ?".
L'attacco non è al pensiero o alla funzione interpretativa, comunque coinvolta, ma all'assetto emotivo del terapeuta esposto a un livello di mobilitazione continua, quando irrompe la violenza in seduta, che porta a "condividere il timore di perdere il controllo". Aspetti caratteriali possono emergere prepotentemente anche nel terapeuta; del resto l'adolescente, in questi casi, vuole sentire che noi possiamo far fronte non alla sua, ma alla nostra violenza mobilitata.
Non è facile, in questi frangenti, sintonizzarsi con la funzione protettiva e persino organizzante che può assumere l'emergere di affetti grezzi, della provocazione, della sfida (di cui è importante riconoscere e interpretare la funzione come unica risorsa disponibile). Coinvolgersi e distanziarsi è il paradosso controtransferale.
Tuttavia, come osserva Cahn (1988) "La possibilità di contenimento e di elaborazione rischia in ogni momento di essere sopraffatta da passaggi all'atto incontrollabili sia del terapeuta che dall'ambiente".

c) A proposito di ambiente non mi sono soffermato sul discorso della coppia genitoriale che anche nella letterattura mi sembra sottovalutato, rispetto al dilemma di molti adolescenti, che non è tanto quello di trovare risorse terapeutiche disponibili, quanto di intravedere un percorso di cura. Ciò vale in particolare, quando la violenza ha il suo fulcro organizzatore nella dinamica di coppia e invade le dinamiche familiari, situazione che espone l'adolescente all'impotenza terapeutica: lo spazio terapeutico é come catturato nella dinamica della coppia genitoriale.
L'adolescente, anche il meno problematico, ha bisogno di differenziare la coppia genitoriale, proprio per rinegoziare aspetti identificatori sulla traccia di un rimaneggiamento edipico. Quando nella coppia la violenza, più o meno manifesta, è un sostegno collusivo, per l'adolescente é impossibile mediare, articolare una differenziazione possibile: è la ricerca identitaria in tali casi. C'è da chiedersi dove sta la minaccia: nel genitore o nell'adolescente? Il fallimento di molte situazioni terapeutiche spesso è da ricercare nella violenza delle dinamiche di coppia non solo in termini di agìti violenti, ma anche, o soprattutto, nella forza del vincolo affettivo non differenziato, né differenziante.


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* Relazione al IV Convegno Nazionale di Paixorze Psicoterapia dell'adolescenza su "Figure della violenza in adolescenza" (Alghero, 6-7 OTTOBRE).




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