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Anno I - N° 1 - Gennaio 2001

Adolescente e società




Sulla mortificazione: studio teorico-clinico intorno a una violenza privata *

Francesco Mancuso **



In questo lavoro mi propongo di riflettere sulle dinamiche interne delle manifestazioni depressive di mortificazione. Mi muovo pertanto nel campo degli affetti depressivi, cioè della serie degli affetti che insorgono a perenne rievocazione della perdita dell'oggetto amato, ma anche della colpa per i sentimenti ostili nei confronti dell'oggetto perduto.
Come sottolinea Senise, nell'adolescenza queste tematiche "hanno un posto e una funzione assai rilevante e direi che nella psicoterapia d'individuazione a lungo termine la loro analisi e la ricostruzione della loro incidenza durante l'evoluzione è quasi sempre importante" (Senise 1990 p. 50).

Senise definisce i sentimenti di mortificazione come "...quell'insieme di affetti depressivi determinati dalla delusione per lo scacco delle competenze che noi stessi ci eravamo attribuiti o che altri, per noi significativi, avevano presupposto in noi." (Senise 1992 p.12).
Le dinamiche depressive di cui parliamo diventano significative nelle condizioni in cui l'investimento dell'ambiente sul bambino è di natura prevalentemente narcisistica, cioè non sul bambino della realtà ma "sul bambino in quanto oggetto-testimonianza delle abilità materne/paterne o sul bambino come oggetto pregiato, dalla madre (ambiente) posseduto" (Senise 1990, p. 48).
Il genitore che maggiormente è implicato in queste dinamiche manifesterà "la sua delusione esprimendo emozioni depressive" la cui gravità e distruttività variano a seconda dell'importanza degli investimenti effettuati. Da ciò può derivare al bambino uno stimolo a impiegare al meglio le sue competenze o un blocco inibitorio delle stesse fino a manifestazioni - come vedremo - sempre più mutilanti.
Per quanto concerne l'origine delle istanze mortificanti, Senise (1990 p. 50) indica che esse "provengono prima di tutto dai genitori reali, poi dagli oggetti interni genitoriali o autoritari, poi dal Super-Io e dagli Ideali dell'Io".

Nella sua crescita - come dice Resta - "... il bambino vive l'altra persona [l'oggetto] come depositaria di una funzione che la sua struttura psichica non possiede ancora. Ciò comporta il bisogno e la ricerca di un rapporto iniziale fusionale di grande dipendenza sino al momento in cui il bambino stesso avrà acquisito, attraverso l'interiorizzazione, tale funzione [....] L'oggetto ... rimedierà allo squilibrio omeostatico del bambino [cioè alla sua immaturità psichica], diventando pertanto un oggetto narcisistico, cioè onnipotente, idealizzato ed empatico" (Resta 1984, p.266). In tal caso, come chiarisce Senise (1992 p.14) la tensione depressiva legata alla mortificazione che è presente in ogni impegno teso all'acquisizione o all'uso di nuove o difficili competenze diventa "la rappresentazione anticipatoria di come saremmo mortificati o depressi se non riuscissimo nel nostro intento".

Le situazioni alle quali io mi riferisco sono quelle in cui, per ragioni diverse, non è potuto avvenire questo passaggio di testimone tra l'oggetto esterno internalizzato e l'Io autonomo del bambino, forse proprio a causa delle qualità dell'oggetto esterno. Pertanto esso conserva inalterate le caratteristiche che aveva nella realtà, comprese quelle mutilanti e mortificanti. La rappresentazione dei sentimenti di mortificazione, quando viene attivata, da segnale "vivificante" diventa un segnale mutilante. L'oggetto mortificante si è installato nel bambino e pretende adorazione e continui sacrifici di parti del Sé del bambino.

Il presente lavoro si inserisce proprio in questo contesto e a tale proposito devo riprendere il concetto di "bambino posseduto" per segnalare alcune delle possibili dinamiche che si riferiscono a relazioni a carattere prevalentemente narcisistico. Sappiamo che queste relazioni sono caratterizzate appunto da movimenti di intrusione e di appropriazione.

Forse è superfluo sottolineare che la crescita di ogni bambino non è mai totalmente libera da "ingerenze esterne", e che molti degli elementi emozionali oggetto dei trasferimenti, delle proiezioni dall'adulto sul/nel bambino, sono essenziali alla crescita biologica e per lo sviluppo e l'organizzazione del mondo interno del bambino (Mancuso 1996).
Io ritengo che, in situazioni normali, la condizione in cui avvengono le modificazioni di contenitore dei contenuti psichici è quella della "preoccupazione materna primaria". Penso che sia attraverso le prime cure materne o ambientali che vengono trasferiti al bambino elementi psichici della "madre" (intesa come ambiente) e si attivano elementi del bambino. Vedremo che nelle situazioni di cui mi occuperò sembra, invece, che il trasferimento avvenga in una condizione dominata dalla "preoccupazione" dell'adulto di perdere quell'oggetto-sé, quel bambino-possesso che è il bambino idealizzato (Mancuso 2000).

Io sostengo che normalmente l'arredamento delle località psichiche in via di formazione non è un'operazione completamente passiva. Il bambino prende dall'ambiente elementi della realtà esterna e li fa propri.
Oltre che in questa attività di appropriazione e trasformazione degli elementi provenienti dall'esterno, il bambino è impegnato ad arredare gli spazi mentali disponibili con produzioni autonome che in parte devono restare segrete, in una forma non comunicabile (Winnicott).

Nonostante ciò il bambino, proprio in quanto realtà psichica in via di organizzazione, si presta a essere luogo di deposito delle identificazioni intrusive degli investimenti ambientali, oppure un luogo di "saccheggio" di qualità del bambino di cui l'adulto si appropria. Mi sembra che in sostanza possa venire sottratta al bambino la possibilità di fare e "apprendere dall'esperienza" (Bion).

Nella condizione di cui sto parlando esiste un bambino che ha dei bisogni ma esiste anche un adulto-ambiente che ha bisogno di un bambino. Quest'ultimo non sempre coincide con il bambino della realtà o solo parzialmente. In un tale contesto il bambino della realtà può farsi portatore di elementi vitali per il narcisismo e l'erotismo dell'adulto (sia nel senso di deposito che nel senso di discarica).
Questi elementi possono arrivare a premere sul bambino della realtà fino a comprimere le sue esigenze autonome. E' impensabile, in queste condizioni, ipotizzare un'attività di pensiero del bambino, se non indirizzata a ricavarsi spazi segretamente utilizzati. Il bambino è costretto a ricavarsi spazi privati in cui lasciare progredire quelle componenti pulsionali libidico-aggressive più autonome (Mancuso 1999). Il ricavarsi spazi privatamente utilizzabili, che in origine era un'attività spontanea, può diventare un'attività obbligata per la sopravvivenza del Sé .

Il bambino così può mostrarsi talmente "colmato" dalle cure ricevute e anche - o soprattutto - dagli elementi provenienti dall'adulto, da non sviluppare e manifestare elementi propri che possano significare la sua "sazietà" pulsionale la sua "pienezza" narcisistica e quindi il naturale passaggio a una condizione di quiete e beatitudine. Il bambino conosce la sazietà e la pienezza dell'oggetto, non la sua. Tutto ciò anche perché il bisogno che il bambino ha dell'oggetto è troppo elevato per fargli dubitare della bontà di questo, pertanto: la pienezza e la soddisfazione dell'adulto diventano un progetto-modello di relazione.

Un tale progetto non sempre riesce pienamente, in tal caso la scoperta che il bambino presente nella mente dell'adulto-ambiente è sostanzialmente differente dal bambino della realtà procura nell'adulto-ambiente sentimenti molto intensi: delusione, amarezza, depressione, odio. L'oggetto-sé che l'adulto aveva presupposto avere, o che aveva presupposto essere il bambino della realtà non esiste ed egli non lo possiede. Tutto ciò può mobilitare nell'adulto reazioni di rigetto o di re-impossessamento.

Il bambino percepisce la mortificazione e la depressione nell'adulto e provvede, nel suo dialogo con l'ambiente, a decurtare le sue aspettative di quegli elementi sentiti non in sintonia con l'ambiente proprio a causa delle emozioni percepite nell'adulto stesso.
Questa operazione, fatta sotto la pressione ambientale, fa sentire al bambino che gli elementi di quelle istanze, frutto della sua creatività più autonoma, sono mortificate, aggredite. Pertanto vengono scisse e rigettate (come rinnegate), per la salvaguardia del sé e dell'oggetto.
La sottrazione di elementi della realtà psichica dal libero scambio con l'esterno ha anche la funzione di proteggerli dalle reazioni di mortificazione e di odio dell'ambiente; essi, infatti, non vengono persi ma deviati e collocati altrove, appunto in quegli spazi segreti. Si intravede un'operazione simile al premuroso intervento di un genitore che protegge il proprio bambino da eventi esterni pericolosi.
Il fatto è che gli elementi e le componenti psichiche di cui parlo possono venire sottratti anche dalla libera circolazione interna. Il bambino, infatti, introietta non solo gli elementi psichici (investimenti) proiettati in lui dall'ambiente come dicevo prima, ma anche la modalità relazionale con cui l'adulto si protegge dai sentimenti di mortificazione e come egli li tratta cioè l'intensità, la violenza e la forza distruttiva con cui l'adulto ha fatto pressione perché il bambino li accogliesse nel suo Sé e si trasformasse, si conformasse.

Col tempo il bambino, nel suo dialogo interno, assume su di sé una simile modalità relazionale.
E' possibile immaginare come quelle componenti del Sé più identificate con l'ambiente, quindi vissute come "adulte", regolino le tensioni interne con le altre componenti del Sé da cui si sono generate quelle aspettative vissute come "infantili" e oggetto delle reazioni mortificanti.
Queste componenti vengono odiate dal bambino (ovvero dalla componente del Sé dominante) dello stesso odio narcisistico che egli aveva sentito provenire dall'ambiente e diretto su quelle componenti psichiche differenzianti il bambino dall'adulto.


Antonio

Antonio, 17 anni, si trova completamente bloccato nell'utilizzo delle sue competenze intellettive e affettive nei confronti del mondo esterno, anche per via di un iperinvestimento narcisistico che la madre ha attuato nei confronti del figlio che doveva essere il rappresentante, idealizzato, della figura paterna.
L'angoscia di mortificare la madre e suscitare in lei odio verso sé stesso lo costringe a coartare vasti aspetti delle sue potenzialità e a ricavarsi uno spazio di autorevolezza sulle onde del suo apparecchio ricetrasmittente e allo specchio.
Esempi di un tale odio da depressione narcisistica Antonio li percepisce quando vede, riflesso negli occhi della madre, il bambino inadeguato e deludente e quando sente la voce di lei che lo annienta. A quel punto, Antonio percepisce la spinta a odiare e togliere quella vista dai suoi occhi. Il fatto è che quella visione è la madre e può essere tolta solo aggredendo la madre. In questa dinamica si comprende l'importanza del ruolo della voce e della vista. Anche per la madre è importante la vista di Antonio. Egli in quanto possesso, sia pure negativo, è testimone del desiderio della madre di offrire al proprio padre un figlio perfetto, ma di non esserci riuscita e per questo deve essere costantemente punita. In assenza di Antonio la madre è colta da una profonda malinconia. Io mi sto occupando di seguirla nella difficile elaborazione del lutto di un "principe" mai nato e di un padre che richiede continui sacrifici in sua figlia.

Ho utilizzato Antonio e sua madre per chiarire la stretta relazione tra sentimenti depressivi e odio:
- la madre sente la mortificazione dovuta all'assenza del principe e odia il figlio della realtà ogniqualvolta egli impone la sua presenza (oppure il figlio della realtà riattiva l'assenza del principe),
- il figlio, quando vede e sente la mortificazione e l'odio della madre rievoca la ferita dovuta all'assenza di competenze da amare e si odia. Ora che può, risolve il tutto eliminando quell'immagine dallo specchio, mentre da più piccolo si rifugiava nelle sue fantasie.
Prima che si organizzasse in maniera rigida, coattiva, tale da diventare un prigione per il soggetto, l'attività segreta di rifugiarsi nelle fantasie aveva una funzione liberatoria e di salvaguardia di aspetti autonomi del Sé (Mancuso 1996).

Quello che ho descritto è, evidentemente, solo un particolare vertice di osservazione della complessa relazione di Antonio con sua madre. Fortunatamente essa si giova della presenza di un padre che, dopo molte ri-luttanze, ha preso in consegna il figlio (oltre che dal padre, Antonio è seguito da un collega).

L'adolescenza per le sue ben note caratteristiche relative all'esplosione pulsionale mette a dura prova l'organizzazione di cui ho parlato. Nuovi strumenti sono necessari a fronteggiare la potenza degli impulsi per mantenere l'equilibrio interno oltre che esterno.
I normali sentimenti di tristezza e malinconia dell'adolescente costituiscono una condizione attiva del giovane: "ogni tanto ho bisogno di sentirmi triste e solo al mondo per ritrovarmi". La tristezza e la malinconia vengono sostituite da formazioni sintomatiche costanti e progressivamente assorbenti le competenze intellettive. La fustigazione, le autocondanne e punizioni corporali diventano azioni sintomatiche tendenti non solo a inibire, imprigionare le istanze pulsionali e punire - perché odiati - aspetti del Sé per avere concesso loro la manifestazione, ma soprattutto a ristabilire un omeostasi interna, un equilibrio nella gerarchia interna, a qualunque prezzo.

L'oggetto della fustigazione, della violenza, dell'odio narcisistico non è tanto lo sfogo pulsionale o la ricerca del "piacere" - come in certe situazioni siamo portati a pensare - ma l'insubordinazione della componente "infantile" nei confronti della componente "adulta" identificata con l'ambiente. Una tale insubordinazione fa correre il rischio del ripetersi delle reazioni depressive di mortificazione dell'oggetto esterno oramai rappresentato nel mondo interno dalla componente "adulta" di cui parlavo.

Ancora, l'adolescenza per il suo compito di rimessa in gioco potrebbe essere l'occasione di operare una distinzione "soggettivante" tra ciò che può essere riconosciuto appartenere al proprio Sé e ciò che sembra essere il rappresentante interno del desiderio dell'altro (ambiente genitoriale).

Sappiamo che molte sono le spinte interne che si oppongono a una tale risoluzione. Essa lascerebbe un vuoto, una zona di depressione. Lo scollamento del contenuto, oggetto dell'introiezione identificatoria e di tutta l'organizzazione psichica di cui parlo, lascerebbe un vuoto difficilmente colmabile se non sono sufficientemente cresciuti e parallelamente evidenti gli investimenti sulle proprie competenze. Difatti le tematiche di cui parlo diventano "significative" nella relazione terapeutica quando si è creata un'area di conflittualità interna diversa dal silenzio della tirannia dell'oggetto mortificante. Cioè quando il giovane paziente ha ricevuto sufficienti rinforzi narcisistici per potere "alzare la voce", ma anche sufficienti informazioni sulla possibilità di "trattare", maneggiare spinte pulsionali un tempo vissute come dilaganti.
In assenza di queste informazioni il soggetto non può consentirsi di correre il rischio di uno scollamento della pressione parentale introiettata e quindi un rischio di depressione. Il soggetto può creare una "fantasia positiva", o, come dice Green, un'allucinazione positiva (Green 1999), un rivolgimento nel contrario. Questa formazione sostitutiva sarebbe, a mio avviso, erede e conseguenza di quella componente autonoma e segretamente sviluppatasi nel bambino, all'arrivo delle componenti psichiche dell'ambiente, che diventa ipertrofica. Questa "fantasia positiva", a mio avviso, avrebbe una funzione additiva interna che, in alcuni casi potrebbe essere importante rispettare.
La/il giovane può convincersi/ci che è l'altro che si potrebbe spaventare se lei/lui dimostra le sue reali competenze, oppure che sono gli altri che invidiano la sua "magrezza", la sua capacità di presentarsi "freddo e distaccato" per meglio padroneggiare gli eventi, la perfezione muscolare del proprio corpo, la capacità del suo corpo e della sua mente a sostenere le azioni trasgressive più pericolose. In adolescenza questa componente psichica compensativa può raggiungere livelli deliranti.
Se l'adolescente non si libera o se non delimita la pressione di quel "corpo estraneo" che lo parassita, egli è obbligato a ricorrere a continue azioni additive (sesso, cibo, estenuanti esercizi ginnici...) e sostitutive che servono a limitare ma, nello stesso tempo, confermano lo strapotere dell'oggetto mortificante e la violenza di cui è capace. Nello stesso tempo in cui queste "azioni" dovrebbero testimoniare la differenziazione dall'oggetto-ambiente, sottolineano la sua fusione con esso.

Dovere soddisfare le aspettative dell'ambiente comporta la costruzione di un io-ideale onnipotente che si scontra con bisogni, vissuti come "mancanze" che mortificano quell'immagine. Alterano l'equilibrio nel senso a cui accennavo prima.

Come può una siffatta organizzazione che, non solo non ha operato ed elaborato la perdita dell'onnipotenza, ma che è costantemente impegnata nella dinamica mortificante-mortificato avvicinarsi all'altro da sé, e quindi anche al terapeuta ? Soprattutto se questi, con condotte di eccessiva contrapposizione narcisistica oppure di eccessiva empatia, riattiva in maniera violenta gli aspetti mortificanti-onnipotenti oppure gli aspetti mortificati-sofferenti. L'adolescente agirà la violenza subita per infrangere la costruzione terapeutica. La mortificazione un tempo subita passivamente (dall'esterno verso l'interno) viene ora agita attivamente sul sé (nell'interno fra aspetti differenti del sé e verso l'esterno nell'incontro con l'altro).

In questo contesto mi sembra molto interessante riprendere quanto dice Freud nell'ambito dei suoi discorsi sul "senso di colpa inconscio". Questo costituisce un ostacolo "difficilmente riducibile, che si oppone alla guarigione" e si rende necessario "trasformarlo in un senso di colpa cosciente". Qualche possibilità di successo c'è quando, come dice Freud " si tratta di un senso di colpa "preso a prestito", e cioè prodotto di un'identificazione con un'altra persona (o con una componente di essa), la quale sia stata oggetto in passato di un investimento erotico. Una tale assunzione su di sé del senso di colpa è spesso l'unico residuo, difficilmente riconoscibile come tale, della relazione amorosa a cui il soggetto ha rinunciato. Quando è possibile scoprire questo investimento oggettuale passato che si cela dietro il senso di colpa inconscio, il compito terapeutico viene spesso brillantemente portato a termine; altrimenti l'esito dello sforzo terapeutico non è in alcun modo assicurato" (Freud 1922). Il "senso di colpa inconscio" di cui parla Freud è, a mio avviso, da riferire all'insieme dei sentimenti depressivi in relazione all'oggetto esterno mortificato ma anche in relazione alle componenti del Sé mutilate e mortificate dall'oggetto internalizzato.

Se il bambino si trova in piena attività identificatoria, tanto da renderci difficile il capire ciò che viene da lui o dai genitori e se il paziente adulto ha già inserito nel suo patrimonio psichico modelli ap-presi dall'esterno, l'adolescente invece si trova in piena lotta e turbolenza tra accoglimento passivo e rigetto di quelle componenti. Secondo me è importante che egli prenda consapevolezza di possedere dentro le impronte di relazioni esterne e di come queste agiscono dentro, indipendentemente ormai dall'esterno. Un rischio è la collusione con gli aspetti dell'adolescente che spingono a rigettare - tout court - le componenti identificatorie con le figure genitoriali per potersi individuare (qui rientra tutta la dimensione controtransferale del terapeuta e del proprio lavoro psichico avvenuto o evitato in adolescenza). Attivare e sintonizzarsi con i processi di individuazione vuol dire ri/prendere il filo delle identificazioni proiettive e introiettive, comprese quelle proprie del terapeuta.


Elisa

La terapia è cominciata quando Elisa aveva 17 anni. Era da un anno costretta in casa, rinchiusa in sé stessa, alle prese con crisi bulimiche, alternate a periodi anoressici, alla ricerca onnipotente di modellare un corpo e una mente a un'ideale di completa autosufficienza.
Da bambina aveva subito frustranti intrusioni alimentari e mentali da parte di una madre preoccupata, essa stessa, di "presentare" una bambina perfetta, senza sbavature fisiche e pulsionali. Elisa ha dovuto, dunque, ridurre, inibire ogni forma di autonomia per mantenere il suo legame con la madre.
La pubertà ha violentemente rilanciato questa tematica: Elisa ha dovuto provvedere a "trattare" il suo corpo come aveva precedentemente "trattato" la sua mente.
La dimensione alimentare della sua patologia non ha mai raggiunto gravi livelli di autodistruttività, tali da prospettare altri interventi oltre a quello psicoterapeutico. Inoltre, essa aveva consentito ad Elisa di acquisire un'identità che conteneva in sé aspetti di identificazione con un'immagine autosufficiente, in omaggio alla madre pre-edipica e in rispetto dell'ideale materno. Nello stesso tempo, le aveva permesso di rigettare, attraverso il rifiuto del suo corpo sessuato e delle fantasie relative, la nuova identità e l'identificazione con la madre edipica e le relative conseguenze.
Entrambe le operazioni, comuni a molte situazioni patologiche, sono strettamente collegate, nel senso che la desessualizzazione del proprio corpo corrisponde alla desessualizzazione della madre e al poter vivere con lei il conflitto a livello materno-alimentare, con il risultato di consentirle di non affrontare la donna, che è nella madre.

Elisa, dopo circa tre anni di terapia, sentiva che ormai aveva disinvestito l'oggetto esterno/madre, ma restava una complessa relazione con l'oggetto interno-madre.
Le urgenze alimentari che l'avevano spinta alla terapia oramai erano un lontano ricordo, esse lasciavano il posto ad abitudini alimentari più rispettose del Sé. Aveva raggiunto un utilizzo più disinvolto del suo corpo e della sua mente nel senso di scegliere studi più creativi rispetto a quelli "consigliati" dalla madre.
Elisa aveva ricevuto sufficienti e rassicuranti informazioni sulle sue competenze a proteggersi dalle spinte pulsionali ma anche a soddisfare le sue esigenze narcisistiche.
Eravamo consapevoli entrambi che un eventuale approfondimento di certe tematiche poteva essere oggetto di un suo lavoro basato anche sulla sperimentazione delle nuove acquisizioni, compresa un'apparente individuazione nei confronti della madre. Quindi ci stavamo avviando verso il termine di una terapia che sembrava essere stata soddisfacente per entrambi.

Dopo l'estate arriva la svolta. Mi richiama e si mostra decisa a non porre termine alla terapia se prima non ci occupiamo di ciò che sente "premere" dentro. La madre e il padre ormai non c'entrano più. Si è accorta di avere dentro uno "schiacciasassi" che si attiva ogni volta che si entusiasma. Si tratta di qualcosa che non la fa crescere. Qualunque movimento di crescita è vissuto come un cataclisma che rischia di alterare i rapporti con gli oggetti interni. Ciò che la spaventa è che sente affermarsi dentro di lei una voce imperiosa: "Io non voglio crescere, voglio restare bambina"; naturalmente si tratta di una bambina onnipotente, tiranna, il cui piglio verrà riconosciuto e assimilato a quello che Elisa aveva sentito e visto provenire dalla madre.
Decidiamo, dunque, di proseguire essendo oramai consapevoli che ci può essere violenza anche laddove pensiamo di rivolgerci a tutta la persona (quando pensavamo di concludere), mentre in realtà parliamo solo a una parte, a un aspetto di essa, cioè quello più evoluto. Ora lei sembra disponibile a dispiegare l'intera organizzazione interna.

Constatiamo che mentre lei ha cominciato a "volersi bene e a trattarsi meglio" queste spinte verso l'amore di sé vengono costantemente mortificate, annullate.
Definiamo uno scenario di questo tipo: appena percepisce qualcosa che la stimola, sia sul piano fisico (es. percepire di avere un bel seno) sia su quello delle competenze intellettive (es. entusiasmarsi per un bel disegno) viene presa da un'angoscia incomprensibile che viene regolata con il solito sistema dell'auto-maltrattamento alimentare. In questa angoscia confusa comincia ad emergere un personaggio che la limita e sottolinea la sua inadeguatezza; esso la mortifica con accuse incredibili, per cui sente che è meglio non crescere.
Accanto a questo martellamento comincia a farsi strada il contenuto della fantasia secondo cui è l'altro con cui lei si confronta che si spaventerebbe a vedere che lei non è la bambina incapace che loro credono e che addirittura ha qualcosa più di loro. A quel punto, per mantenere la relazione, è lei che spinge l'altro a fare al posto suo: "fallo tu".
Questa parola, certamente sovradeterminata, le ricorda quando era bambina e come lei risolveva la condizione che vedeva la madre distruttiva e offensiva rispetto alle sue iniziative e ai suoi pensieri: "mamma fallo tu". Era l'epoca in cui come dice lei stessa: "Non c'erano idee, pensieri miei, c'era solo il non uscire da un percorso che lei stabiliva: orari, schemi...".
Comprendiamo come non solo la relazione esterna può continuare tranquilla ma anche le relazioni tra le rappresentazioni degli oggetti interni possono proseguire inalterate.

Mi sembra interessante sottolineare come questa fase della terapia, che comincia quando Elisa ha venti anni e dura circa un anno e mezzo con frequenza settimanale, sia suggellata dalla presenza di sogni che ne accompagnano e sintetizzano il percorso. La presenza dei sogni nella terapia di Elisa è già un segnale del suo predisporsi a utilizzare, insieme a qualcun altro, prodotti della sua mente, non completamente controllati. Io prenderò in considerazione i più significativi e solo per seguire il filo del mio discorso.

Il sogno che inaugura questa serie vede lei che porta da me un'amica che sta male (si scoprirà che l'amica in questione è una puntigliosa che la rimprovera e che esige molto da lei). Mentre l'amica parla dei suoi malesseri con me lei se ne sta in disparte a fare dei "disegni a mano libera".
Sappiamo l'importanza che per lei ha questa forma di attività creativa che per ora può essere praticata solo mentre io mi occupo dell'altra componente di lei. Il lavoro terapeutico coglie i frutti dell'avere favorito la messa in scena delle diverse componenti scisse del sé. D'altra parte lei stessa sembra dire che lei può portare avanti le sue aspirazioni (il disegno creativo a mano libera) solo se io mi occupo della sua componente mortificante.

In sogni successivi lei comincia a rispondere a tono alle accuse dell'amica. Questa situazione onirica che ha un suo corrispettivo nella realtà, dove lei tenta un riequilibrio dei rapporti con le persone e con le sue aspirazioni, la spaventa. Lo scollamento delle differenti componenti del Sé mette in evidenza l'angoscia di separazione e di ritorsione dell'oggetto, che potrebbe vivere come aggressivi nei suoi confronti i movimenti emancipativi della paziente. Queste angosce sono parzialmente alimentate da me che, in qualche modo trasmetto a Elisa una certa soddisfazione per le conquiste effettuate. E' in me che lei trova riflesso il piacere di fare cose che la entusiasmano. Smette di sognare e di disegnare, si riempie a più non posso, violentandosi per ciò che aveva visto in me di lei.
Aiutato da Elisa che mi ripete che io non ho "capito niente" ricominciamo a riflettere. Io ho "sessualizzato" (lasciando intravedere elementi di piacere) qualcosa che ancora non ha queste valenze, oppure Elisa non ha ancora gli strumenti per occuparsene.
Nel momento in cui si percepiscono le differenti componenti della scissione è importante per Elisa trovare all'esterno un personaggio, investito narcisisticamente, che si premuri di accogliere il tentativo di un nuovo equilibrio piuttosto che segnalare l'affetto piacere della conquista. Mi sono comportato come una madre-ambiente che toglie al bambino la possibilità di scoprire il piacere (attività che aiuta a decolpevolizzare il piacere); il rilevare l'esistenza di piacere (attività che mette in luce elementi di colpa) equivale a sottolineare la presenza di "disordine" e di "insubordinazione".
La vicenda si complica ulteriormente se pensiamo allo stretto rapporto che esisteva tra i due personaggi ora scissi. Era un rapporto fusionale, narcisistico dunque "omosessuale". Non è un caso che nel momento in cui si introduce l'elemento piacere, in un momento particolarmente delicato come lo scollamento di aspetti più autonomi del sé da aspetti più identificati con l'oggetto-ambiente, le angosce omosessuali-fusionali riemergono in tutta la loro dirompente forza. Lei stessa mi dice disperata: "io non posso guardare una donna pensando che è bella, oppure il suo vestito, come è truccata. Subito mi prende la paura di essere omosessuale". Se ammira una donna nella realtà, si discosta dall'immagine con cui è confusa, ne percepisce la fusione cioè l'attaccamento, che viene immediatamente sessualizzato (come difesa da angosce fusionali). Dunque Elisa ha provveduto a rendersi personaggio indesiderato nelle sue rotondità, ma con la differenza che ormai vuole che io capisca e l'aiuti.

Gradualmente ritroviamo una condizione di reciproca collaborazione che favorisce questo sogno: si trova con me in macchina per venire da me. Si mette a parlare ininterrottamente e io non rispondo, apparentemente perché lei stava occupando uno spazio che non era il suo.
Sente ancora il timore che io possa essere interessato ad altri discorsi rispetto a quelli che può permettersi (per esempio il fatto di stare in macchina con me) e soprattutto dimostra per la prima volta la sua avidità che nella realtà non può concedersi.

A questo periodo segue una seduta molto importante che testimonia il lavoro che Elisa sta facendo una volta ridotte le forze mortificanti che abbiamo visto all'opera, anche in riferimento al lavoro terapeutico.
Sogno: un coro di persone, tra cui forse intravede la madre, la rimprovera di maltrattare il suo ragazzo che, comunque, resta lì. Lei, sorprendendo tutti, dice: "gli darò pure qualche cosa se resta lì".
E' la prima volta che una voce lascia intendere uno scambio e il fatto di avere dentro cose da dare. E' come se lei si chiedesse: "Come faccio a fronteggiare, competere, mostrare se io non credo che in me ci sono cose buone ?" Ecco l'importanza del sogno. Quando si trova confrontata a una fonte di eccitazione, che smuove qualcosa dentro di lei, provvede a distruggere qualcosa che spesso ha a che fare con il suo corpo.

Il sogno introduce un altro elemento: se lei si stacca dall'oggetto a cui è appiccicata e da cui è controllata, cioè da quell'organizzazione mortificante-mortificato, avviene l'incontro con il terzo, cioè intravede l'ombra dell'oggetto-terzo. Fino a quel momento i ragazzi erano dei satelliti che sicuramente le assicuravano una certa stabilità anche in rapporto alle sue ansie omosessuali, ma niente di più. Con loro lei non poteva concedersi di scambiare nulla, anche con loro ad un certo punto valeva la frase: "fallo tu".

Un sogno interessante apre nuove prospettive: lei invita qualcuno a casa senza preavvertire la madre. La madre si arrabbia e lei reagisce dicendole delle cose mai dette: "non ne posso più delle tue regole, non puoi condizionare tutta la mia vita." La madre reagisce piangendo. A questo punto tutti gli altri vanno a sciare con il padre, mentre lei viene punita.
Nel differenziarsi da sua madre interna lei resta ferita, menomata, cosa che le impedisce di affrontare il mondo con il padre. Insieme arriviamo a chiarire i seguenti punti:
. A staccarsi dalla madre si sente menomata e per riacquistare l'antica immagine di sé e riconquistare l'amore della madre deve fare cose perfette.
. Se percepisce una qualche difficoltà al raggiungimento di un tale progetto, si "taglia le gambe" e ritorna bambina sottomessa.
. Il "tagliarsi le gambe", il punirsi è una modalità attiva. L'automutilazione riproduce la violenza del distacco dalla madre piangente, mortificata per il fatto di scoprire una figlia differenziata.
. Infine si intuisce un altro elemento. Come può permettersi di andare a sciare con il padre-altro una bambina costretta a tagliarsi le gambe ? L'eventuale incontro con l'altro (ragazzi-satelliti) oltre che essere menomato dovrà essere improntato costantemente alla ricostruzione narcisistica di un Sé menomato e dunque a pretendere di avere a che fare non con un uomo-altro ma con un oggetto-sé che è chiamato ad assolvere a quella funzione riparativa.

Nel tentativo di dare un significato corporeo a ciò che viene perso nella dinamica del "tagliarsi le gambe" mi è venuto da parlare di cose che vengono abortite. Questa parola ha risvegliato in Elisa un ricordo mai emerso in terapia e cioè un reale aborto di un maschietto che la madre ha avuto prima di lei e che fa di lei da una parte un possedimento ancora più prezioso per la madre ma dall'altra un costante confronto con l'assente idealizzato: da bambina veniva chiamata il "fantasmino" per la sua capacità di farsi assente.

Il lavoro di Elisa continua ed è ora pronta a percepire e tollerare accenni di pulsionalità. In un sogno si accorge che c'è una ragazza che spasima dietro il suo ragazzo. Questa ha delle speranze perché, diversamente da lei, mostra interesse e passione. Lei con tono sprezzante e autoritario le dice di non provarci nemmeno perché quello è sotto il suo controllo.
Nel mettersi in relazione con l'oggetto, l'aspetto pulsionale (ricerca della soddisfazione) e quello narcisistico autoritario (impossessamento) si contendono il dominio della persona. Naturalmente sembra prevalere quest'ultimo ma almeno l'altro fa la sua comparsa.
"A pensare di perdere il controllo io divento matta.... Quando vedevo mia madre in quelle condizioni era terribile, era meglio fare come diceva lei".
Questo personaggio prepotente ed autoritario è sempre accanto a lei, lei può affrontare tutte le situazioni, anche le più rischiose sapendo di averlo accanto, ma ora si rende conto di quanto esso sia violento e mortificante per gli aspetti più creativi del Sé.


Dal "fallo tu" a "questo è mio".

Decide che non vuole più instaurare una modalità relazionale che si basa sul dialogo tra una bambina e un adulto. Lei si accorge di cambiare addirittura voce e si accorge come questo dialogo avvenga dentro di lei. Sa di essere lei ad impostare il dialogo e che l'altro si conforma a quanto lei dimostra. Ma sa anche che non riesce a dire "basta". Ora sappiamo che questo dialogo esterno è lo specchio di un dialogo interno: tra un aspetto che vorrebbe mostrarsi, esibirsi e la trasformazione che questo subisce (aborto) verso il polo esterno. Esso viene svalutato, mortificato, infantilizzato da un personaggio che sembra inoffensivo ma che si rivela essere un despota che riesce a fare dell'altro ciò che vuole. Rinunciare a questo aspetto non è facile, ma sembra essere l'unica possibilità se si vuole che emergano aspetti realmente più deboli, fragili, che si espongono a rischi (fallimenti, delusioni....).
Si accorge che su tutti i versanti si sta concedendo qualcosa di più. Mi sembra interessante come in questo periodo il "fallo tu" stia lasciando il passo a "questo è mio" nel senso di un'appropriazione del proprio pensiero rispetto a consentire che l'altro si appropri di qualcosa che era nata anche in lei (cosa che poi alimentava le sue fantasie compensatorie).

Vorrei terminare raccontando un ultimo sogno che sintetizza in maniera mirabile quanto sta accadendo dentro e fuori Elisa.
In questo sogno avviene che segreti inconfessabili ormai possono uscire dalla "cripta" ed essere oggetto di comunicazione. Anzitutto i personaggi: c'è lei, c'è suo padre che ha sempre trattato con una certa indifferenza le aspirazioni artistiche della figlia pur essendo egli un esperto design; c'è l'uomo che dirige lo studio che lei frequenta senza potersi permettere di essere pagata. L'uomo è un'autorità nel campo del design artistico. Infine c'è la madre.
Nel sogno il padre fa di tutto per comunicare a R. (l'uomo in questione) il fatto che la figlia lavorando nel suo studio merita di essere pagata, Elisa non vuole che il padre dica quelle cose. R. risponde che lui la tiene nello studio non tanto per il suo valore ma perché gli piace e vorrebbe da lei qualcos'altro. Questa è una risposta rivoluzionaria. Le due comunicazioni, quella del padre e quella dell'uomo, suscitano in Elisa reazioni rabbiose e preoccupate: "non dovevano dirlo, ora mi manda via !"
Nelle associazioni Elisa è convinta di essere mandata via dallo studio, viste le sue pretese (o quelle del padre). Dopo un certo lavoro su questo sogno arriviamo alla consapevolezza che, se è vero che l'uomo e suo padre si scambiano comunicazioni segrete (il suo meritarsi un compenso, un valere e il suo essere desiderabile come donna), è alla madre che queste comunicazioni sono dirette. Esse servono a segnalarle che la figlia è riconosciuta nelle sue competenze indipendentemente da lei. E' a lei che Elisa cerca di comunicare i segreti contenuti nella componente del Sé che ha dovuto sottrarre alla componente del Sé identificata con la madre per paura di essere mandata via. Penso che Elisa abbia anche colto da me dei segnali che hanno a che fare con l'idea che lei possa-sappia, ma anche dei segnali che sta diventando una donna piacevole.

Sappiamo che può arrivare una ritorsione da parte di quel personaggio che nel sogno sembra in disparte e non partecipe, ma Elisa prende ugualmente la decisione di riavvicinarsi con interesse ai suoi studi lasciati "in sospeso" e dice: "Stanno accadendo più cose in questi giorni che in cinque anni".
Dopo qualche mese decide di fermarsi con la terapia, vuole continuare da sola, lei stessa mi anticipa che in questa decisione pensa che non c'entri nessun "genitore" esterno o interno che sia. Mi propone incontri periodici.
In uno di questi incontri mi racconta del suo stare male ad affrontare "finalmente da sola" la realtà. La madre, che si rende conto del malessere di Elisa, si agita e immediatamente dimostra di volerla soccorrere, ma è freddata da Elisa: " mamma, non voglio che tu soffra al posto mio, lasciami vivere la mia sofferenza !". Appropriarsi della propria sofferenza è un'esperienza nuova per Elisa come quella dell'appropriarsi delle sue competenze e del suo corpo. Colgo il segnale !

Uscire dalla coattiva condizione di riprodurre nelle differenti realtà-esperienze la dinamica mortificante-mortificato di una bambina che spera ed ha aspettative, e di una figura materna che ne impedisce la realizzazione e di una figura paterna irraggiungibile anche per la conseguente amputazione di parti di sé creative e genitalizzanti è stato il percorso terapeutico con Elisa. Con lei è stato importante ricostruire le tappe principali dell'organizzazione interna facendo ampio riferimento alla sua storia, ciò è stato possibile nella seconda parte della terapia, quando alcune condizioni preliminari erano state sufficientemente consolidate.
Questa mia riflessione non vuole essere un tentativo di rovesciare o bypassare tutto il lavoro di elaborazione delle responsabilità personali nella dinamica depressiva della mortificazione. Penso, al contrario, che questa possa avvenire in maniera più soddisfacente - come ha sostenuto Freud - se la ri-costruzione (storica all'interno della relazione terapeutica) permette di cogliere i "trasferimenti" di realtà esterna nel mondo interno (e che questi trasferimenti dati e presi, sono anche segno di amore).
Senza una tale operazione di riconoscimento e risoluzione l'oggetto arcaico che già impregna il soggetto, continuerà a parassitare e violentare il/la giovane per il resto della vita. Ritengo utile, quando è possibile, fare emergere i differenti personaggi di una tale organizzazione, configurazione, anche per consentire al giovane paziente di prendere maggiore consapevolezza di come egli possa diventare "psichicamente responsabile della sua realtà psichica" (H. Faimberg 1994).


Bibliografia

Aliprandi M.T.- Pelanda E.- Senise T. (1990) : "Psicoterapia breve d'Individuazione" Feltrinelli, Milano.

Faimberg H. (1994), La solution narcissique au conflit oedipien, Bulletin du Groupe Toulousin de la SPP, 1994, n. 6

Freud S. (1922), L'Io e l'Es, OSF vol. IX, Ed. Boringhieri

Green A. (1999), Processus pubertaires et hallucination négative, Adolescence, tome 17, 1, 9-33.

Mancuso F. (1996), Propos sur la confusion des langues entre adulte et enfant, Bulletin de l'ACIRP, 3, 43-51

Mancuso F. (1999), Un bambino continua... ad essere picchiato. Psiche, voll. 1-2, 170-179, Borla, Roma.

Mancuso F. (2000), Riflessioni sulla psicoterapia breve d'individuazione con genitori, Quaderno dell'Istituto di Psicoterapia del Bambino e dell'Adolescente, n. 11, 33-55.

Resta D. (1984), L'evoluzione del narcisismo, Gli Argonauti n. 23, 261-294,

Senise T. (1992), Mortificazione e riparazione del Sé, Quaderno dell'Istituto di Psicoterapia del Bambino e dell'Adolescente, n.12.


* Il presente lavoro verrà pubblicato sul "Quaderno dell'Istituto di Psicoterapia del Bambino e dell'Adolescente" n.13, Gennaio-Giugno 2001

** Psicoanalista della SPI, Socio e Docente dell'Istituto di Psicoterapia del Bambino e dell'Adolescente, Milano.


Francesco Mancuso
e-mail mancusofrancesco@hotmail.com





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