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Anno I - N° 1 - Gennaio 2001

Figure della violenza in adolescenza




Le figure della violenza.
Introduzione teorica e stato del problema

Arnaldo Novelletto *



La scelta della violenza come tema del IV Convegno Nazionale di Psicoterapia dell’Adolescenza ha una doppia origine. La prima, teorico-tecnica, prosegue il discorso iniziato con il convegno precedente, sui disturbi di personalità, dal momento che per alcuni di quei disturbi la violenza del comportamento è uno sbocco obbligato.
La seconda, di ordine pratico, sta invece nel cambiamento cui la violenza è andata incontro negli anni recenti, anche nel nostro paese. Gli omicidi anche efferati, la violenza per bande, gli stupri di gruppo sono le punte di un iceberg la cui parte sommersa è la maggiore inclinazione degli adolescenti alla violenza agìta. E’ quest’ultima che ci chiama, nei confronti degli adolescenti, sia nel pubblico che nel privato, a ruoli di consulenza, di valutazione diagnostica e prognostica, di trattamento (e quindi di collaborazione con le professioni contigue) ma anche d’insegnamento e di supervisione.
Nel titolo del convegno odierno il termine “figure” sta ad indicare la valenza psicopatologica e in particolare le funzioni fantasmatiche, rappresentazionali ed elaborative dell’adolescente violento, piuttosto che la sintomatologia comportamentale. E’ parso quindi opportuno al comitato scientifico del convegno che, prima di addentrarci nello specifico dei vari contributi congressuali, facessimo insieme una breve riflessione sullo stato dell’arte circa la violenza in generale e i suoi rapporti con l’aggressività in particolare.
Nel 1920 la seconda topica freudiana fece intravvedere il miraggio di trovare, al di là dell’etichetta “istinto di morte”, il bandolo di una metapsicologia dell’istinto aggressivo altrettanto ricca di sviluppi di quella che Freud aveva saputo costruire intorno alla libido. Però 50 anni più tardi, quando l’IPA dedicò all’aggressività il suo 27° Congresso (Vienna, 1971), analisti insigni quali Rangell, Sandler, Segal, Loewenstein, Heimann, Valenstein ecc. dovettero ammettere che questo sviluppo metapsicologico non c’era stato. La natura e l’origine dell’impulso violento - fu la stessa Anna Freud (1972) a dichiararlo nella sua relazione di chiusura - restavano avvolti nell’oscurità. Non era possibile applicare all’aggressività quelle proprietà (l’origine, lo scopo, l’oggetto) che da Freud in poi definivano un istinto. In quello stesso congresso gli sforzi di chi, come Gaddini, cercava di colmare il vuoto teorico raccogliendo il filo del ragionamento nello stesso punto in cui l’aveva lasciato Freud, caddero nel silenzio. Gaddini cercava di restituire all’aggressività uno statuto d’istinto o addirittura di “energia” nel quadro dell’organizzazione psichica elementare del neonato, ma da lì alle vicissitudini di componenti così profonde dell’apparato psichico come quelle delle fasi successive della vita, il cammino era lungo. Di adolescenza, come sappiamo, non si parlava ancora.
Insomma la costruzione dell’edificio metapsicologico freudiano non riusciva a trovare un posto convincente per l’aggressività. I contributi descrittivi, a cominciare da quelli kleiniani, erano numerosissimi, ma il passaggio dalla descrizione e dall’interpretazione dei fatti clinici alla spiegazione delle cause sembrava precluso.
Il fatto è che l’approccio ai problemi psicopatologici lungo il filo conduttore della pulsionalità aveva fatto il suo tempo. Dagli anni ’70 in poi, infatti, l’attenzione si è andata spostando sulla relazione, sul gioco interattivo tra soggetto e oggetto. Una ricerca psicoanalitica intesa come ricostruzione concettuale di un funzionamento psichico umano di ordine pulsionale (che voleva essere universale, in quanto avulso dalle influenze ambientali) rischiava di essere tacciata di solipsismo. Essa appariva sempre meno conciliabile con l’immagine di un analista teso sopra tutto a cogliere il coinvolgimento con il paziente nell’hic et nunc della dialettica di transfert/controtransfert.
L’empasse in cui s’imbatteva la collocazione teorica dell’aggressività è a mio parere uno dei motivi principali della perplessità che il mondo della cultura ha manifestato negli ultimi venti anni nei confronti della psicoanalisi. Il ruolo che la psicoanalisi aveva sognato di svolgere nella cultura, cioè di ponte dialettico fra natura e ambiente, tra mente e corpo, tra biologia e filosofia, tra individuo e società, tra scienza e religione, tra pace e guerra, sembrava ora dover subire almeno una certa dilazione, rispetto alle aspettative di partenza.
Era quindi inevitabile che lo studio della violenza cercasse di aprirsi altre strade. Dopo i fatti del ’68 e l’assassinio dei Kennedy furono le scienze sociali, la criminologia, l’igiene mentale, la pedagogia a rivolgere una maggiore attenzione alla violenza e quindi anche alla violenza in adolescenza.
Nel frattempo gli psicoanalisti si accorgevano di coesistere in un condominio ormai babelico, suddivisi in tanti gruppi quanti erano i “modelli” che i teoreti più alacri lasciavano sul terreno. Di terreno molti cominciavano però a rimpiangerne uno comune, quel common ground al quale fu infatti dedicato dall’IPA un altro congresso, nel 1989. Senza grandi risultati, purtroppo. I sacrifici teorici che si sarebbero dovuti affrontare per raggiungere insieme agli altri questo terreno comune, sembravano a ciascun gruppo troppo lesivi della propria identità per poterli accettare. Rincresce doverlo ammettere, tanto più se si considera che intere parti del patrimonio dottrinale lasciato da Freud continuano ad essere pienamente valide sul piano teorico e preziose su quello clinico. Il fatto è che per colmare i dissensi sarebbe necessaria una disponibilità a dubitare e a riconvertirsi che non può essere ristretta al mondo interno individuale ma assume connotati intergruppali.
Per quanto riguarda la violenza in particolare, la contrapposizione fra il modello pulsionale e quello relazionale non è a tutt’oggi risolta.
Il modello pulsionale resta legato al carattere innato della pulsione distruttiva e alla primarietà dell’attività fantasmatica del soggetto, rispetto alla funzione dialettica dell’oggetto reale. Il modello relazionale invece privilegia il ruolo dell’oggetto reale, dell’altro, e considera l’aggressività come corollario di relazioni insoddisfacenti (per attaccamento fallito, per frustrazione dei bisogni primari o per violenza dell’ambiente).
Troppo a lungo nell’istituzione psicoanalitica questi due modelli sono stati vissuti alla stregua di due opposti sistemi di idee, basati su premesse fra loro incompatibili, piuttosto che come ipotesi scientificamente elaborabili. I sostenitori del modello relazionale, da Ferenczi a Balint, da Fairbairn a Bowlby, da Winnicott a Kohut, hanno dovuto accontentarsi per tutta la loro vita di un ruolo di opposizione minoritaria all’interno di un’istituzione governata dall’intento di far collimare i dati clinici agli assunti teorici originari. Con il risultato che oggi ci si trova di fronte alla pulsione di morte come ad un nuovo tabù: una verità indiscutibile, pur senza prova di evidenza (Borgogno e Viola, 1994, pag. 469).
La spinta innovativa implicita nel modello relazionale ha però reso possibile il collegamento tra la ricerca psicoanalitica e la ricerca biologica etologica e psicobiologica. Negli ultimi venti anni la teoria cosiddetta delle relazioni oggettuali e quella dell’attaccamento, il trauma della perdita e i fenomeni di sintonizzazione soggetto/oggetto hanno trovato conferma in molti lavori sperimentali (Harlow e Mears (1979), Kraemer (1985), Coe e coll. (1985), Panskepp (1984) sulla separazione infantile nei primati e di Ainsworth e coll. (1978), Hofer (1984) Capitanio e coll. (1985), Field (1983, 1985), Stern (1985) sulla relazione madre-bambino). Grazie a tutti questi apporti l’ipotesi che il comportamento violento sia strettamente legato all’esperienza di perdita, intesa sia come deprivazione che come trauma, ha assunto ben altro peso rispetto al generico concetto hartmanniano dell’aggressività come reazione alla frustrazione. E’ grazie agli apporti suddetti che Bowlby poté cominciare a connettere la violenza con la qualità dell’attaccamento.
S’intravvide così la possibilità di affermare che la violenza presente in certe famiglie è la versione distorta ed esasperata di un comportamento potenzialmente funzionale come quello dell’attaccamento e del prendersi cura dell’altro. Il libro della Zulueta (1993), recentemente tradotto in italiano, fornisce una buona rassegna bibliografica di questo filone di ricerca, che può trovare a mio avviso pieno accoglimento nel dottrinale psicoanalitico, senza dover andarselo a cercare nel cognitivismo.
Un altro indirizzo, altrettanto fecondo, mi sembra quello dello sviluppo del Sé, cioè della soggettivazione, aperto da Winnicott e di cui R. Cahn (1998) e Ph. Jeammet (1997) sono oggi i più autorevoli esponenti per quanto riguarda l’adolescenza.
Accanto a questi progressi, tuttavia, la riluttanza ad uscire da una rigida appartenenza di scuola mantiene ampie zone d’incomunicabilità. Mal si comprende, ad esempio, perché si stenti a collegare il concetto di empatia, così centrale nell’opera di Kohut, con quello di sintonizzazione che, grazie a Hofer (1984) ha assunto il significato di regolatore biologico delle interazioni sociali precoci. Oppure il perché la rabbia narcisistica kohutiana, matrice di impulsi distruttivi spesso terribili, non sia stata intesa anche come fallimento dei meccanismi comportamentali che regolano l’omeostasi della relazione di attaccamento, nel senso di Bowlby (1988 p. 27).
E, ancora, perché la funzione dell’investimento narcisistico del Sé, comune alla teoria di Winnicott e a quella di Kohut, non abbia facilitato una maggiore integrazione fra di esse.
Per concludere la parte più generale di questo sommario prologo, direi comunque che, malgrado la scarsa accessibilità che il problema “violenza” ha finora dimostrato all’indagine psicologica, le vie di approccio sono ancora numerose e la base d’impianto, rappresentata dalla formazione psicoanalitica, ancora valida e feconda.

* * *

Ora nell’intento di facilitare la comunicazione fra colleghi, vorrei proporre qualche piccola chiarificazione, solo apparentemente terminologica.
Etimologicamente il termine aggressività deriva dal latino aggredior (aggredisco) che - come ingredior, progredior, regredior - è un composto di gradior (vado, cammino, mi avvicino, entro in contatto ecc.). Evidente dunque la componente relazionale, di moto verso un oggetto, che l’aggressività contiene (Heimann, 1972). Ricordando Fairbairn potremmo dire che anche l’aggressività, come la libido, è object seeking, contribuisce alla creazione di legami.
Il termine distruttività, sebbene spesso usato come sinonimo di aggressività, ha un significato ben diverso, quello di disfare ciò che era stato costruito, accumulando strato su strato (struere). Ciò comporta evidentemente l’annullamento dell’oggetto, e di conseguenza anche del Sé, che dell’oggetto si nutre. Si pensi alla rabbia narcisistica (Kohut, 1971), che non solo non è object seeking, ma va anche al di là, in quanto danneggia il Sé fino ad allora costruito, forse in eguale misura di quanto non danneggi l’oggetto. La profonda differenza dei due termini ci raccomanda la necessità di distinguere l’aggressività costruttiva da quella distruttiva. E’ perciò che nel corso del tempo vari analisti hanno distinto l’aggressività semplice da quella trasformata o maligna, dalla pseudoaggressività e dalla proto-aggressività.
Il termine violenza è un derivato di vis (forza) e quindi di violare, e pertanto esprime un concetto fenomenologico, non psicoanalitico (Jeammet, 1997). Tuttavia essa allude non soltanto alla qualità (impeto e veemenza) dell’impulso, ma anche al rapporto con l’oggetto, perché comporta sopraffazione (per disparità di potere o di numero) e comporta danno. La violenza sta a sottolineare i risultati distruttivi dell’aggressività. L’aggressività è tanto più distruttiva quanto più l’investimento narcisistico prevale su quello oggettuale. La dimensione soggettiva è determinante perché un atto aggressivo possa essere vissuto come violento, sia dalla vittima che dall’aggressore. Su questo piano l’oggetto della violenza è sempre vilipeso, deumanizzato, o addirittura ignorato. E’ ciò che Jeammet definisce “desoggettivazione”. Il riconoscimento della violenza da parte di chi ne è autore, la consapevolezza di aver varcato un livello diverso da quello semplicemente aggressivo, è un passaggio senza il quale l’approccio psicoterapeutico è assolutamente illusorio.
Quanto agli affetti che possono accompagnare la violenza, altre distinzioni sono quanto mai opportune. L’ira o la collera sono stati d’animo accessuali e transitori, che sembrano indici di un tipo di relazione che mira in primo luogo alla soddisfazione del bisogno. L’odio e forse ancora di più il rancore, presuppone invece una permanenza dell’affetto nella mente, che potrebbe essere riaccostata a quella che, nella successione dello sviluppo libidico, definiamo costanza dell’oggetto (Sandler, citato da Lussier, 1972). Tuttavia, ammoniva Anna Freud (1972 pag. 165), bisogna tener presente che, a differenza della libido, “l’aggressività rimane anaclitica più a lungo e più profondamente, cioè più strettamente legata alle esperienze di piacere/dolore e di soddisfazione/frustrazione”.
La terminologia non è accademia, ma premessa per una condotta psicoanalitica corretta. Altrimenti, usando i termini di cui sopra come se fossero equivalenti, ci può accadere, quando veniamo a contatto con la violenza del paziente, di rispondere prevalentemente ad un nostro sentimento controtransferale di generico orrore per la violenza, che ci rende più difficile non solo affrontare i problemi del trattamento, ma anche approdare a livelli teorici o di ricerca più razionali e sopra tutto, più condivisi.
Per arrivare finalmente alla violenza adolescente, partirò da uno dei più bei lavori di Winnicott, e cioè L’uso di un oggetto (1969). Penso che esso possa tuttora aprire nuovi orizzonti all’approfondimento della violenza adolescente, però a condizione di apportargli qualche aggiornamento.
Ricordo la tesi di Winnicott: nella relazione fra soggetto e oggetto bisogna distinguere il momento in cui il soggetto entra in relazione con l’oggetto dal momento successivo, quello in cui diventa capace di usare l’oggetto. Perché il passaggio evolutivo si svolga normalmente è necessaria fra i due momenti una tappa intermedia, cioè che il soggetto distrugga l’immagine interna dell’oggetto che si era andata fin lì inconsciamente costruendo in fantasia mediante i noti meccanismi proiettivi. Solo allora potrà subentrare la percezione dell’oggetto reale esterno, giacché un oggetto per essere usato deve essere reale. Un oggetto immaginario non lo può essere. “La distruzione - dice Winnicott - diventa lo sfondo inconscio per l’amore di un oggetto reale, cioè un oggetto che stia fuori del controllo onnipotente del soggetto”. Il passaggio dall’uno all’altro contribuisce alla costanza dell’oggetto, condizione indispensabile all’acquisizione dell’esame di realtà che spesso in adolescenza non è ancora pienamente raggiunta (a questo proposito vedi Ladame e Catipovic, 1997, p. 229-245).
Riepilogando, i momenti successivi del processo sono i seguenti: 1) Il soggetto si mette in relazione con l’oggetto. 2) L’oggetto va incontro alla possibilità di essere trovato, invece che collocato dal soggetto nel mondo. 3) Il soggetto distrugge l’oggetto. 4) L’oggetto esterno sopravvive alla distruzione. 5) Il soggetto può usare l’oggetto.
La prima postilla da aggiungere a questo paradigma è ancora terminologica, visto che Winnicott usa il termine distruzione. Egli stesso se ne era evidentemente posto il problema, poiché nel suo testo (pag. 713) dichiara di non poter accettare che il primo impulso nella relazione del soggetto con l’oggetto, oggettivamente percepito, sia distruttiva.
E’ dunque chiaro che la distruzione che intende Winnicott è un processo psichico inconscio che serve a scoprire e conoscere l’oggetto, e non un processo diretto ad aggredire l’oggetto nella realtà. Ma non solo. Infatti Winnicott precisa che “la parola distruzione è resa necessaria non dall’impulso del bambino a distruggere, ma dalla tendenza dell’oggetto a non sopravvivere”. L’attenzione che egli accordava al modo con cui i genitori rispondono allo sviluppo psichico dei figli è nota e da noi pienamente condivisa. Direi però che egli usava il termine distruzione anche allo scopo di sottolineare il carattere brutale, radicale dei meccanismi di difesa ai quali il bambino ricorre per scavalcare l’oggetto interno primitivo, e cioè negazione, scissione, trasformazione nel contrario, isolamento, ecc.
La seconda postilla è di più vasta portata, perché consiste nel verificare la validità del paradigma, pur cambiandone il protagonista. Non più il lattante in rapporto con il seno materno, come nel testo di Winnicott, ma l’adolescente di fronte alla propria maturità sessuale e ai suoi oggetti contemporanei. Ci ricolleghiamo così al filone teorico dello sviluppo del Sé, della soggettivazione. E’ chiaro che ciò equivale a toccare implicitamente il tema, a me particolarmente caro, delle differenze tra la psicoterapia del bambino e quella dell’adolescente.
Mettendo l’adolescente al posto del bambino, ci troviamo davanti a un soggetto che è sospinto sulla via della crescita dalla precarietà interiore dovuta a quello sviluppo puberale che egli può percepire in varia misura come “subìto”, come una violenza che proviene dall’interno del corpo, e che può aggiungersi ad abusi eventualmente già subìti dall’esterno.
La crisi dell’assetto narcisistico raggiunto durante la latenza, la spinta all’autonomia, la curiosità di identificazioni nuove alimentano fin dalla prima adolescenza una notevole fame oggettuale. Sappiamo che questa fame prenderà due diverse direzioni: l’una verso oggetti-Sé (che andranno ad alimentare la ristrutturazione narcisistica normale); l’altra verso oggetti sessuali (che renderanno possibile la continuazione dello sviluppo libidico).
Il mettersi in relazione con questi nuovi oggetti (mi ricollego a Winnicott) non sarà però esente da un senso di minaccia dovuto alle angosce edipiche e pregenitali che sono il residuo delle vicissitudini infantili (e in particolare di quelle violente: perdite, abusi, seduzioni ecc.). Il contatto con l’oggetto nuovo si colora quindi per l’adolescente di quel conflitto apparentemente paradossale che potremmo sintetizzare così: “Ciò di cui sento il bisogno è proprio ciò che minaccia la mia autonomia”. La minaccia è tanto maggiore quanto maggiore è il bisogno, cioè quanto più l’adolescente tenta di avvicinarsi all’uso dell’oggetto. Infatti il vissuto soggettivo di minaccia all’identità scatta sempre in occasione di brusche variazioni della relazione con l’oggetto, sia nel senso dell’allontanamento (separazione, abbandono) che in quello, opposto, dell’avvicinamento eccessivo (seduzione, molestie, intrusione). L’attenzione analitica va dunque alle modificazioni del regime degli investimenti narcisistico/oggettuali e alla funzione di autocontrollo dell’Io.
Nel corso di ogni processo traumatico l’Io si sente in balia di una forza esogena o endogena (ma ugualmente a lui estranea) che lo soverchia, lo trascina, lo passivizza comportando, proprio a causa dell’uso ancora molto incerto dell’oggetto da parte dell’adolescente, una inevitabile connotazione sessuale. Il solo modo di sottrarsi a questa sopraffazione è l’espulsione dell’eccitazione disorganizzante addosso a qualche elemento della realtà esterna sul quale il soggetto cercherà di esercitare quel controllo onnipotente che non riesce ad esercitare dentro di sé, sulle proprie angosce d’impotenza. E’ evidente la vicinanza tra la dinamica psichica della violenza e la psicopatologia del trauma, da noi già affrontata fin dal primo Convegno Nazionale di Psicoterapia dell’Adolescenza (Novelletto, 1995). Il soggetto violento cerca di sbarazzarsi del processo traumatico, che non riesce ad elaborare, come di una bomba dalla miccia già accesa, che va immediatamente lanciata, proiettata su un nemico designato (o magari soltanto sul primo malcapitato), prima che scoppi addosso al soggetto stesso.
Ho usato la parola conflitto a proposito dell’empasse che l’adolescente vive tra bisogno e minaccia. Non è del tutto inesatto, perché la violenza può comparire, magari solo episodicamente e in forme più sottili, anche in personalità per altri versi abbastanza strutturate, cioè capaci di conflittualizzare, di immaginare alternative. Però è indubbio che la violenza è tanto più diffusa e incontenibile quanto più esprime la regressione a (o la permanenza in) uno stato di organizzazione e di funzionamento mentale altamente primitivi, uno stato in cui il conflitto è ancora di là da venire.
Le vie di questo sbocco nell’apparato psichico sono, come sappiamo, molteplici e, a volte, contemporanee: oltre a quella più clamorosa, che sfocia nel comportamento, c’è quella emotiva dell’iperinvestimento dell’oggetto, della passione amorosa, ma anche quella dell’attacco al corpo, sia suicidario che psicosomatico e, sopra tutto, quella dell’attacco alla mente: attacco della rappresentazione mentale, dell’associazione, della metafora, con tutti gli effetti psicopatologici che sappiamo. In qualunque modo la violenza si esprima, ma sopra tutto quando prende la via dell’agire, la sua impronta inconfondibile (che per noi è anche una chiave di lettura) è l’eccesso. Eccesso d’urgenza, di costrizione soggettiva, d’intensità. Dall’aggressività alla distruttività alla violenza si percepisce un crescendo che al suo acme diventa assordante.
Gli effetti destrutturanti di tale regressione sono gravi e talvolta definitivi, almeno in certe aree della mente. Le istanze (desiderio, oggetto, Io) finiscono per confondersi. La dimensione economica, cioè la quantità dell’eccesso, finisce per tradursi in scadimento della qualità dell’organizzazione psichica. La prevalenza dell’agire, rispetto alla rappresentazione mentale delle spinte pulsionali, privilegia l’esteriorizzazione e quindi l’uso dello spazio piuttosto che quello del tempo.
Ma torniamo a Winnicott. L’adolescente violento non riesce a superare la tappa della distruzione interiore degli oggetti infantili, per poterne investire di nuovi. E’ bloccato nella fase di ricerca della relazione, non riesce ad arrivare all’uso dell’oggetto.
La distruzione che egli fantastica deborda nella realtà, si confonde con una distruzione dell’oggetto reale, fosse anche il proprio stesso corpo, come soluzione della minaccia. La distruzione può essere fisica o relazionale, ma in entrambi i casi è vissuta dal soggetto come alienazione dai suoi oggetti d’investimento, vecchi o nuovi che siano. Al loro posto subentra una identità negativa fatta di onnipotenza, autosufficienza, negazione della dipendenza, cioè un’identità che non ha nessun bisogno del rapporto con l’altro.
Quando poi la violenza agìta comincia a ripetersi, diventa una carriera, l’oggetto esterno non è più riconosciuto nella sua differenza e nella sua complementarietà, ma investito soltanto in funzione del sostegno narcisistico del Sé. Esso assume paradossalmente una funzione opposta a quella dell’oggetto normale perché funge da garanzia contro la minaccia dell’interiorizzazione psichica e della perdita. E’ la fonte di quel rifornimento narcisistico minimo, necessario ad evitare la frammentazione definitiva del Sé.
Perciò l’uscita dall’incubo non può, non deve essere da noi immaginata come un intervento terapeutico solo riparativo, circoscritto. E’ necessario tendere sempre ad un intervento trasformativo, diretto a tutte le componenti di una psicopatologia così vasta, in coerenza con la plurideterminazione dei fattori in gioco (Kalogerakis, 1998).
Non mi addentrerò nella questione della terapia, che sarà specifico oggetto dei contributi che seguiranno. Per concludere lasciatemi solo esprimere il mio personale auspicio che i vari tipi d’intervento possibili (psicoanalisi propriamente detta e psicoterapia individuale, psicodramma e psicoterapia di gruppo, terapia dei genitori, eventuali farmacoterapie, sostegno educativo e scolastico, attività fisiche ed espressive) sia nel contesto istituzionale che in quello famigliare, non siano posti in competizione e tanto meno in contrapposizione. Condizione indispensabile è che l’équipe, spesso numerosa, sia in grado di realizzare al proprio interno, grazie al contributo dello stesso psicoterapeuta, una lettura gruppale dell’esperienza terapeutica in corso. Solo così l’équipe potrà integrare, nella comprensione e negli interventi specifici dei suoi membri, le vicende degli investimenti che il soggetto farà sui vari operatori e potrà seguire nel tempo l’evoluzione delle dinamiche transferali e controtransferali, in modo da evitare che quelle proprie del paziente si trasformino proiettivamente in altrettante dinamiche degli operatori o addirittura dell’intera équipe.


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* Arnaldo Novelletto
E-mail arpad.nov@tiscalinet.it




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