Lintervento penale con i minori che commettono reati costituisce una forma di trattamento, poiché non si limita ad accertare i fatti, applicando al comportamento trasgressivo le relative sanzioni, ma si pone obiettivi di cambiamento delladolescente sottoposto al procedimento penale.
La maggior parte degli interventi rivolti ai minori che commettono reati avviene al di fuori del carcere, in regime di libertà, con misure alternative alla detenzione. Tra questi, la messa alla prova è il più importante strumento previsto dal codice di procedura penale minorile italiano (Scardaccione, Merlini, 1996). La messa alla prova è centrata sullidea di responsabilizzare ladolescente che commette reati, in una prospettiva per cui la responsabilità non è più la condizione necessaria della pena, ma un punto darrivo del percorso penale (De Leo, 1998). Questa finalità generale si traduce in obiettivi più specifici: limpegno ad astenersi dal commettere ulteriori reati; laccettazione della dimensione dellimpegno nella scuola o nel lavoro; la disponibilità ad attività di tempo libero organizzate; lapertura alla dimensione di solidarietà sociale, in attività socialmente utili, e alla riconciliazione con la vittima; laccettazione come interlocutore di unautorità extrafamiliare, con funzioni daiuto e di controllo per la realizzazione del programma concordato.
In che modo lintervento psicologico può aiutare ladolescente ad acquisire questa capacità di assumersi responsabilità, riducendo la necessità del controllo esterno e della limitazione della sua libertà?
La responsabilità è un concetto legato al ruolo e ai legami sociali ed è oggetto di studio della psicologia sociale, più che della psicopatologia o della psicologia delletà evolutiva (Zamperini, 1998). Nella definizione di responsabilità sono contenuti diversi nuclei semantici. Responsabilità come (a) obbligo (impegno) derivante dalla consapevolezza di dover rispondere degli effetti delle proprie azioni; (b) obbligo di risarcire un danno (capacità riparativa); (c) garanzia, assicurazione, un modo di dare salvaguardia, di mettere al sicuro (protezione) (cfr. Codignola, 2000).
Nonostante la precoce fondazione emotiva (il senso di colpa si manifesta già prima del secondo anno di vita), e lo sviluppo dellimpegno scolastico in età di latenza, è in adolescenza che la responsabilità come capacità di rispondere - cioè di assumere impegni, di prendersi cura e di riparare - ha un particolare incremento, in relazione ai processi di separazione e allacquisizione dautonomia, con una progressiva competenza, riconosciuta socialmente sia attraverso limputabilità dei minori, a partire dai quattordici anni, sia con una serie di progressive attribuzioni di responsabilità dai quattordici ai diciotto anni (dal lavoro alla patente di guida).
Lo sviluppo puberale, in quanto implica lassunzione di responsabilità del proprio sé sessuale, in rapporto alle conseguenze delle proprie azioni, in primo luogo nel concepimento, è il fondamento naturale allacquisizione sociale di responsabilità: dalla responsabilità dei propri impulsi sessuali e aggressivi, al matrimonio come espressione sociale dellassunzione del corrispondente un ruolo affettivo, fino alla messa in atto del ruolo genitoriale. Questa concezione rappresenta la responsabilità essenzialmente come facoltà legata allideale dellIo, che costituisce il rappresentante interno della capacità di assumersi responsabilità (come idea di sé legata a sistemi di valori sociali), più che come conseguenza dello sviluppo dellIo (coscienza come consapevolezza e controllo), o elaborazione della capacità riparativa di colpe, a seguito di comportamenti distruttivi.
Considerando il comportamento antisociale come uno specifico disturbo dello sviluppo della responsabilità in adolescenza, è possibile chiedersi se lintervento psicoterapeutico, con i minori che commettono reati, possa sintonizzarsi con lobiettivo socio-educativo dello sviluppo della responsabilità.
Nel DSM-IV lirresponsabilità è uno degli indici per il disturbo antisociale di personalità, misurato in termini comportamentali nellincapacità di assumere e mantenere ruoli lavorativi. Le altre caratteristiche del disturbo antisociale non fanno esplicitamente riferimento alla responsabilità, ma alla mancanza dempatia, alla falsità, alla mancanza di senso di colpa e di controllo dellaggressività e alla scarsa cura della sicurezza propria o degli altri. Una definizione più strutturale del disturbo antisociale di personalità (come psicopatia: Hare, Hart, Harpur, 1991) lo interpreta come estremo di un continuum che dal disturbo narcisistico (con grandiosità, tendenza al dominio, mancanza di relazione empatica), passa attraverso laggressività egosintonica ad orientamento paranoide della sindrome narcisistica maligna.
Secondo Kernberg (1999) il disturbo antisociale di personalità costituisce la forma più grave di narcisismo patologico, sostanzialmente non trattabile con un intervento psicoterapeutico, legato allassoluta mancanza dinteriorizzazione di un oggetto idealizzato. Daltra parte, il disturbo antisociale (definito con i criteri del DSM-IV) tende ad una remissione spontanea con la crescita. Lassunzione di ruoli sociali avrebbe quindi di per sé una funzione di contenimento della tendenza antisociale (Paris, 1996).
Recenti riflessioni psicoanalitiche sui disturbi della condotta in adolescenza, hanno posto laccento sul deficit di una funzione riflessiva (significativamente correlata ad un modello dattaccamento disorganizzato) nei bambini con disturbo della condotta e negli adolescenti con tendenza antisociale, che trova origine nel mancato rispecchiamento da parte dei genitori. Laccento è posto sulla competenza metacognitiva come funzione centrale nellelaborazione dellimpulsività aggressiva (la capacità di avere unidea di sé e delle proprie reazioni e sentimenti come rappresentazione, Fonagy, 1999). In linea con questa prospettiva la psicoterapia dadolescenti con gravi disturbi di personalità cerca di attivare questa funzione riflessiva come focus del trattamento dei problemi di comportamento, anche in affiancamento allintervento penale (Bleiberg, 1999).
La funzione riflessiva e lattribuzione ruoli sociali costituiscono due diversi tipi di rispecchiamento (più autoriflessiva, simbolica e individuale la prima, e eteroriflessiva, agita e sociale la seconda), attraverso le quali si raggiunge una regolazione del comportamento antisociale. Ritroviamo questi percorsi nei diversi interventi del sistema penale: il supporto socioeducativo allinserimento sociale da una parte, e il supporto psicoterapeutico dallaltra.
La messa alla prova propone, invece, una ritualità in cui i comportamenti del minore valgono anche per la loro dimensione psicologica, in quanto significanti della capacità di cambiamento e dassunzione di responsabilità, che è riconosciuta socialmente attraverso un giudizio pubblico. La risposta del sistema penale, in questo caso, non consiste dunque esclusivamente nelloccupare i minori in qualche attività, né nel renderli più consapevoli della complessità del proprio mondo interno, ma in un rispecchiamento psicosociale, ad alto valore rituale, cioè simbolico, che assume unimportante funzione psicologica, come contributo alla costruzione di unidea di sé e del proprio essere sociale, che può affiancarsi o vicariare il mancato rispecchiamento genitoriale, che produce un disturbo narcisistico (a diversi livelli di gravità) come risultato di una mancanza dattaccamento sicuro.
Vorrei illustrare attraverso due brevi esempi questa funzione di rispecchiamento nei confronti delladolescente che commette reati, come intervento utile per lattivazione di un processo mentale di responsabilizzazione.
Pablo è un ragazzo adottato. I servizi sociali hanno accompagnato il suo difficile inserimento in famiglia per anni, mettendo in atto ogni possibile intervento (dal sostegno alla coppia, alla psicoterapia individuale, per un disturbo della condotta, fino a ripetuti e fallimentari inserimenti in comunità). Con lingresso in adolescenza commette ripetuti reati, prevalentemente rapine a coetanei, spesso a carattere violento. Dopo un periodo di carcere, sempre allinterno del percorso penale, è tentato un nuovo inserimento in comunità, dalla quale fugge tuttavia ben presto. Si ritenta allora, con ben scarse speranze e vincendo lopposizione dei genitori, un reinserimento a casa, attivando un progetto davviamento al lavoro. Gli operatori (lo psicologo, lassistente sociale e leducatore) restano tuttavia sorpresi da un cambiamento inatteso delle relazioni familiari. I genitori, nello stesso tempo in cui dichiaravano la disponibilità ad accoglierlo come figlio, rimandavano a lui e agli operatori sociali limmagine di un bambino impossibile da amare: il nucleo dellattaccamento, il prendersi cura di qualcuno come oggetto damore in cui ci si riconosce, non si era mai realizzato. Nel loro progetto adottivo, in realtà, i genitori erano stati mossi soprattutto dal desiderio di una continuità nella loro attività lavorativa (un lavoro a domicilio su cui ruotava il valore della vita personale e di coppia). E stato, quindi, solo nel momento in cui il figlio si è presentato a casa con la tuta da lavoro, che è scattato un tardivo imprinting, come riconoscimento del Sé del figlio in rapporto al Sé dei genitori. Lacquisizione di un ruolo socio-affettivo, in questo caso, ha svolto una funzione unificante del sé, andando a tamponare la mancanza originaria di rispecchiamento.
In questo caso lintervento penale ha contribuito a riattivare un rispecchiamento del sé sociale nellarea delle relazioni primarie; in altri casi è lo stesso sistema penale che direttamente svolge questa funzione di riconoscimento sociale. E possibile, inoltre, ritrovare uno stesso tipo di funzione allinterno del lavoro clinico.
Guglielmo è un ragazzo che frequenta il liceo classico, con problemi narcisistici, ma non antisociali. E stato bocciato in prima, per scarso rendimento, ma anche per problemi di comportamento non gravi (frequente distrazione e continuo disturbo, al traino di compagni già bocciati). La madre, che si occupa della sua educazione, teme la sua dipendenza dalle cattive compagnie. Ricorda come, fin da quando era piccolo, lei stessa lo avesse cresciuto restando in continuo contatto con unamica, che aveva avuto il figlio nello stesso periodo, e che lei considerava più competente come madre. Guglielmo era quindi cresciuto con questo doppio continuamente sullo sfondo. Il padre, avvocato, estrae i principi educativi soprattutto dalle sue conoscenze professionali sulla legge e sulle trasgressioni, estrapolandole e trasferendole alla relazione educativa quotidiana con il figlio, in modo poco spontaneo. Per diversi motivi, quindi, anche in questo caso, pur in una situazione di buone capacità di simbolizzazione e di cura attenta del figlio, la relazione dattaccamento tra genitori e figli era narcisisticamente disturbata. Un giorno Guglielmo aggredisce furiosamente un amico, picchiandolo, in un attacco improvviso dira, di cui si pente immediatamente, accompagnandolo tra laltro lui stesso al pronto soccorso. In seguito, afferma di non sapere come possa essergli successo e di essere profondamente dispiaciuto. Racconta che si tratta del suo migliore amico, un ragazzo più basso e più infantile di lui, spesso provocatore (con il quale ha lo stesso rapporto, rovesciato, che tende ad avere con ragazzi più forti). Anche in quelloccasione, lamico lo aveva provocato più volte con un gioco, cercando di mettergli paura con mosse improvvise: mostrando davere paura, avrebbe dato allaltro il diritto di colpirlo con un pugno. Dopo lennesima provocazione, Guglielmo era partito con una scarica di pugni violenta e incontrollata, inattesa per il clima fino a quel punto giocoso. Guglielmo si rende conto della gravità del suo gesto e lo attribuisce spontaneamente alla propria impulsività, con una comprensione tuttavia che appare falsa, come se aderisse ad unimmagine precostituita di sé.
Pronto a rispondere legalmente delle proprie azioni, se ne assume pienamente la responsabilità, come conseguenza involontaria (pur invocando lattenuante della provocazione); riconosce la colpa di non essersi controllato, ma non lintenzione di fare del male allamico (cfr. i livelli di responsabilità di Heider, 1958). Ad una piena responsabilità manca, tuttavia, lintegrazione della rabbia nellidea di sé.
Nel colloquio, riconosciamo il senso del gioco provocatorio: lamico gli ricorda che sotto la sua apparente forza e maturità si nasconde un sé pauroso, smascherando in modo intollerabile la sua grandiosità, con la rabbia che ne consegue. E solo nel momento in cui riconosco non la sua debolezza, ma la legittimità della difesa dellimmagine virile, che Guglielmo arriva ad integrare limpulso aggressivo come parte di sé, soggettivando la responsabilità della sua azione: è lui, con la sua rabbia, ad aver picchiato, e non unimpersonale impulsività ad aver agito in lui. Invece di attaccare la sua compiacenza (per esempio, interpretandola come difesa dal timore che io possa colludere manipolatoriamente con il desiderio di normalizzazione dei suoi genitori, paranoicizzando la relazione con me), il processo di responsabilizzazione si attiva rispecchiando e legittimando un Sé virile, di cui larroganza narcisistica è il surrogato.
Nellintervento psicosociale e nella relazione psicoterapeutica è possibile aiutare ladolescente a costruire un ideale, che svolgendo una funzione di riequilibrio narcisistico, laiuti ad assumersi la responsabilità sociale del suo comportamento.
In adolescenza lo stesso rispecchiamento fornito nelle relazioni primarie dallattaccamento, che costituisce la base del senso di sé, è ricercato nella relazione con lambiente extrafamiliare come riconoscimento sociale dellidentità di ruolo sessuale (spesso i ragazzi che commettono reati lo cercano nella relazione con il gruppo dei pari, più che in quella con gli adulti).
Un intervento psicoterapeutico di supporto al processo di responsabilizzazione - in particolare nellaffiancamento allintervento psicosocioeducativo dei servizi della giustizia - può quindi utilmente avere come focus, non tanto lincentivazione di una capacità riflessiva (come funzione fondamentale per lintegrazione della soggettività, obiettivo che può essere invece alla base di interventi più prolungati), quanto laiuto alla costruzione di un ideale, unidea di sé come uomo o donna, nella propria dimensione sociale.
BIBLIOGRAFIA
Bleiberg, E. (1999) Attachment, Reflective Function and the Treatment of Adolescents with Severe Personality Disorders, V Congresso Internazionale dellInternational Society for Adolescent Psychiatry ISAP, Aix-en-Provence.
Codignola F. (2000) Lo sviluppo del senso di responsabilità nel lavoro di gruppo con assistenti sociali di adolescenti. Lavoro presentato al Convegno degli Osservatori di psicoanalisi del bambino e delladolescente della Società psicoanalitica italiana, Padova.
De Leo G. (1998) Psicologia della responsabilità. Laterza, Bari.
Fonagy P. (1999) Attachment in infancy and the problem of conduct disorders in adolescence: the role of reflective function, V Congresso Internazionale dellInternational Society for Adolescent Psychiatry ISAP, Aix-en-Provence.
Hare R., Hart S., Harpur T. (1991) Psychopathy and the DSM-IV criteria for antisocial personality disorder. Journal of Abnormal Psychology, 100, pp. 520-508.
Heider F. (1958) Psicologia delle relazioni interpersonali. Il Mulino, Bologna, 1972.
Kernberg O. Psicodinamica e gestione psicoterapeutica dei transfert paranoide, psicopatico e narcisistico. Adolescenza, 10, 1999.
Kernberg O.F., Clarkin J.F. (1992) La valutazione della terapia dei disturbi di personalità, Psicoterapia e scienze umane, 3, 1994, pp. 41-62
Paris J. (1996) Contesto sociale e disturbi di personalità. Raffaello Cortina ed., Milano, 1997.
Sameroff A.J. Haith M.M. (eds.) (1996) The five to seven year shift: the age of reason and responsibility Univ. Chicago Press
Scardaccione G., Merlini F. (1996) Minori, famiglia giustizia. Lesperienza della messa alla prova nel processo penale minorile. Edizioni Unicopli, Milano.
Zamperini A. (1998) Psicologia sociale della responsabilità. Utet, Torino.
* Centro Minotauro, Milano
E- mail: minotauro@tin.it
|