Premessa
L'immagine del "confezionare insieme un vestito su misura" mi è sembrata
particolarmente appropriata per designare l'ispirazione che orienta l'attuale
riflessione attorno alla specificità della tecnica nel trattamento psicoterapeutico
psicoanalitico degli adolescenti. In un precedente lavoro (Carau B. e coll.,
1996), abbiamo suggerito la nozione di flessibilità per designare un simile
approccio, incline all'adozione di una tecnica che sia quanto più possibile
aderente alla situazione terapeutica e che sia radicata nel riconoscimento dell'ambiguità
psichica di questa fase dello sviluppo, quando l'adolescente, né bambino
né adulto, vive in uno stato di continua fluttuazione tra livelli esperienziali
multipli e difficilmente integrabili tra loro, alla ricerca di un'identità
personale e sessuale messa a dura prova dal processo puberale. In questo scritto
vorrei soffermarmi su alcuni aspetti della specificità tecnica nel trattamento
degli adolescenti, ed in particolare degli adolescenti borderline o psicotici,
per i quali si pone la questione della trattabilità o, quanto meno, secondo
alcuni Autori, della praticabilità di un approccio classico in uno studio
privato, non istituzionalizzato. E sebbene sia convinta dell'efficace apporto
di interventi paralleli ed integrati, quali la psicoterapia della coppia genitoriale
o la partecipazione del ragazzo ad un gruppo-supporto all'interno di un'istituzione,
tuttavia le riflessioni che propongo restano circoscritte alla stanza d'analisi,
al laboratorio in cui con pazienza si prepara il "filtro della strega". Mi
pare opportuno precisare che la rinuncia ad adottare un modello ideale precostituito
non deve essere intesa come l'abbandono o l'alterazione del concetto di setting
e delle sue funzioni, dal momento che "il setting non ammette ambiguità"
(Bleger, 1966), essendo il dispositivo essenziale per la costituzione e per lo
svolgimento del processo psicoanalitico, come pure della psicoterapia psicoanalitica.
Il concetto di "setting" deriva dalla situazione analitica ed al contempo
lo struttura, vale a dire avvia e mantiene la sua processualità, quale
dispositivo unitario e globale. I singoli elementi, presi individualmente, significano
poco o nulla, perché il setting non rappresenta la sommatoria dei singoli
elementi, è qualcosa di altro e di più. La variazione di un singolo
elemento induce un cambiamento della relazione, con tutte le implicazioni a livello
transferale/controtransferale e del processo analitico. Un ulteriore aspetto
di particolare rilevanza, per dirla con le parole di A. Green (1990), consiste
nel fatto che "il setting è prima di tutto il luogo del transfert. La riflessione
su queste due entità è indissociabile". E' nello spazio terapeutico,
nel setting, che acquistano senso le deviazioni, le alterazioni o gli "aggiustamenti"
che, di volta in volta, ci consentono di sperimentare, condividere e promuovere
l'avvio o il ripristino dei processi di elaborazione degli elementi, appartenenti
ad aree indecidibili ed inconsce. Il setting rimanda al transfert, ma il
transfert ripiega sul setting, in una circolarità ed in una polisemia di
significati che attengono alla relazione con gli oggetti edipici, con gli oggetti
originari, come pure alla relazione con lo psicoterapeuta come oggetto interno
ed esterno. Sulla scia delle ipotesi ricavate dall'esperienza teorico-clinica,
è presumibile che l'adolescente borderline o psicotico nel suo percorso
evolutivo non abbia potuto fruire o, lo abbia potuto fare solo parzialmente ed
in maniera precaria, delle funzioni genitoriali strutturanti l'organizzazione
psichica. Dunque non ci possiamo sottrarre alla necessità di mettere in
gioco il nostro funzionamento psichico, attraversando insieme quelle aree paludose
e magmatiche, che i cambiamenti puberali hanno reso per l'adolescente ancor più
impraticabili. In tal senso le considerazioni attorno al trattamento psicoterapeutico
psicoanalitico con gli adolescenti borderline o psicotici inducono a procedere
tenendo conto dell'articolazione di due tipi di condizioni/precondizioni della
simbolizzazione: l'Edipo e le interazioni precoci, sui quali s'incardinano le
funzioni del setting e attraverso le quali si costruisce la relazione terapeutica.
Se, come afferma Roussillon (1995), l'organizzazione edipica si configura come
la struttura dell'intelligibilità, come il criterio per pensare l'assenza
e la differenza, per pensare il gioco delle identificazioni coniugato con la differenza
dei sessi e delle generazioni, il setting è lo scenario che consente di
metterle in scena, offrendo un contesto utile a rappresentare la conflittualità
della psiche. Là dove le cure materne, la loro qualità, costituiscono
quell'esperienza primordiale da cui deriva la possibilità o meno di accedere
ad una dimensione soggettiva, ad una dimensione "transizionale", capace di dare
senso, di dare valore all'esistenza umana. Sono dell'avviso che, nell'esperienza
clinica, entrambe queste dimensioni si articolino e si coniughino costantemente
con i concetti di setting e di transfert. Nel trattamento con gli adolescenti
borderline o psicotici tali stratificazioni di livelli psichici risultano così
indifferenziate e confuse da richiedere, appunto, un notevole sforzo da parte
del terapeuta, che non può non tener conto della realtà esperienziale
del ragazzo, del ruolo e della costellazione dei fantasmi e delle collusioni con
le figure genitoriali e di come tutto ciò graviti attorno all'andamento
del processo terapeutico. Tali considerazioni scaturiscono dalle riflessioni
suscitatemi dal lavoro clinico con un adolescente che con l'ingresso nella pubertà
ha sofferto di un breakdown evolutivo. In questo trattamento ho potuto constatare
un parallelo andamento tra il processo di costruzione e di consolidamento del
setting e l'incipiente prendere forma dello uno spazio mentale dell'adolescente.
Avvio del trattamento e costruzione del setting Andrea è un
adolescente di 17 anni, in trattamento psicoterapeutico trisettimanale vis à
vis da quattro anni. I cambiamenti puberali hanno implicato in lui un accrescimento
della statura di circa 20 cm. ed un altrettanto significativo aumento ponderale.
E' unicogenito di una coppia piuttosto giovane, il cui funzionamento è
fortemente caratterizzato da modalità simbiotico-fusionali, che coinvolgono
il ragazzo anche nella realtà attuale in relazioni affettive confusive.
All'epoca della consultazione Andrea presentava un imponente ritiro narcisistico
ed un disinvestimento delle relazioni, viveva nel suo mondo popolato da oggetti
che lo "rendevano nervoso" e impossibile da comunicare se non attraverso forme
bizzarre e manovre autistiche. Le sue funzioni cognitive permanevano sufficientemente
integre (era capace di rispondere in maniera adeguata alle domande che gli venivano
rivolte), tuttavia non ne poteva fare alcun uso e aveva abbandonato la scuola,
nonostante l'anno precedente avesse seguito con discreti risultati. Esistevano
pregresse difficoltà, quali ad esempio un'enuresi primaria. Gli specialisti
consultati si erano limitati a prescrivere alcune norme comportamentali. Persistevano
intense angosce notturne che avevano afflitto Andrea sin da bambino, e che venivano
placate accogliendolo nel letto dei genitori. In seduta Andrea tendeva ad
utilizzare manovre stereotipate per scaricare la tensione interna. Esse consistevano
nella manipolazione del naso, delle mascelle e nella contrazione delle mani. Mi
sembravano orientate dal bisogno di percepire l'esistenza di parti dure al di
sotto dei tessuti morbidi e veicolavano la ricerca dei confini e della consistenza
del proprio Sé, per quanto ancorata ad un funzionamento psico-sensoriale
(E. Gaddini, 1974). Al contempo, avevo l'impressione che rappresentassero fantasie
masturbatorie relative al corpo sessuato, "fantasie nel corpo". I comportamenti
di chiusura e di ritiro narcisistico, di annullamento dell'altro, mi evocavano
a livello controtransferale un sentimento di non esistenza, di vuoto psichico.
Tali stati si alternavano ad agiti nei confronti dell'oggetto, a tentativi di
assalire l'altro, annunciati da uno sguardo fugace ed intenso, che veicolava un
sentimento di vitalità, altrimenti celato, connesso ad una pulsionalità
che non poteva essere imbrigliata. Tutto ciò sembrava essere innescato
dall'eccitazione proveniente dal riconoscimento percettivo della differenza sessuale,
foriera di intense angosce. Con questi comportamenti, che a tutta prima potevano
essere intesi come una forma di transfert erotico, il ragazzo attualizzava piuttosto
il vissuto di una relazione primaria erotizzata, dove il contatto con l'oggetto
aveva la funzione di annullare la separatezza e le differenze. Accanto a
ciò erano presenti spunti deliranti, i quali sovente evocavano la presenza
di un terzo con cui era in relazione, ma ciò era possibile solo escludendomi.
Sembrava aver bisogno di evocare un terzo, capace di eccitarlo ed al contempo
minacciarlo: pensai che potesse trattarsi del tentativo di accedere ad una rappresentazione
del suo corpo sessuato, che faticava ad integrare. E, contemporaneamente, che
egli stesse evocando l'immagine della figura paterna, ossia che mettesse in scena
le sue vicende identificatorie ed edipiche, nella versione completa, attiva e
passiva, che l'intensità del legame fusionale con l'oggetto materno aveva
ostruito ed impedito. Queste modalità comunicative, in quel momento,
costituivano l'unica forma per esprimere le vicissitudini che transitavano la
sua mente, sprovvista di quelle funzioni e di quei meccanismi propri a contenere
ed a gestire l'intensa portata delle pulsioni, o per essere più precisi,
del marasma pulsionale che lo assaliva e dell'angoscia ad esso associata. Più
tardi presero piede altre modalità comunicative. In questo senso,
il setting ha rivestito il ruolo di "holding", di barriera protettiva, evocando
quelle funzioni delle cure materne che contengono il Vero Sé potenziale,
tenendolo al riparo da un eccessivo afflusso di eccitazione, il cui effetto è
la frammentazione, l'andare in pezzi. Nel contempo, con il divieto ad agire gli
impulsi sull'oggetto, il setting si è richiamato ad una funzione paterna,
che istituzionalizza la triangolarità edipica e protegge dal rischio di
precipitare nel magma incestuoso. Andrea iniziò ad interrompere le
sedute quando avvertiva l'incontenibilità e l'inarginabilità dei
suoi impulsi, che io avevo rinviato ad elementi aggressivi che non sembravano
essere mai stati arginati. Ciò permise l'avvio di una progressiva introiezione
dei confini e dei limiti necessari ad assicurare la tutela e la salvaguardia del
processo terapeutico. Confini e limiti che venivano a definire anche il suo mondo
interno, i suoi moti pulsionali, e la differenza tra sé e l'altro. Ciò
permetteva l'apertura di uno spiraglio di comprensione delle sue esperienze primarie.
Dal momento che non poteva utilizzare il setting come ambiente facilitante, Andrea
sembrava tentare di preservarlo intatto, da qualche parte dentro di sé,
proprio attraverso il non-uso. L'ipotesi che si è venuta, poco a poco,
configurando nella mia mente è che nella relazione transferale, con l'interruzione
delle sedute, il ragazzo tentasse di porsi al riparo dal rischio di precipitare
in una seduzione materna, mortifera e castrante, rievocata dalla proiezione sul
setting delle proprie spinte fusionali e disorganizzanti. Contemporaneamente egli
metteva in scena, in forma attiva, elementi connessi al traumatico sentimento
di vuoto e di mancanza dell'oggetto. Se, come affermano alcuni Autori, l'originario
materno va messo in conto "alle condizioni di possibilità interna della
simbolizzazione e della soggettivazione"; con i suoi agiti il ragazzo ripeteva
nel transfert la mancata fruizione delle funzioni di rêverie e di holding,
carenza che aveva ostruito ed occluso l'accesso ad una dimensione di pensabilità
e di rappresentabilità delle violente sensazioni e dei vissuti somatici.
Questi lo assalivano, implodevano dentro di lui ed egli tentava di liberarsene,
evacuandoli attraverso gli agiti. Il progressivo riconoscimento degli elementi
pulsionali ed affettivi, accolti nella mente della terapeuta, ha costituito la
proposta di un limite, di una barriera con funzione "paraeccitatoria", che offriva
quelle funzioni originarie ed "originanti" di cui è depositaria la coppia
genitoriale. Queste funzioni materne mi sembrano ben descritte da Roussillon
che propone la metafora freudiana del "biologico" materno inerente l'intervento
dell'oggetto esterno che "cambia l'acqua del protista per proteggerlo dall'autodistruzione
a causa dei propri rifiuti. Qui siamo di fronte ad una metafora delle cure materne
e della loro funzione di appoggio della "purificazione dell'Io". Il cambiamento
dell'acqua, la purificazione dell'Io suppone che una esteriorità si costituisca
e "sopravviva" ai resti-rifiuti; se essa sopravvive al "resto-rifiuto" può
allora essere investita e scoperta come esteriorità...... la sua funzione
potrà essere introiettata e lo psichismo potrà allora disporre,
al proprio interno, di una parte capace di sopravvivere e di trattare i resti
rifiuti dell'altro....Così si metabolizza la pulsione di morte attraverso
un gioco di esternalizzazione, di purificazione - grazie ad un transito esterno
attraverso l'oggetto - poi di reinternalizzazione secondaria." (R. Roussillon,
1995, p. 142). Ai primordi dell'esperienza l'impulso sessuale è appoggiato
al bisogno di sopravvivenza e favorito dall'intervento dell'oggetto esterno. La
tolleranza della sua intensa pressione verso il soddisfacimento immediato e la
capacità di differirlo, sono stati resi possibili anche attraverso l'elaborazione
dei vissuti controtransferali. La mia tensione interna, connessa in parte alla
necessità di preservare il setting ma anche alla elaborazione di una fantasia
relativa ad un senso di minaccia, di un incombente pericolo, riproponeva ciò
che egli stesso sperimentava. Tali vissuti, difficilmente rappresentabili o così
sfuocati da porsi ai limiti dell'immaginabile, "sembrano riprodurre, con l'espressione
di movimenti interiori, certe traversie dei moti pulsionali, provocando così
sensazioni di involuzione e di evoluzione. Un lavoro intenso porta queste sensazioni
alla coscienza dell'analista, prima che egli possa trasformarle in sequenze di
parole, grazie alla verbalizzazione che servirà a farne partecipe il paziente
al momento giusto......... Il disturbo affettivo si trasforma nella soddisfazione
di pervenire ad una spiegazione coerente, che gioca il ruolo di una costruzione
teorica, nel senso che Freud dà a questa parola quando parla delle "teorie
sessuali" dei bambini. Poco importa per il momento che questa teoria sia vera
o falsa... ciò che conta è l'essere riusciti a dare forma a qualcosa
che non l'aveva." (A.Green, 1990, p. 74-75) Il setting è divenuto,
quindi, lo spazio depositario delle angosce somatiche e psichiche evocate dalla
relazione affettiva, uno spazio in cui ha preso forma l' "idioma personale" dell'adolescente,
un idioma che solo attraversando questi stati ha potuto divenire un'esperienza
condivisa.
Dalla pulsione al linguaggio Andrea iniziò
ad usare nelle sedute una lavagna su cui scriveva infinite volte il suo nome accanto
a quello dei suoi genitori, ciò che designava con la parola "cruciverba".
Reputai che egli esprimesse in tal modo l'intreccio emozionale che avvertiva nella
relazione con loro. Nel secondo anno di terapia fu sottoposto ad un intervento
chirurgico che implicò un lungo periodo di assenza dalle sedute, un distacco
dall'ambiente scolastico ed una lunga permanenza a casa per la convalescenza.
L'intervento aveva interessato la zona sacro-coccigea e richiese numerose medicazioni
che si protrassero per diversi mesi. Egli sembrava limitarsi a subire tali intrusioni,
senza poter esprimere alcuna sofferenza. Assistetti ad una recrudescenza delle
manovre stereotipate e, come elemento nuovo, notai che ora le associava a versi
e rumori, a cui mi sforzavo di assegnare un senso, come per costruire un nesso
tra le espressioni del ragazzo e le emozioni che avvertivo. "St! St! St!
Dottoressa St!" Oppure dopo una lunga pausa: "Mmmm Mmmm, Dottoressa Mmmmm".
"Andrea, mi stai dicendo qualcosa, capisco che è importante, mi fai sentire
che c'è qualcosa dentro di te che è come un comando a cui è
difficile sottrarsi." Quando il ragazzo emetteva questi suoni, la cui qualità
emotiva era dolorosa e penetrante, sollecitava in me un senso di dolore, non soltanto
psichico. Cercai di mettere in parole gli affetti indicibili che mi faceva percepire,
riferendoli al senso di malessere e di disagio che provava e che mi suggerivano
si trovasse a sperimentare una condizione di impotenza, di "hilflosigkeit". Tradurre
in parole tali stati psichici era un'impresa ardua, perché voleva dire
mettermi in contatto con una qualità dell' affetto davvero lacerante, che
rinviava ad una disperata richiesta di aiuto e di protezione da una terribile
sensazione di intrusione e ad angosce di violazione dell'intimità psicofisica.
Altre volte questo verso assumeva una diversa tonalità, sembrava una
sorta di ammiccamento, di complice assenso, di scoperta di qualcosa che, fino
a quel momento, aveva dovuto restare segreto. A poco a poco, il ragazzo prese
a riferire un proprio significato ai versi che emetteva : "Sono immagini, quadri",
mi disse un giorno. Con molta fatica e dopo diverse sedute aggiunse che vedeva
persone tristi. Gli parlai dell'ambiente che lo circondava, dei genitori che soffrivano
così come anche lui stava soffrendo. Andrea prese a dischiudere il
guscio nel quale si era isolato per ripararsi e per proteggersi dall'angoscia
emergente dal sentirsi in rapporto con l'altro. Iniziò a parlare della
scuola, (che aveva ripreso a frequentare)del suo motorino, degli amici che incontrava
al paese. I suoi discorsi erano brevi, piuttosto confusi, segnalavano la difficoltà
di concentrare la sua attenzione su di un argomento, seppur intercalato dai suoi
versi. "Il pensiero mi sfugge", mi disse. Non solo, pensai, anche la
confusione prodotta dall'affollarsi dei pensieri ostruiva la possibilità
di indirizzare i suoi investimenti, bloccato com'era dal timore di perdere i suoi
pensieri e le sue emozioni. Per arginare tale sensazione di perdita tornava ad
isolarsi, e riemergendo mi chiedeva di essere riportato al punto dell'interruzione,
per riprendere il filo del suo discorso. Poteva utilizzarmi come l'ambiente facilitante,
garante del sentimento di continuità dell'esistere. In seguito, iniziò
a domandarmi al termine di ogni seduta che gliela ricapitolassi. Voleva che i
frammenti di esperienza del legame che aveva sperimentato venissero riuniti insieme.
Questo mi suggerì l'ipotesi che egli esprimesse il bisogno di esercitare
un controllo sulla mente dell'altro, e che stesse ricercando un modello di funzionamento
mentale tale da consentirgli di integrare il pensiero con gli affetti e con le
emozioni, il Sé con l'oggetto, la presenza con l'assenza. In altre parole,
mi chiamava a reinvestire le tracce dell'esperienza emotiva condivisa ed a tradurla
in parole, conferendo ad essa un investimento più ampio, così da
favorire il ripristino delle funzioni dell'Io. Al termine di una seduta,
trascorsa in silenzio, interrotto solo da sporadici versi, Andrea prese a canticchiare
il motivo di una canzone di E. Ramazzotti "Un'altra te dove la trovo io...."
Alcune sedute dopo, arrivò e suonò il campanello della porta senza
interruzione, come era solito fare, ma quella volta provai una sensazione di disagio,
che mi spinse ad interrogarmi sulle ragioni di tale cambiamento. Riconobbi che
tale sensazione traduceva l'ansia di essere intrusa al momento di entrare in relazione
con l'altro. Una volta dentro la stanza, gli domandai: "Forse pensavi che non
ti sentissi o che non ci fossi, ti chiedevi qualcosa come nella canzone ?"
"No, lo so che la trovo sempre." Disse, quindi emise dei versi. "Vuoi farmi
sentire qualcosa che ti è difficile esprimere". "Lo dico? Posso pensare?"
Si fermò a riflettere a lungo, massaggiandosi le nocche delle mani e toccandosi
il naso e poi prese a parlare. "Ieri sera ero stanco, avevo giocato a scuola,
no? a pallavolo....(pausa) ..... prima con i compagni, poi con i compagni e la
professoressa, poi tutti..... insieme, (maschi e femmine) ... stavo sdraiato sul
divano con i piedi su mamma, mi sentivo confuso, ero stanco ..... era tardi.....
hanno detto al tg 5 no? .... (si fermò entrando in ansia, fissò
lo sguardo con un'espressione di sorpresa) che un padre.... no, ero stanco, mi
sentivo confuso...... era stato ammazzato e il figlio......... era scappato per
vendicarsi... Niente, niente......Poi è arrivato papà, ha posato
la borsa, ero confuso, ho pensato che poteva capitare qualcosa......(versi)......
di brutto ..... a mamma e a papà...." Concluse emettendo dei versi.
Lo invitai a proseguire nel suo discorso, rassicurandolo attorno al fatto che
parlare o pensare non è fare. Si vergognava, provò a parlare e si
bloccò, riprese poi con fatica: "niente, niente", mi chiese di aiutarlo
a mettere in parole, due parole "brutte" che accompagnò con i versi, queste
erano "ladro e agguato". Gli domandai perché le considerasse brutte.
Disse di non sapere cosa volesse dire "agguato". Glielo spiegai definendolo come
un attacco improvviso a qualcuno che non può difendersi e intanto pensavo
all'emergenza pulsionale ed alla sensazione di impotenza e di annichilimento che
tante volte avevo attraversato. Però inclusi anche le mie sensazioni ed
impressioni che avevano preceduto la seduta, e scelsi di porre in evidenza non
solo la fantasia aggressiva diretta alla coppia genitoriale, ma anche la profonda
angoscia che l'assaliva al pensiero di separarsi dai genitori, che implicava la
messa in gioco della sua aggressività, e delle sue spinte libidiche.
Il pensiero di separarsi, di individuarsi, era vissuto dal ragazzo come un attacco
distruttivo alla coppia, a cui poteva far seguito una ritorsione violenta. La
sua sfida adolescenziale si connotava in chiave persecutoria e, soprattutto, aveva
una qualità concreta, tale da ostacolare la rappresentazione. Per la qualità
concreta del pensiero, l'oggetto non sembrava poter sopravvivere all'attacco.
Si isolò, si distrasse, mi chiese di ripetere ciò che avevo detto,
poi con molta fatica, percepibile anche dai profondi respiri che precedettero
il suo discorso disse: "Ho pensato che papà dà un bacio alla dottoressa....."
Mi rivolse uno sguardo ansioso e preoccupato. Emise dei versi e poi espresse fantasie
sessuali di transfert che non venivano più sperimentate come una minaccia
alla relazione terapeutica, perché aveva cominciato ad internalizzare il
setting come spazio potenziale, spazio dell'illusione e dell'intimità,
ma anche dell'individuazione tra sé e l'oggetto. "Ti vorrei dare una raffica
di baci", disse e poi restò in silenzio. Fece dei versi che anticipavano
l'aver pensato qualcosa di "brutto" e da cui avrebbe voluto purificarsi, attraverso
la manovra onnipotente. Riuscì a mettere in parole il suo pensiero ed affermò:
"Un giorno chiudendomi l'accappatoio mi sono sentito eccitato,.......... volevo
lasciarlo fuori..... (tossisce, emette dei versi) mamma era in bagno con me....no,
in cucina, no in salotto... non mi trattenevo, stavo pensando ad una ragazza del
palazzo di fronte". Pur riconoscendo nel vissuto del ragazzo una polisemia
di elementi transferali, edipici e preedipici, scelsi di dar voce al versante
evolutivo presente nella fantasia: quello di poter rinunciare agli oggetti edipici,
utilizzando il transfert come esperienza costruttiva, capace di facilitare l'accesso
ad una dimensione sessuale genitale. Nella seduta successiva riferì
il suo primo sogno dall'inizio del trattamento. Entrò ridendo e appena
si sedette sbottò: "Ho sognato che stavo a scherzare e ridere con una ragazza".
Alla proposta di associare pensieri al sogno, Andrea aderì, non senza una
serie di espressioni che lasciavano trapelare l'ansia dell'entrare in contatto
con il proprio mondo, con i propri pensieri, con le emozioni. "Non sono sicuro...
non so se mi sbaglio... non sono proprio sicuro che è giusto... Ho guardato
una ragazza per la strada, perché mi sono distratto... perché ero
stanco e non ho tenuto lo sguardo dritto davanti... ho pensato di dire ad una
ragazza ferma per la strada: "Ti amo, vuoi fare l'amore con me?" Note conclusive
L'avvio del processo di formulare pensieri che partono dallo sperimentare a livello
somatico e psichico le tensioni pulsionali, sono ridisegnati dalla pubertà
e riconiugati con i bisogni affettivi, è il prodotto del lavoro psichico
di costruzione di uno spazio mentale compiutosi, mediante il setting, nella relazione
psicoterapeutica. Questa trasformazione è, a livello intrapsichico, ciò
che ha consentito al paziente di tradurre in parole le emozioni e gli affetti,
prima percepiti come elementi disorganizzanti, caotici e "brutti", che evitava
in maniera autarchica: "Controllandola....... pulisco la mente". La "purificazione",
la metabolizzazione dell'esperienza pulsionale ed affettiva del ragazzo si è
andata organizzando attraverso la relazione terapeutica e il progressivo uso delle
funzioni del setting. Queste ultime mi sono sembrate rievocare le funzioni della
coppia genitoriale. Le funzioni originarie, materna e paterna, di protezione e
di schermo, di contenimento e definizione del limite, proteggono l'Io ancora immaturo
dall'effrazione prodotta dalle spinte interne e da quelle esterne, altrimenti
nocive per quantità di eccitamento, all'avvio dei processi di costituzione
del Sé. Esse assicurano la continuità dell'esperienza affettiva,
dell'identità personale e di genere, e si intersecano e si intrecciano
con i processi di separazione e di individuazione. Ciascuno dei genitori
gioca un ruolo specifico ed ha funzioni diverse che tuttavia non possono essere
disgiunte dal funzionamento della coppia nel suo insieme. In questo senso,
il setting ha evocato il ruolo materno, assicurando l'"holding", ma contemporaneamente,
con il divieto ad agire gli impulsi sull'oggetto, si è richiamato ad una
funzione paterna, che istituzionalizza la triangolarità edipica e con le
sue norme protegge contro il caos. Presumo che, anche nei momenti di non
uso o di interruzione, il setting abbia assicurato al ragazzo quelle funzioni
genitoriali di cui non aveva potuto fruire. Gli agiti quindi attualizzavano, nella
relazione di transfert, le vicissitudini e i fallimenti della relazione con le
figure genitoriali. Il conseguimento della capacità di differire l'impulso
sessuale e la tolleranza dell'intensa pressione verso il soddisfacimento immediato
sono processi interni avviati e resi possibili dall'elaborazione della tensione
interna connessa alla necessità di preservare il setting dal riproporsi
delle vicissitudini di un Io fragile e allagato dall'angoscia pulsionale.
Nel riflettere sui cambiamenti psichici del ragazzo, non ho potuto fare a meno
di constatare che essi si riflettevano negli assestamenti intervenuti nella costruzione
e nell'andamento del setting. Quest'ultimo, dapprima costituitosi come scenario
delle sensazioni e delle emozioni derivanti dal rapporto con il proprio corpo
sessuato, consentiva la ripetizione dell'esperienza traumatica e dava forma all'esperienza
di rottura della precaria organizzazione psichica preesistente. Nel corso
del processo terapeutico, per le sue caratteristiche di continuità e stabilità,
il setting ha potuto offrirsi al ragazzo come spazio potenziale, spazio dell'illusione
e dell'intimità, ma anche della distanza, dell'individuazione tra il Sé
e l'oggetto. In tal senso, ho pensato di assimilare le funzioni del setting al
ruolo di cui è depositaria la coppia genitoriale, che plasma e struttura
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psicoanalitico. Milano, Cortina Ed. Winnicott D. W. (1964): Deduzioni tratte
dal colloquio psicoterapeutico con un adolescente. In "Esplorazioni psicoanalitiche."
(1995). Milano, Cortina Riassunto In questo lavoro l'A. avanza
alcune riflessioni sul trattamento psicoterapeutico degli adolescenti borderline
o psicotici, a partire dalla questione della trattabilità e della possibilità
di condurre il trattamento psicoterapeutico presso uno studio privato, sebbene
supportato da eventuali interventi paralleli ed integrati. Attraverso la
rivisitazione dell'esperienza clinica con un adolescente che ha sofferto di un
breakdown evolutivo, l'A. rinviene nella costruzione e nel mantenimento del setting
quegli elementi evocativi le funzioni genitoriali, materna e paterna, che sono
alla base della costituzione della mente umana. Là dove, come nel caso
dell'adolescente borderline o psicotico, tali funzioni sono state sperimentate
come carenti o del tutto insufficienti, la costruzione del setting risulterà
informata da tali traumatiche esperienze e potrà procedere nella misura
in cui queste carenze psichiche dell'adolescente potranno essere accolte, condivise
e significate all'interno della relazione transferale. Maria Grazia Fusacchia psicologa,
psicoterapeuta, socia S.I.PS.I.A. e Allieva SPI E mail: mg.fusacchia@tiscalinet.it
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