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Anno I - N° 3 - Settembre 2001

Recensioni




Schinaia S. - “Pedofilia pedofilie”.
Bollati Boringhieri, Torino, 2001, pag. 290, £ 45.000



Negli ultimi anni ci sono stati, sulla pedofilia, contributi di psicoanalisti italiani (da De Masi a Petrella e allo stesso Schinaia) peraltro mai pubblicati sulla Rivista di Psicoanalisi. Chissà perché. Ora Schinaia torna sull’argomento con un libro che secondo me va senz’altro letto perché è ben scritto, ben documentato e ha tutti i requisiti per riassumere lo stato dell’arte su un problema che si ripropone insistentemente nella società contemporanea. Per chi lavora con gli adolescenti, poi, c’è un motivo in più per leggerlo e farne oggetto di riflessione, ed è la possibilità di prendere atto di un vastissimo territorio di ricerca.
L’adolescenza infatti non figura nell’approccio clinico proprio del libro che, spesso per forza di cose, deve esulare dalla psicoanalisi dello sviluppo, rimanendo quasi catturato dal personaggio del pedofilo e dal tipo di relazione che questi instaura con l’altro. Ne consegue che oggetto d’investimento del pedofilo viene sempre considerato un generico “bambino”, anche se nei doviziosi riferimenti culturali riportati (ma anche nei due casi clinici descritti) risultano desiderati, corteggiati e sedotti inequivocabili adolescenti.
Ora, se si considera il ruolo che l’adolescenza, in quanto fase di sviluppo psichico, svolge ai fini del raggiungimento dell’identità sessuale definitiva e, più in generale, della soggettivazione, si aprono almeno tre filoni alla ricerca sulla pedofilia, cioè: 1) estendere l’attenzione dal pedofilo ai suoi oggetti d’investimento, onde collegare le ripercussioni che la relazione tra lui e gli altri ha sull’evolversi (o involversi) delle rispettive identità sessuali; 2) studiare la comparsa di fantasmi o di esperienze pedofile fin dall’adolescenza, ai fini della prevenzione del suo definitivo insediarsi in età adulta; 3) approfondire l’eventuale differenziazione degli esiti della relazione pedofila sullo sviluppo psichico adolescente rispetto a quello proprio della latenza o ancora precedente.
Però, a parte gli interessi specifici del terapeuta di adolescenti, se si guarda in senso più lato al panorama psicoanalitico odierno il libro suscita varie riflessioni.
Per quanto mi riguarda trovo che esso ha il merito di voler portare avanti la bandiera del “widening scope of psychoanalysis”, malgrado gli ingenti danni che l’applicazione sconsiderata di questo ideale di per sé giusto ha procurato, secondo me, alla nostra professione/istituzione. Un altro merito è quello di riconoscere senza mezzi termini che lo psicoanalista non è in grado di svolgere un ruolo terapeutico diretto ed esclusivo in questa come in altre patologie “sociali”, pur potendo offrire un notevole contributo tecnico, sia metodologico che esperienziale, ad un lavoro in équipe o di rete. Terzo e conseguente merito è quello di aver messo in atto la collaborazione con altri operatori, di formazione anche diversa.
Ultimo merito (e forse il maggiore) è quello di ammettere implicitamente la possibilità di una psicoterapia psicoanalitica distinta dalla cura psicoanalitica propriamente detta, cosa negata da qualche psicoanalista anche dopo che la SPI ha scelto di essere una scuola di psicoterapia.
Ma siccome c’è sempre un però credo anche che l’esperienza che ha dato origina al libro se Ð come è auspicabile Ð si prolungherà o estenderà, dovrà fare i conti con qualche limite, del resto tutt’altro che invalicabile. Innanzi tutto in ogni ricerca riguardante problemi clinici non sufficientemente egodistonici (oltre alla pedofilia la violenza, la droga, i disturbi alimentari, il rischio ecc.) la relazione di gruppo dei partecipanti è una questione pregiudiziale che l’analista non potrà sottovalutare per tutta la durata del lavoro comune. Mi riferisco esclusivamente alla motivazione a partecipare e solo nella misura in cui tale motivazione riguarda il coinvolgimento terapeutico (leggi controtransfert) sia con i pazienti oggetto della ricerca che con il problema in sé. Solo l’analista, che è presunto conoscere meglio degli altri operatori questo coinvolgimento nelle sue luci e ombre, potrà prevederne, riconoscerne e forse contenerne le vicende controproducenti. Altrimenti si dovrà fatalmente constatare nel gruppo l’emersione di angosce o di agìti, oppure la fiducia nell’effetto narcisizzante di una contemporanea elaborazione teorico-culturale della fenomenologia più ostica, oppure anche la progressiva ibridazione del ruolo dell’analista che potrà passare da una competenza tecnica contestabile (lo psicoanalista consulente) a una funzione didattico-terapeutica non dichiarata (lo psicoanalista supervisore).
In conclusione ritengo un gran bene che la psicoanalisi esca dalla propria torre, divenuta con il tempo babelica senza cessare di essere eburnea. Ma non può limitarsi a restare sulla soglia riservandosi lo jus ultimae vocis. I disturbi narcisistici, traumatici e astrutturati che Ð ormai tutti lo sanno Ð sono pluricausali e richiedono interventi differenziati, spesso istituzionali, impongono che la motivazione psicoanalitica sia rimessa in discussione ad un livello più profondo. Lo psicoanalista che affronta le patologie “sociali” insieme ad altri operatori deve potersi identificare a pieno titolo con il gruppo di lavoro di cui fa parte, pur riuscendo a salvaguardare il ruolo che può competere solo a lui.

Arnaldo Novelletto
E-mail: a.novelletto@libero.it





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