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Anno II - N° 1 - Gennaio 2002


Lavori originali




L’inizio dell’analisi con l’adolescente come specchio della sua possibile fine

Adriana Maltese



Tutte le volte in cui ci adoperiamo, a qualunque livello, per mettere in moto un processo analitico abbiamo uno scopo, raggiunto il quale cessa, cioè viene a compimento, la ragione stessa del processo che abbiamo avviato. In tal senso la procedura di inizio del processo, come il prologo di una storia, costituisce una fase determinante perché contiene già in sé gli elementi salienti del suo svolgimento, come pure della sua possibile fine, come un far gioco prima di ciò che sarà fatto dopo.
Da questa iniziale considerazione sorgono già una serie di domande quando ci riferiamo agli adolescenti. Può allora il modo di iniziare essere collegato a quello di finire? Se concepire la fine di un trattamento psicoanalitico con un adolescente significa aver raggiunto lo scopo per cui il trattamento stesso è stato iniziato, in tal senso possono inizio e fine essere visti come uno specchio l’uno dell’altra? E ancora, si può concepire la fine di un trattamento senza che sia stato raggiunto lo scopo per cui esso ha avuto inizio o viceversa si può concepire di modificare lo scopo in corso di trattamento stesso e quindi riformularne il percorso e di conseguenza il processo analitico in sé?
Il problema, sempre più presente nelle attuali teorizzazioni teoriche sulla adolescenza, di individuare i nodi traumatici della basi della personalità e l’uso che ne facciamo non è indifferente già nei primi incontri. Infatti nello scambio iniziale tra adolescente e analista possono delinearsi alcune importanti caratteristiche del progetto di lavoro che seguirà e quindi degli scopi del trattamento. Se così non fosse, come sarebbe possibile capire quale tipo di trattamento può fare l’adolescente e cosa proporre per andare avanti?
Qualunque terapia analitica con l’adolescente ha come scopo una qualche possibile riscrittura della sua vicenda personale e parte da un negoziato e poi da un accordo, se non proprio da un’alleanza nel senso classico, tra due competenze. C’è sempre quindi da riconoscere una residua capacità di collaborazione con l’adolescente, che il più delle volte resta a lungo clandestina, che può portare l’adolescente, anche il più malato, ad aspettarsi di volere qualcosa per se stesso, sperando di trovarlo nella cooperazione con l’adulto. Se così non fosse alimenteremmo l’aspettativa onnipotente di occuparci dell’adolescente malgrado lui, cioè verrebbe meno la possibilità di lasciare attivo il messaggio che il suo funzionamento mentale è tenuto in gran conto e proprio da questo scaturisce la sua speranza di cambiamento. Non è infatti questa dimensione stessa del cambiamento, che noi siamo attenti ad introdurre sin dall’inizio di un percorso terapeutico, il perno intorno a cui si organizza tutto lo svolgersi del processo stesso?

La mia ipotesi è che fin dal primo incontro con l’adolescente, che lo vogliamo o no, siamo coinvolti nella sua scena traumatica così come nei tentativi dell’adolescente di padroneggiarla, di difendersene, e malgrado tutto di alimentare il suo progetto di sviluppo. Cogliere fin dall’inizio tutto questo e gestirlo nella relazione che si va innescando significa in qualche modo scrivere, come già detto, il prologo della storia che verrà, un prologo che contiene quindi in sé tutti gli elementi di come la storia si svolgerà ed avrà fine. Aggiungo che molto di come andrà a finire con l’adolescente si basa sulla gestione della valenze controtransferali che sono sin dall’inizio prepotentemente in gioco. La loro aministrazione costituirà a mio avviso il perno intorno al quale si snoderà l’inizio, lo svolgimento e la fine del processo terapeutico stesso. Sotto questo profilo il modo di iniziare un’analisi detta anche il modo di fare il percorso, sicché ogni differente modo di iniziare un’analisi detta un differente corso del processo analitico.
Una peculiarità dell’incontro con l’adolescente è quella di essere convocati da subito in ambiti di relazione in cui siamo intensamente investiti come oggetto di transfert, ambiti che riattivano in noi il transfert sulla nostra adolescenza. Si tratta di un gioco di affetti intenso che , si sa, crea difficoltà controtransferali che spesso sono all’origine della riluttanza dell’analista ad impegnarsi in una relazione intima con l’adolescente e ad approfondire e portare avanti la relazione, per cui ci si può mascherare con giustificazioni di tecnica e di setting.
L’inizio di un’analisi con l’adolescente, come la sua fine, è segnato da forti sentimenti controtransferali, dove il confronto doloroso con l’incertezza dell’adolescente sulle sue capacità è risentita nell’analista come incertezza sulle possibilità di attivare un processo analitico, incertezza nella quale l’analista può rivivere, sia che si tratta di iniziare che di finire, l’incertezza della propria adolescenza. Nodi controtransferali irrisolti sin dall’inizio possono costituire un imprinting da cui dipenderà l’esito della storia terapeutica stessa. Pertanto un avvio incerto, che nasce da nodi affettivi mentalmente impraticabili per l’analista, può diventare il prologo di una storia impraticabile o di una fine impraticabile.
“Chi ben comincia è alla metà dell’opera” dice un noto proverbio! Un buon inizio è quello che può portare ad una buona fine! In ciò è certamente in gioco la capacità dell’analista di portare l’adolescente a farsi aiutare, a far scattare in lui l’idea che l’analista sta dalla sua parte, che è un alleato nella sua lotta per l’indipendenza. Questa abilità dell’analista di adolescenti in parte è il frutto di tutto un bagaglio tecnico acquisito, ma per buona parte attinge ad una certa peculiarità del suo patrimonio affettivo, che è quella per cui si sente più disponibile a trattare con gli adolescenti rispetto ad altri colleghi.
Non sempre siamo capaci di entrare in contatto profondo con qualunque adolescente. Con alcuni lo siamo e con altri no, con altri ancora questo accade dopo un faticoso lavoro propedeutico, con altri ancora falliamo. Non a caso il trattamento analitico si basa sulla relazione! Ma quando questo accade l’adolescente, anche se in difficoltà acuta, accetta di collaborare perché “sa” che l’analista ha colto i nodi che stanno alla base della sua difficoltà di emancipazione. L’incontro con l’analista ha riacceso in lui la speranza di risolvere i suoi problemi e di procedere verso l’ autonomia. In questo clima la proposta di lavoro in comune, a qualunque livello di organizzazione di setting si colloca, viene accolta dall’adolescente perché egli comincia ad avere fiducia, al di là delle parole più o meno dette, che l’analista ha capito quale è la sua effettiva richiesta e su quella si è sintonizzato per cominciare a dare risposte. Sto facendo riferimento qui alla capacità di identificazione e disidentificazione con l’adolescente da parte dell’analista, capacità che, a partire dal proprio controtransfert, gli permette di accogliere e inserire l’adolescente nel setting a lui più congeniale, di modificarlo se necassario in corso d’opera, per percorrere e completare il cammino terapeutico.
Farò riferimento ad una situazione clinica per esemplificare quanto detto.

Caso clinico

Ho incontrato Cecilia per la prima volta quando aveva tredici anni e mezzo ed aveva già l’aspetto di un’adolescente molto carina e ben fatta.
Il mio primo impatto è stato con il padre di C.: attraverso una sua telefonata il signor Franco chiedeva un incontro urgente per la situazione intollerabile che si era creata in casa a causa della figlia. C. ha lasciato la scuola ormai da mesi e si sta isolando sempre più. Da alcune settimane ha delle crisi sempre più frequenti in cui si butta per terra dimenandosi e gridando, ciò succede a seguito dei contrasti ormai quotidiani tra C. e i suoi genitori e i fratelli, ma specie con la madre, contro la quale si è scagliata più volte brandendo un coltello da cucina e gridando di volerla uccidere. Il signor F. mi dice che di aver consultato un neuropsichiatra che ha prescritto dei farmaci ed ha dignosticato una depressione, ma C. rifiuta i farmaci. Il clima della telefonata è concitato a tal punto che non capisco per chi il signor F. chiede l’incontro.
Decido di domandare di poter parlare con C.. Il signor F. è perplesso: non sa se la figlia vorrà parlarmi, anche oggi ha avuto una crisi e dopo si è chiusa nella sua stanza al buio, senza voler vedere nessuno. Poco dopo invece arriva C. al telefono. In evidente atteggiamento oppositorio mi dice che non ha niente da dire. Nel clima di angoscia, di incertezza e di rifiuto che sta caratterizzando questo mio primo impatto dico a C. che fino ad ora ho avuto qualche accenno su quello che sta succedendo in famiglia, ma dal punto di vista del papà, visto che ho potuto parlare solo con lui. Le chiedo se non desidera anche lei esprimere il suo punto di vista, e per far questo è utile incontrarci. Le propongo un appuntamento a breve che C. non accetta né rifiuta, si limita a dirmi che ci penserà.
C. viene all’incontro accompaganta dal padre, a cui impone di restare fuori. Mi dice subito che ha deciso di venire perché vuole parlare di Giulia. Prima che io possa fare qualche domanda per capire di più, C. mi dice: “Non vedo G. da tanti anni, ero ancora una bambina quando lei se ne è andata ! Non so dove sta adesso e cosa fa, invece io vorrei proprio incontrarla. Ci penso sempre, è il mio chiodo fisso! Io non so come fare, perché non so come cercarla. Ho bisogno dell’aiuto di papà, ma con lui non si può parlare di questo, non vuole proprio saperne. Ho cercato di chiedere a mamma, neanche mamma vuole parlarne. E poi neanche mamma può aiutarmi perché non sa dove è G.. Mamma dice che non devo chiedere a papà perché lui si dispiace, ora ha anche problemi con il lavoro! Ma io come faccio?”.
Se da una parte sono piacevolmente sorpresa dalla voglia di C. di “confidarsi” con me d’altra parte mi sento perplessa perché non capisco a che livello collocare la richiesta di C., che ora viene girata a me e dalla quale dipende, questo capisco bene, ogni prospettiva tra noi.
Le chiedo di dirmi chi è G. C. mi dice che G. è sua sorella maggiore e continua, eccitandosi ancora di più, a parlarmi di G., del tempo trascorso con lei da bambina, dei giochi fatti insieme, dei regali ricevuti da lei che ancora conserva. Aggiunge: “G. mi voleva proprio bene. Ora mi manca tanto!”.
Io continuo a non capire, a sentirmi confusa, anche perché il padre al telefono mi aveva detto che C. è la loro figlia maggiore. Penso alla deriva di una fantasticheria infantile o ad una situazione delirante in via di organizzazione. Cerco pertanto, pressata dalla mia stessa angoscia, di avere ulteriori informazioni sulla vita di C. e sul suo contatto con la realtà; le chiedo allora di dirmi qualcosa sulla scuola. C. si infastidisce: non è venuta per parlare della scuola! E poi la professoressa di lettere anche quest’anno l’ha presa di mira, come quella dell’anno scorso, non è servito a niente averla cambiata. Si sente perseguitata dalle sue critiche e per questo non va più a scuola. Ha deciso di incontrami perché vuole che l’aiuti a rivedere G.; mi dice di chiedere io al padre dove si possa trovare ora G. Mentre io mi sento confusa da questa richiesta “bizzarra”, C. continua a parlare di G., infervorandosi ed arrabbiandosi con i genitori che le impediscono di rivederla,
C. è evidentemente concentrata su un’esigenza insopprimibile rappresentata da G., ne è pressata, angosciata dal vedere vanificarsi questa esigenza tanto da sembrare a rischio di perdere il contatto con la realtà. Io mi ritrovo in uno scenario nel quale il dramma è già in atto. Forse da tempo, ma non capisco ancora dove posso inserirmi. I personaggi sono tutti in scena, ampiamente coinvolti in questo dramma al punto che rischio di non essere vista. Mi chiedo in questo momento che spazio ci sia nella mente di C. al di là di questa massiccia esteriorizzazione dei conflitti di cui, ora sono una spettarice-testimone.
Con l’intento di introdurre la dimensione del tempo le propongo intanto un altro incontro. Nel salutarci il padre è incalzante nel proprio bisogno di sapere, tollera male il mio invito a pazientare un pò per rispettare il desiderio di C. di volermi parlare da sola.
L’urgenza di C. e del padre, ognuno con il proprio bisogno, mi fanno sentire pressata e mi rimanda alla pressione che sicuramente C. avverte montare da se stessa, perché non può patteggiare con i propri fantasmi, e dai genitori che sono smarriti e non riescono a patteggiare con la loro angoscia.
Nel ripensare all’incontro sono preoccupata, perché temo per l’equilibrio di C. e sono esitante sulle possibilità di sviluppo di questo nostro primo incontro, perché non capisco ancora cosa, di quanto accaduto tra di noi, abbia potuto far breccia. Nei miei dubbi ed esitazioni, che mi fannno anche desiderare di non rivederla, intravvedo già le incertezze di C. che poco si aspetta dagli adulti di riferimento.
C. ritorna la volta successiva più ben disposta verso l’incontro ma ancora decisa a parlare soltanto di G. Per diversi incontri successivi non desidererà altro. Diventa però via via meno tesa ed accetta qualche domanda da me. Così vengo a sapere che G. è figlia di un primo, adolescenziale, matrimomio del padre, che ha 10 anni più di lei, che è stata la sua compagna di giochi nell’infanzia insieme al nonno materno. Ambedue l’hanno sempre coccolata ed ora li ha persi entrambi! Il nonno è morto tre anni fa e G. - me lo già detto no?- l’ha persa di vista da tanti anni. Fa il conto da quanti anni non la vede: G. aveva 18 anni quando è andata via, quindi lei ne aveva 8. Così comincia ad immaginare come sarà adesso. Immagina come si sarà trasformata fisicamente ora che è una donna, cosa farà ora nella sua vita: forse ha già finito l’università, avrà sicuramente un fidanzato e sicuramente vive per conto proprio!
Penso all’angoscia di C. di veder vanificarsi il proprio progetto di donna, progetto ben espresso nell’urgenza di rivedere G. alla quale sono rimaste legate esperienze libidiche sicuramente fondamentali. Le dico che pensare a G., parlarne a me e senrisi ascoltata, oltre che desiderare di rivederla, è importante perché significa pensare a come sarà lei stessa quando avrà l’età di G. C. si anima, mi dice che è proprio così: E’ il primo significativo momento di intesa tra di noi ma è già anche un indicatore di rotta per un nostro percorso, anche se ancora non so a quali condizioni di setting C. possa tollerare di portare avanti un lavoro su di sé.
Intanto le crisi di C. continuano, i genitori sono sempre più allarmati e disarmati, le telefonate di aiuto si intensificano. C. adesso ha le sue crisi a ridosso dei nostri incontri e questo indurrebbe sia lei che i genitori a disertarli. Mi sento messa alla prova, da C. con il cercare di indurmi a trattarla da bambina piccola che tiranneggia ( come succede a casa ), dai genitori che mi sfidano su come io sia capace di gestire la situazione della figlia che a loro sfugge di mano. Gli intervalli tra i nostri primi incontri sono perciò spesso preceduti da telefonate scoraggiate del padre che non sa come fare con le crisi della figlia.
Eppure C. viene sempre agli incontri, ha sempre più voglia di parlare di ciò che le sta a cuore. Al tema di G. se ne aggiungono altri: i fratelli, la scuola, le amiche dell’infanzia che ha perso, come G. Il nostro discorso si va articolando, C. è sempre più coinvolta.
Negli incontri a tre insieme ai genitori che intanto abbiamo avuto, ricavo l’impressione che essi cerchino di fare tutto quello che possono ma sono troppo emotivamente oberati da problemi personali e finaziari per avere energie sufficienti ad un minimo di tenuta della propia funzione genitoriale. Sono fondamentalmente due persone smarrite su loro stesse ed ancor più dalle crisi della figlia che era sempre stata una bambina affidabile, giudiziosa, una vera mammina per i numerosi fratelli minori! Ne ricavo l’impressione che debba chiedere loro il minimo indispensabile, cioè che debbo far da sola arrangiandomi al meglio con il minimo possibile, forse proprio come sente di dover fare C. Sulla spinta di questo vissuto propongo soltanto un incontro a settimana. Ho l’impressione di dover fare in fretta con C., che lei debba recuperare al più presto perché è come se chiedessi loro le ultime energie residue. Il mio rapporto stabile con C. esordisce con un mio acuto senso di colpa verso i suoi genitori. Come se i genitori, per loro stessi già tanto bisognosi, ci concedessero, con il nostro incontro settimanale, un lusso che non possono permettersi.
C. viene ora volentieri alle sedute ed il suo mondo affettivo si rianima, ma io mi sento oberata dal controtransfert. Sono combattuta tra la spinta a prendermi con C. il tempo e lo spazio necessari per il suo percorso (e quindi un setting con più sedute a settimana) e la spinta a sbrigarmi, che è adombrata nella giustificazione-preoccupazione che l’intensificarsi del rapporto metterebbe in gioco un transfert per C. intollerabile. Nel discuterne con un collega, pensando ad un eventuale affido di C. ad una terapia di gruppo come via di uscita, mi rendo definitivamente conto di quanto sto rischiando di agire la stessa angoscia di C., che è stata quella di crescere in fretta, senza poter mai sostare ad intimizzare né con se stessa né con i suoi oggetti di riferimento. E’ questo che ora C. desidera e teme allo stesso tempo! Questo mi fa pensare ad un rapporto più intimo, con un ritmo più intenso di incontri, come ad un progetto da realizzare al più presto e non più come ad un pericolo da evitare. Mi sento più libera di lavorare con i genitori per trovare con loro, nonostante le difficoltà anche di ordine pratico, uno sbocco diverso dal setting fino ad ora attuato. Intravedo nel perdurare delle crisi, non più una difficoltà di C. a reggere un rapporto più intenso, ma la conseguenza di una scarsa tenuta del contenimento, dovuta proprio al ritmo troppo diluito delle sedute.
Dopo aver intensificato il ritmo degli incontri, le crisi di C. si esauriscono in breve tempo e così pure si ricostituisce gradualmente la sua vita di relazione.
Dopo qualche mese C. porta il suo primo sogno: “ sta in macchina con una donna , in una zona vicino al luogo in cui si svolge la terapia, sta andando a trovare G. ma intorno è buio e chiede alla donna di aiutarla”. E’ la stessa C. a collegare il contenuto del suo sogno allo scopo del nostro lavoro in comune.
Il lavoro con C. sta andando avanti non senza ulteriori difficoltà. Siamo nel pieno del percorso intrapreso e per il momento è impensabile una fine: Quando C. darà segni di volersi staccare proverò certamente intensi sentimenti ed ansie come un adulto-genitore il quale cerca di rassicurarsi che tutto andrà quando il figlio-adolescente si emanciperà, cercando di alimentare attese ma non certezze. La nostra separazione è però iniziata, passo passo, ad ogni progresso evolutivo di C.
Mi chiedo se soffermarsi troppo a discutere della tecnica di fine analisi degli adolescenti non abbia a che fare con l’angoscia di sapere che a volte ci si separa quando il percorso non è stato, del tutto o in parte, ancora compiuto.


Adriana Maltese
E-mail malteseryan@libero.it





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