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Anno III - N° 3 - Settembre 2003

Lavori originali



Trattamento parallelo, individuale e di gruppo, per un adolescente con esperienza di vita di strada*

Maria Antonietta Fenu, Sandra Maccioni



La partecipazione a un gruppo terapeutico

Daniele è arrivato al Servizio Territoriale di competenza poco prima di compiere ventidue anni. Negli ultimi due anni aveva “vagabondato” da uno psicologo all’altro in cerca di un trattamento. I servizi pubblici lo rimandavano al privato ed il privato lo rimandava al pubblico, senza che nessuno si facesse carico di restituirgli una diagnosi, o di prospettargli un progetto. Tutto questo probabilmente non era un caso ma coincideva con la caratteristica nomadica del ragazzo. Daniele si presentava con i segni di un incalzante barbonismo e, nonostante provenisse da una famiglia molto dignitosa – la madre, laureata, apparteneva ad una famiglia di antica nobiltà, mentre il padre, che si era fatto da sé in quanto orfano di padre, era un professionista di grido – aveva fatto in passato l’esperienza della “vita di strada “. Per Daniele, caratterizzato da una personalità fobica aggravata da una preoccupante diffusione dei confini del sé, era importante sottolineare la differenza tra il barbonismo ed il vagabondaggio, probabilmente per il bisogno di negare a sé stesso che l’uno era la premessa dell’altro. Dunque, secondo Daniele, il vagabondaggio non comprendeva l’isolamento sociale, ma anzi era una esperienza fortemente collettiva. Esiste infatti, a livello mondiale, una organizzazione ignota al mondo produttivo, tutta basata sul “ passa-parola”, che prevede periodicamente grandiosi meeting in località definite, oramai divenute una vera tradizione. Da tutte le parti del mondo i cultori della “vita di strada” si ritrovano, dormono insieme accampati, suonano, cantano, ballano ed assumono sostanze. La loro regola è l’assenza di regole; si pongono come un altro mondo rispetto alla società che corre, che produce, che si rende schiava delle convenzioni. Insomma, secondo Daniele, c’è un’ideologia di fondo. I barboni invece sono solitari e degradati, ciascuno è un caso a sé. Lui era stato introdotto alla vita di strada da una amica musicista che poi aveva palesato segni inequivocabili di psicosi, e da tale esperienza aveva tratto un nuovo progetto di vita per la verità abbastanza improbabile: studiare musica privatamente per inserirsi, un domani, al Conservatorio. Pur essendo rientrato in casa con la madre – i genitori si erano separati quando i due figli erano piccoli – la sua solitudine, la sua inconcludenza e la dominante propensione al panico lo rendevano bisognoso di aiuto.
La scelta di un progetto non era facile, sia perché al momento della richiesta Daniele non aveva raggiunto una condizione di trattabilità, sia perché la situazione economica non consentiva di spaziare troppo. Il lavoro sulla domanda è durato alcuni mesi: nonostante l’emotività fosse fortemente presente ed incidesse quindi sull’aspetto fobico, a poco a poco il ragazzo ha cominciato ad affidarsi, ad essere in condizione di ragionare sui suoi bisogni in maniera condivisa ed a sentire con me una sorta di complicità che gli ha permesso di vivermi come figura positiva. Le caratteristiche di gravità richiedevano interventi che introducessero elementi trasformativi abbastanza rapidamente, pur tutelando la possibilità di svolgere un lavoro a livello profondo che avrebbe comportato tempi più lunghi. Dunque la proposta, elaborata insieme con molta cautela, si articolò in questi termini:

1) Introduzione nel gruppo di psicoterapia rivolto a giovani tra i diciassette ed i ventiquattro anni che tengo da anni nel servizio pubblico nel quale lavoro.
2) Avviamento di una psicoterapia individuale in setting privato.

Saranno forse utili alcuni cenni sul funzionamento del gruppo istituzionale cui ho fatto riferimento. Di ispirazione bioniana, la costituzione del gruppo si è valsa, per gli aggiustamenti del caso, di una esperienza clinica particolarmente centrata sulla teoria e sulla tecnica del trattamento delle patologie adolescenziali. Per questa ragione il gruppo si è configurato come gruppo aperto, a ricambio rapido, ma con una particolare cura nella fase preliminare di introduzione. Vengono inseriti nel gruppo ragazzi nevrotici o ragazzi affetti da disturbi di personalità ( sono in genere esclusi il disturbo paranoide e quello istrionico se troppo strutturati). Sono presenti patologie del comportamento alimentare. Il conduttore è unico, per non favorire troppo processi di regressione, ed il tempo minimo di frequentazione è definito nei termini di un anno. Alcuni ragazzi afferiscono al gruppo dopo un lavoro individuale, se non è arrivato a soddisfare tutti i bisogni e quando richiede un rinforzo sul piano della “gruppalità” ( il superamento della relazione duale ed una esperienza più diretta con la condizione dei pari: ragazzi con famiglie smembrate, figli unici, famiglie con meccanismi molto rigidi ecc.). Altri ragazzi che, al contrario, non sembrano disponibili ad un lavoro individuale, attraverso il gruppo saggiano un modo nuovo di usare il pensiero rispetto al mondo interiore: dopo un’esperienza positiva dell’introspezione in gruppo, maturano la consapevolezza di avere bisogno di approfondire e scelgono di fare una psicoterapia individuale dopo averlo concordato con la conduttrice. Alcuni attraversano una fase di impasse e quindi fruiscono del gruppo per poi riprendere il proprio percorso evolutivo mentre altri, i più gravi, si giovano di un lavoro parallelo: psicoterapia individuale e di gruppo in contemporanea.
La frequentazione media si aggira intorno ai due anni e il processo che si crea sistematicamente è piuttosto interessante: timidi ed impacciati nei primi tempi, i ragazzi inseriti da poco imparano gradualmente ad utilizzare il gruppo come spazio condiviso e partecipe di riflessione. Imparano a parlare ed a lasciare parlare, ad ascoltare ed essere ascoltati. Ed anche a tirare fuori l’aggressività senza temere di aver fatto troppi danni. Man mano che il ragazzo si sente appartenente al gruppo, assume l’identità del “senior”, e comincia ad prendere confidenza con la leadersheap, ponendosi spontaneamente come consigliere e come co-terapeuta del conduttore. In una parola, avendo imparato a prendersi cura di sé, ed avendo migliorato l’autostima, il paziente si sente in grado di avere cura dei “nuovi”. Quando questo tipo di identità si è consolidata, emerge ritualmente la coscienza di essere oramai “grande” rispetto ai ragazzi che si inseriscono ( la prima domanda è sempre “quanti anni hai?”, e la differenza di età, due o tre anni, diventa un elemento disvelatore che il tempo è passato, che le cose sono molto cambiate ), la frequenza tende a farsi più saltuaria fino al momento in cui viene condiviso col gruppo un bilancio del proprio percorso e la decisione di concludere. E’ prassi consolidata che l’addio sia sempre accompagnato dalla richiesta: “Ma qualche volta, posso passare?”, come per rassicurarsi che il gruppo sia lì, per sempre, disponibile ed accogliente come una cara, buona famiglia.
Nel gruppo i miglioramenti del comportamento, della qualità della vita nonché dell’autostima sono apprezzabili, probabilmente perché la fascia d’età presenta caratteristiche di particolare duttilità, ma certamente non corrispondono ad una elaborazione profonda. Piuttosto sembra rinforzarsi, sulla base delle identificazioni speculari, la capacità di utilizzare le risorse che ci sono, col superamento del senso di unicità, di solitudine e di demotivazione che solitamente accompagna la domanda.
Anche Daniele ha seguito il percorso usuale, ma distinguendosi in particolare modo sia per le trasformazioni nell’aspetto ( è diventato curato, elegante ed ha tagliato i capelli) sia per il comportamento: prima pauroso ed evitante fino alla scortesia, gradatamente è diventato molto affettuoso e tollerante; era pronto a solidarizzare e sostenere senza mai ironizzare, ben consapevole di quanto si può essere in difficoltà, e di quanto si può sbagliare.
Questi gli aspetti portati in gruppo, dove predomina l’immagine sociale. Degli altri aspetti si potrà approfondire nella relazione sul trattamento individuale.


L’esperienza contemporanea di un setting individuale**

Daniele inizia la sua analisi a due sedute la settimana; le prime sedute sono vis a vis, poi gli propongo il lettino.
L’accomodamento alle sedute individuali non è facile: è impaurito dal rapporto e chiede però aiuto immediato. Attacca la lentezza del processo analitico, accusando invece il permanere del suo disagio, anche quando questo si riduce.
Si difende tramite una “seconda pelle”: indossando il casco della moto e occhiali scuri, evitando il rapporto con gli altri e allo stesso tempo lamentando una distanza eccessiva da loro. Fu in occasione dell’assunzione di droga, 3 anni prima, che Daniele sperimentò per la prima volta quella distanza siderale tra sé e gli altri che sembra accompagnarlo ancora. In quel momento, in cui veniva in contatto con forti emozioni, sembrò provare un’angoscia del vuoto che sembrava il risultato sia di un vuoto interiore connesso alla povertà dei suoi legami affettivi, sia di meccanismi difensivi, tramite i quali faceva il vuoto di fronte al contatto con le emozioni e con l’oggetto interno. Daniele mi descrive il panico che gli suscita ancora un semplice gesto come avvicinarsi una tazzina alla bocca, o incontrare lo sguardo dell’altro, cose che lo fanno tremare e sembrano farlo sentire come se lo spazio che distingue sé e gli oggetti si evidenziasse, e come se potesse essere pervaso, nella sua identità, dal contatto. D’altra parte, compensa un deficit narcisistico con tratti onnipotenti (ride degli altri, ama ferirli verbalmente ma allo stesso tempo si sente deriso, allontanato da loro).
Presto questa costellazione di sintomi – oscillante tra eccessivo distacco e vicinanza - mi sembra riconducibile alla qualità delle sue cure genitoriali, che hanno oscillato tra un’estrema distanza e disinteresse della madre e una presenza invece troppo controllante e severa del padre nei riguardi delle sue debolezze di bambino. Come avevano fatto i genitori nei suoi riguardi, anche Daniele sembrava ora vicendevolmente attivare tali dinamiche di allontanamento o di controllo. Di queste cose, però, egli non vuole sentirne parlare da me, per cui agli inizi della terapia i miei interventi devono essere molto cauti, spesso scherzosi, quasi per creare con lui un transfert che non sia genitoriale ma speculare, di rinforzo al suo sé, principalmente, e a una libido che non riesce più a “legare” (Green, 1992) vinta da elementi distruttivi.
Si presenta con i vestiti laceri, le maglie con i buchi, portandosi quindi addosso le tracce del suo vagabondaggio e insieme gli strappi di chi è stato cacciato e costretto ad errare (entrambe le convivenze con la madre e con il padre, nelle rispettive case dopo la separazione, non lo avevano fatto sentire accolto).
Mi racconta che nel gruppo non riesce ad aprirsi, così come nei primi tempi della sua analisi mantiene un arroccamento critico anche nei miei riguardi; rifiuta gli inviti all’esterno degli altri ragazzi e vive le sue giornate in solitudine, a suonare in casa da solo.
Dopo un anno di terapia, le sue angosce e la depersonalizzazione che lo prende a contatto con l’altro, possono essere ricollegate a un ricordo importante, di quando sua madre, esausta o insofferente del rapporto coi figli, frequentemente arrivava a staccare l’interruttore generale della luce di casa. Questa scena sembrava rappresentare il buio, la distanza e il senso di perdita di sé e dell’altro, che accompagnava Daniele, e che io interpreto ricollegandolo all’evitamento che lui adesso opera come in un reversal nei confronti degli altri, dal momento che non li vuole vedere, e ha paura di essere visto da loro.
Inizia dopo questa fase a frequentare i ragazzi del gruppo, come se avesse potuto “accendere” la luce ed i rapporti: è più sereno. Con la collega che lo segue nel gruppo constatiamo i suoi progressi: ha ricontattato il padre, è più sereno e più sciolto, ha riacquistato una sua “morbidezza”, mantenendo la sua intelligenza e la sua ironia.
Il confronto con i ragazzi del gruppo lo conforta: si accorge di non essere solo ad avere problemi. La partecipazione al gruppo gli dava la possibilità di avere due analisi, quel “di più” che gli era mancato e ricercava, avendo sperimentato perdite e deprivazioni. In questo doppio setting Daniele sembrava poter ritrovare anche i due genitori, stavolta uniti e non separati nel suo accudimento, non in contrasto, data l’intesa di fondo tra le due terapeute, elemento importante per la riuscita di un trattamento. Poteva anche diluire nelle due terapie ansie, angosce ed aggressività, con riduzione del rischio di drop out, forse maggiore nel setting singolo.
La partecipazione di Daniele al gruppo ha sostenuto anche il mio lavoro nei primi tempi quando, pur accettando i miei interventi, Daniele ne contestava l’utilità, accusandomi di continuare comunque a essere pieno di problemi irrisolti, come se non riuscisse ad abbandonare quell’immagine colpevole e negativa di sé derivata dall’infanzia e proiettasse i suoi sensi d’incapacità, i suoi deficit narcisistici, così come i deficit genitoriali, nell’immagine di un’analista o comunque di un’analisi poco efficace. Aveva anche equivocato per un lungo periodo, credendo che io ritenessi controindicato che lui approfondisse la frequentazione anche al di fuori del gruppo dei ragazzi che vi partecipavano; con questo sembrava ricreare nei miei riguardi un transfert superegoico, come se io fossi un padre che gli impedisse l’accesso alla madre (l’altra terapeuta e il gruppo), o come se fossi una madre fagocitante ed esclusiva, segnalando al contempo le sue difficoltà nel processo d’integrazione.

Nel secondo anno di terapia arriviamo a un nostro maggiore avvicinamento, che coincide col suo avvicinamento verso gli altri: dopo aver stabilito rapporti amicali anche extragruppo coi suoi compagni di terapia, inizia a frequentare di più anche gruppi esterni (partecipa a un coro, si inserisce in comitive più ampie).
Come se i rapporti gruppali (eredi forse di quelli familiari e perciò sinora evitati) lo facessero sentire più protetto anche nell’avvicinarsi ai singoli individui, si crea tra i legami che ha nel gruppo un “amico del cuore” e trova una ragazza. Approfondisce con meno timori anche il rapporto con me. Nell’analisi, non a caso, emergono nuove e diverse memorie d’infanzia, legate anch’esse alla ricerca di attaccamento e affettività che gli erano mancati: a differenza della madre che non lo seguiva, Daniele ricorda con malinconia e una forte emozione la governante che lo teneva sempre in braccio da bambino, e gli teneva le mani. La sua nuova disponibilità al legame si esterna alla fine di questo secondo anno sia con me che con i compagni del gruppo, con i quali trascorre il fine settimana, effettua un primo viaggio importante all’estero.
E’ possibile che questa doppia figura materna, della madre e della governante, entri a far parte a diversi livelli dello scenario e della dialettica anche delle sue due terapie (individuale e gruppale) e del rapporto con le due terapeute, determinando momenti di vicinanza oppure inaccessibilità verso entrambi i contesti.
Il gruppo sembra traghettarlo verso una maggiore autonomia: lo distacca dal rapporto con la madre con cui, trascorrendo il suo tempo dentro casa, era sempre coinvolto e lo riorienta verso la frequentazione dei coetanei. Ritrova la sua allegria, sostenuto dalle dinamiche vivaci del gruppo e da una conduzione dell’analisi anche da parte mia tesa a “risollevarlo”, deproblematizzarlo, sebbene affrontando i nuclei patologici, alternando cioè una visione per così dire seria e adulta delle sue problematiche con l’importanza, che sentivo, di restituirgli anche un’adolescenza non vissuta, poiché precocemente attaccata dalle vicende familiari.
Dopo due anni di terapia, in coincidenza dell’uscita dal gruppo terapeutico dell’amico del cuore, pensa anche lui di diradare, anche se poi mantiene la frequenza. Questo periodo segna una maggiore autonomia che anche la terapeuta del gruppo interpreta come una nuova capacità di “essere solo” (Winnicott, 1957) senza frammentarsi, e insieme sembra accompagnarsi al vero inizio della sua analisi individuale, in cui si abbandona più tranquillo, sperimenta gli affetti, non più solo chiusura e rabbia, ma anche tenerezza e dolore.
Si potrebbe dire che nel gruppo Daniele abbia ritrovato “la strada” cioè una dimensione multipla, polivalente, stavolta una buona strada, dove i suoi aspetti “nomadi” cioè dispersi si possano reintegrare, e nell’analisi individuale casa, quella da cui è sempre fuggito e in cui si è finalmente potuto annidare, potendo anche cominciare a trovare un proprio spazio interno ed esterno che si concretizza ora nel suo progetto di un’abitazione vera tutta per sé.

La conduzione di una terapia individuale parallela ad una di gruppo non è frequente nella pratica clinica. Negli Stati Uniti, dove le terapie di gruppo hanno una diffusione più ampia rispetto all’Italia, viene inclusa in alcune esperienze una terapia di gruppo come parte di un piano complessivo di trattamento. In questi casi la terapia di gruppo non è la sola né la principale modalità usata, eppure il suo contributo viene riconosciuto come spesso unico e criticamente importante (Kalogerakis, 1996). Ad esempio con pazienti con tendenze suicidarie sono state sperimentate terapie individuali concomitanti a terapie di gruppo, ritenendo necessaria allo stesso tempo una terapia individuale poiché spesso l’adolescente non parlerà di tutti i suoi problemi in gruppo (Heacock, 1996). Anche nel campo della ricerca è aumentata l’attenzione per i modelli multidimensionali (Azima e coll., 1989; Piper, 1993).
Riteniamo che questo caso possa essere di stimolo ad una riflessione sulla tecnica che, soprattutto con gli adolescenti e con nuove e diverse forme di patologia, sembra poter prevedere nuovi adattamenti e diverse forme di setting.
Pontalti (2000, p.IX-XII) stimola alla ricerca di nuove e sempre più adatte forme di intervento, anche quando questo comporta un’articolazione insolita della tecnica ma sempre più mirata verso la specificità di ogni paziente, soprattutto se adolescente: “Dobbiamo diventare più efficaci e dobbiamo diventarlo per un maggior numero di bambini, di adolescenti, di adulti.(…) Questa sfida ci colloca automaticamente, ci piaccia o no, sul confine di nuove teorie, di nuove pratiche, di nuovi saperi, (…) ci indica la possibilità di nuovi assetti della nostra personalità terapeutica, di nuovi percorsi per una maggiore efficacia. (…) Con gli adolescenti occorre sperimentare formati multimodali: incontrarli da soli, con le famiglie, in gruppo, e quindi in progetti terapeutici che prevedano varie articolazioni dei tre setting”.


NOTE:

*Questo lavoro è stato presentato al V Convegno Nazionale di Psicoterapia dell’Adolescenza - Psicoanalisi e Psicoterapia: “L’adolescente tra contesti naturali e contesti terapeutici” , Firenze, Convitto della Calza, 18-19 ottobre 2002.
**Il caso di Daniele è stato seguito in terapia di gruppo dalla Dott.ssa M. A Fenu e in terapia individuale dalla Dott.ssa S. Maccioni


RIASSUNTO
Il lavoro riporta il trattamento psicoterapeutico di un adolescente effettuato in setting paralleli, individuale e di gruppo. L’articolazione del setting si è costituita entro un percorso terapeutico che tenesse conto delle specificità del ragazzo, proveniente da periodi di vita gruppale di strada, e allo stesso tempo bisognoso di uno spazio individuale di crescita. Le autrici riflettono sulle particolari dinamiche attivate da questo doppio contesto terapeutico e propongono – soprattutto nel lavoro con gli adolescenti – un’ulteriore ricerca di modelli individualizzati d’intervento che possano prevedere una combinazione di vari tipi di setting.


BIBLIOGRAFIA

- Azima F. J. Cramer, Dies K.,(1989): Clinical research in adolescent group psychoterapy; status, guidelines and direction, in Azima F.J. Cramer, Richmond L. H.(a cura di): Adolescent Group Psychoterapy, Madison, CT, International University Press.
- Green A. (1992): Slegare, Roma, Borla, 1994
- Heacock D. R. (1996): Adolescenti con tendenze suicidarie, in Kmyssis P., Halperin D.A. (1996) “La terapia di gruppo con bambini e adolescenti”, Milano, Masson, 1997.
- Kalogerakis M. G.(1996): Prefazione a Kmyssis P., Halperin D. A. (1996) “La terapia di gruppo con bambini e adolescenti”, Milano, Masson, 1997.
- Kmyssis P., Halperin D. A (1997: La terapia di gruppo con bambini e adolescenti, Milano, Masson, 1997.
- Masina E. ( a cura di )( 2000): La trattabilità in adolescenza, Milano, Franco Angeli.
- Miglietta D. (2000):Gruppi in età evolutiva, Torino, UTET.
- Piper W. E. (1993): Group psychoterapy research, in Kaplan H. I., Sadock B. J. (a cura di) Comprehensive Group Psychoterapy, 3td edt., Baltimore, M. D., Williams & Wilkins.
- Pontalti C. (2000): Prefazione a Miglietta D. (2000) “Gruppi in età evolutiva”, UTET, Torino.
- Winnicott D. W. (1957): La capacità di essere solo, in Winnicott D. W. (1965) “Sviluppo affettivo e ambiente”, Roma, Armando,1974.


Maria Antonietta Fenu: Psicologo-psicoterapeuta, socio fondatore SIPsIA, docente corso ARPAD, responsabile servizio accoglimento CSM ASL RMA nord, terapeuta nel Centro di Consultazione psicologica per giovani adulti “ Colpo d’ala”, ASL RMA
Ab/St: Via Filangieri 4 – 00196 Roma
Tel: 063202488
e.mail: antoniettafenu@tiscalinet.it


Sandra Maccioni: Psicologa, Psicoterapeuta dell’Età Evolutiva, Membro Ordinario e Membro del Comitato Scientifico SIPsIA.
St.: Via Taro 9, 00198 Roma
Tel/fax: 0685353040
e.mail: s.maccioni@tiscalinet.it





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