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Anno III - N° 3 - Settembre 2003

Tra sedia e divano



Dialogo con Raymond Cahn intorno alla presentazione del suo libro “La fin du divan?”

P. G. Laniso


In questo numero offro all’attenzione dei lettori il riassunto della presentazione dell’ultimo libro del Dr. Cahn intitolato “La fin du divan?”, nel quale egli propone il rapporto tra cura-tipo psicoanalitica e psicoterapia psicoanalitica nei termini di una differente utilizzazione delle produzioni inconsce che l’analista può favorire attraverso il loro ascolto. L’Autore aveva personalmente letto e discusso il lavoro con i soci del Centro Psicoanalitico di Roma, nella serata scientifica del 10 Febbraio 2003. Successivamente gli ho posto delle domande per iscritto sul tema.
Il Dr. Cahn ha gentilmente risposto ad esse con il suo proverbiale acume e concisione, come a voler evidenziare il punto interrogativo, che ha aggiunto alla fine del titolo del libro stesso, di prossima pubblicazione. Naturalmente anche le domande e le risposte sono riportate.

E’ necessario precisare che il lavoro del quale stiamo parlando non è riferito in modo specifico agli adolescenti, ma riguarda le prospettive future della psicoanalisi in generale. Perciò mi si può chiedere perché abbia pensato di riproporlo in questa Rubrica. Posso rispondere che il tema trattato è di primaria importanza e certamente, a nostro parere, riguarda gli adolescenti da vicino, come il titolo stesso della Rubrica sta a dimostrare. Inoltre, data la storia e la personalità scientifica dell’Autore, ho subito pensato che la sua grande esperienza con gli adolescenti avesse messo lo zampino in questa proposta coraggiosa e anticonformista, quanto saggia e lungimirante. Sta di fatto che R. Cahn, a una mia domanda specifica su questo aspetto, ha risposto in modo a mio parere enigmatico, come vedremo.


Nel “Preambolo”della presentazione, Cahn si domanda qual è lo stato della pratica psicoanalitica oggi, a più di cent’anni di distanza dalla sua nascita. Vitale, certo, ma senza il fascino rivoluzionario dell’esordio, in una realtà completamente cambiata, soffrendo di un certo logoramento dei suoi strumenti e concetti, banalizzati da certe pratiche psicoterapeutiche correnti, più o meno alternative e incalzata dall’espandersi tumultuoso delle neuroscienze.
A questi elementi sfavorevoli e al rischio di perdersi, la psicoanalisi può opporre la “ostinata resistenza dei fatti” e gli effetti effimeri e superficiali mostrati spesso dagli altri approcci.
D’altra parte, dal confronto con nuove figure psicopatologiche e con una richiesta pressante, la contrapposizione tradizionale fra l’oro puro della psicoanalisi e il rame della psicoterapia identificata con la suggestione ha lasciato progressivamente il posto alla problematicità, all’interrogativo. Oggi il problema è quello di aprire nuovi orizzonti che costituiscono una alternativa reale al rinchiudersi della psicoanalisi in una pratica confidenziale riservata a pochi interessati.

Dopo questa riflessione, Cahn tratteggia alcuni passaggi fondamentali della sua storia di psicoanalista. Attratto dalla psicoanalisi come modo specifico di esplorazione dello psichismo umano, intraprese, come altri giovani psichiatri, il lungo e rigoroso cammino della formazione presso l’istituzione psicoanalitica, osservando scrupolosamente la scissione fra sedute analitiche e attività psichiatrica. Nel corso della successiva attività professionale, se da un lato ha potuto scoprire con gli analizzandi le ricchezze della realtà inconscia e del lavoro sui suoi contenuti, sul transfert, sulle resistenze, riprendendo dinamiche incontrate nell’analisi personale, dall’altro ha dovuto riconoscere in alcuni pazienti l’irriducibilità di un certo tipo di resistenze ad ogni tentativo di soluzione.
D’altra parte, nella pratica psichiatrica, non ha potuto astrarsi dall’ascolto di quegli elementi che emergevano spontaneamente dall’inconscio dei pazienti ed erano determinati dalla loro organizzazione psichica.
A questo punto scoprì gli scritti di Winnicott, mano a mano che venivano tradotti. Forse per la comune provenienza dalla pediatria, o per il medesimo interesse per i neonati, i bambini, la psicopatologia dell’infanzia e dell’adolescenza, o ancora per anni di pratica “ortodossa”e confronto con i paradossi degli stati- limite e di quelli psicotici, colse subito la novità del pensiero e della visione clinica dell’ Autore inglese.
Soprattutto fu colpito dalla grande libertà e maestria con le quali Winnicott negoziava le esigenze del setting con i pazienti, nel mentre manteneva ben fermi i principi fondamentali di esso. Lo trovò un modo di rimanere psicoanalista in ogni circostanza, anche in quelle apparentemente impossibili. Facendo tesoro di questo apporto nella successiva pratica clinica, sia quella di psicoanalista che quella di psicoterapeuta nelle istituzioni, Cahn si è convinto nel tempo dell’unità dell’ascolto e dell’azione psicoanalitica, a prescindere dall’organizzazione della psiche e dalle circostanze dell’incontro. Ha individuato un filo conduttore comune, cioè l’individuazione, la ricerca continua, attenta delle circostanze che impediscono o, al contrario permettono il lavoro dell’attribuzione di senso e di appropriazione delle relazioni della mente con il sé e con l’oggetto. Da qui la necessità, in ogni circostanza, sia di ristabilire le condizioni che consentono l’uso dell’oggetto analista, sia di mettere tale oggetto al servizio del processo di soggettivazione.
Il ruolo del setting viene così reso relativo ed esteso allo stesso tempo. Cahn ritiene che quello che qualifica oggi uno psicoanalista è il modo con il quale questi contiene e trasforma le produzioni del suo paziente.

Oltre a Winnicott molti altri autori hanno arricchito di nuovi apporti, sia nella pratica che nella teoria, il discorso psicoanalitico, che si è fatto incalzante per la vitalità, ma anche eterogeneo, con grandi difficoltà di dialogo e confronto fra le scuole, se non di lotta per la primogenitura.
D’altra parte, lo sviluppo spettacolare delle neuroscienze ha prodotto una paradossale riscoperta del positivismo oggettivante e meccanicistico dell’Ottocento. Nonostante questo rappresenti l’antitesi dell’approccio psicoanalitico ai problemi dell’uomo, che pone la soggettività dell’osservatore all’interno del suo metodo specifico, anche la psicoanalisi ne è stata toccata, come tutte le scienze. Come porsi di fronte a questo fenomeno? Ritirandosi in difesa di una pratica rigorosa se non irrigidita e della purezza assoluta del metodo? Oppure, mantenendo tutta la ricchezza dell’ascolto dell’inconscio e dei processi che ne discendono, concedersi la piena libertà riguardo al ritmo e al protocollo delle sedute, liberandosi di un uso feticistico del divano? Cahn sostiene non solo che questo può consentire a un maggior numero di pazienti la possibilità di un’esperienza vera, di entrare realmente nel “gioco”del lavoro analitico, ma che questa vera e propria scommessa risulta vinta nella sua lunga esperienza e nel suo libro ha inteso renderne conto nel modo più fedele. Allo stesso tempo, l’Autore tiene a ribadire che la cura-tipo costituisce il riferimento fondamentale all’ascolto dell’inconscio e delle sue ricchezze.

Passato direttamente dal “Preambolo” alla “Conclusione”, nella quale ripete la domanda : “Quale avvenire per la psicoanalisi?”, Cahn ribadisce l’irriducibile specificità della psicoanalisi, ma mette in primo piano la constatazione evidente agli psicoanalisti e alle loro istituzioni, IPA compresa, del calo della domanda di cura-tipo e del peso minore della psicoanalisi nella cultura. Questo rende necessari, a suo parere, l’uscita degli psicoanalisti dal loro “splendido isolamento”e un ripensamento radicale della loro proposta pratica e teorica.
Si sofferma su alcuni aspetti significativi.

Gli obiettivi della cura psicoanalitica sono divenuti più realistici. Infatti si assiste piuttosto che alla scomparsa dei conflitti patologici ad una loro modifica, nel senso dell’ammorbidimento delle costrizioni interne, con l’ottenimento di compromessi accettabili. Soprattutto si cerca di favorire e aumentare la capacità del soggetto di porsi domande e di auto-osservarsi e in definitiva di promuovere i cambiamenti strutturali possibili.
Anche se nessuno può dire con certezza assoluta che cosa guarisca e garantirlo, sia per mezzo della parola o di qualsiasi atto medico, si può ritenere che nella cura abbiano un ruolo importante “…..da una parte, l’appropriazione soggettiva di ciò che finora era inaccessibile al soggetto e che, proprio per questo, esercitava un potere più o meno alienante sulla mente, dall’altra, gli effetti stessi della relazione transferale o della risposta diversa dell’analista, sul piano dell’essere, come su quello del senso.”

Quanto alla pluralità delle scuole, si può dire che la mancanza di dialogo fra esse e la loro competitività a volte esasperata hanno ingenerato una grande confusione e disorientamento. Ma perché chiedere alla psicoanalisi più che alle teorie fisiche, che lasciano tranquillamente coesistere le contraddizioni?
Certo, invece di erigere barricate, sarebbero auspicabili dialogo e tolleranza verso diversi modelli teorici e la loro eventuale utilizzazione in date circostanze e sarebbe più produttivo favorire situazioni di scambio e confronto fra esperienze che muovono da vertici diversi. Non esiste psicoanalisi in sé. Quello che conta è il guadagno che il paziente ne ricava. L’esperienza dimostra che molto spesso si tratta di un guadagno di lucidità, di benessere, di riduzione dei sintomi, di disponibilità delle parti più vive e creative di sé. “Guadagno incommensurabile, nel suo processo e nella sua qualità, rispetto agli effetti delle terapie alternative”,sottolinea Cahn.

Il problema sta nel sapere se la cura-tipo è il passaggio obbligato di tutto ciò.

Lo è certamente per ogni psicoanalista, il cui sapere non può partire che da essa. Ma per tutti gli altri? Freud pensava che potesse riguardare una parte limitata della popolazione, per il grande impegno che richiede, in termini di investimento personale e per le diverse capacità di utilizzarla. La sua estensione progressiva ad altre categorie della popolazione se da un lato ha comportato numerosi, notevoli successi, dall’altro ha evidenziato i suoi limiti di fronte alle difficoltà estreme del compito, suscitando diffidenza, ostilità e generale disincanto.

In risposta alla lunga durata delle cure-tipo e alle loro impasses, i nuovi approcci vis-à-vis sembrano in molti casi più adeguati alle richieste di un numero di pazienti comunque vasto.
L’Autore ritiene che un setting più leggero e agile, una durata dei trattamenti più breve rispetto alla cura-tipo possano favorire non di rado l’instaurarsi e lo svilupparsi di un processo nel quale l’ascolto e il lavoro sono psicoanalitici.
Spetterebbe agli analisti favorire uno sguardo profondo su di sé e sulle relazioni con gli altri, a partire dall’aiuto sintomatico richiesto, senza contare che alcuni pazienti si sentirebbero naturalmente portati ad approfondire il loro cammino sul divano.
Questo mutamento epistemologico radicale quanto silenzioso al quale la pratica psicoanalitica del vis-a-vis ci fa assistere, non sembra ancora adeguatamente compreso da molti psicoanalisti.

Non sfuggono a Cahn i rischi che l’offerta di questo tipo di cura può comportare, per esempio quello di assumere, da parte degli analisti, posizioni formali come i silenzi o le interpretazioni parsimoniose, senza che si sia attivato un processo, il che ridurrebbe il vis-a-vis a parodia caricaturale della cura- tipo. Oppure il rischio che una pratica eccessiva del vis-a-vis faccia perdere all’analista una sufficiente familiarità e assiduità nell’ascolto dell’inconscio.
Ciò nonostante risulta chiaro che per lui l’essenza della pratica psicoanalitica e della psicoterapia psicoanalitica è comune. “Ricordiamo che la psicoterapia psicoanalitica non è una psicoanalisi sul divano al ribasso. E’ un’ altra maniera di fare anche psicoanalisi, che implica tecniche e modalità di intervento sue proprie. Si apre così un vasto campo alla pratica e alla riflessione, dove l’accento posto sull’interrelazione non implica necessariamente l’esclusione della sessualità infantile”.

Alla fine un’ultima considerazione e un auspicio. Secondo Cahn la cura sul divano si rivela sempre più appannaggio dei professionisti della relazione, cioè degli psicoanalisti, anche se molti la considerano tuttora la maniera più adeguata e completa per modificare la vita psichica. Però la costante rarefazione degli psichiatri che scelgono il divano conferma l’attuale orientamento obiettivante della psichiatria, con “l’evacuazione della dimensione relazionale”. Perciò l’Autore auspica che per contrastare questa tendenza, si vada formando un corpo di psicoterapeuti-psicoanalisti che si propongano e si impongano per la qualità del loro lavoro.
“Non è proibito sognare che un giorno neuroscienziati e cognitivisti, scoprendo l’irriducibilità della soggettività al loro approccio, accettino il dialogo e lo scambio con coloro che si confrontano con essa ogni giorno. Si sottolinea spesso il paradosso per cui la psicoanalisi, per tanto tempo percepita come diabolica e sovversiva, è oggi uno degli ultimi baluardi del soggetto. Gli adattamenti di setting cui essa si vede indotta potrebbero allora ampliare e rafforzare la capacità di ogni analista di permettere all’altro di utilizzare al meglio e a proprio modo le sue risorse nascoste, malgrado l’infinita molteplicità degli ostacoli che vi si oppongono. Cioè “l’arte del possibile”, nella sua quintessenza stessa”.


Veniamo al dialogo successivo con Raymond Cahn.

Laniso: “Dr. Cahn, vorrebbe innanzitutto precisare quali sono a suo avviso i criteri di base che giustificano l’impiego della psicoterapia psicanalitica e la differenziano dalla cura-tipo, pur avendo esse una origine comune?”
Cahn: “I criteri di scelta della psicoterapia psicoanalitica rispetto alla cura-tipo sono di due ordini, che riguardano : a) le reticenze, a mio avviso sempre maggiori, da parte dei pazienti davanti alle costrizioni materiali e psicologiche legate alla cura-tipo. Esse inducono a proporre un setting più agile che tuttavia permetta di usufruire di un lavoro psicoanalitico meno “ideale”ma comunque di qualità.
b) I soggetti che, a causa della loro intensa angoscia di separazione, hanno un bisogno travolgente della presenza dell’oggetto oppure d’investire enormemente la realtà esterna percettivo-motoria piuttosto che il loro funzionamento mentale.
c) I pazienti al limite dell’analizzabilità che possono certamente essere trattati sul divano ma che, proprio a causa del ruolo determinante del setting e del controtransfert nella loro problematica, troveranno nel vis-a vis uno spazio concreto, una libertà di contro-atteggiamenti maggiori che nella cura tipo;
d) oppure, al polo opposto, le richieste legate apparentemente o in un primo tempo, a un conflitto o ad un trauma attuale,”a caldo”.
( Si noterà che i criteri da due sono diventati quattro. Forse il Dr. Cahn ha inteso distinguere i disturbi “attuali”da tutti gli altri, per cui il secondo ordine dei criteri riguarderebbe il punto d. )

Laniso: “Nel corso della serata scientifica presso il Centro Psicoanalitico di Roma, un collega le domandò se, a suo parere, sia possibile effettuare la cura-tipo sul divano con la frequenza di due sedute settimanali. La sua risposta fu negativa. Potrebbe approfondirne qui le ragioni?”
Cahn: “La cura tipo quasi per definizione implica una continuità minima nel lavoro analitico e quindi una frequenza”sufficiente”di sedute : cinque, quattro, tre, per settimana? La questione si discute. Sembra, empiricamente, che al di sotto di questa frequenza si ha a che fare con un altro processo, un’altra tecnica e che quindi non si può più parlare di”cura-tipo”.

Laniso: “Quanto, a suo parere, il fatto di avere una grande esperienza come psicoanalista di adolescenti ha influenzato le proposte metodologiche che lei ha avanzato ne “La fin du divan?”
Cahn: “La pratica analitica con gli adolescenti mi ha insegnato una libertà controtransferale, la necessità di una inventiva tecnica, una sollecitazione controtransferale di un’altra intensità, talvolta persino di un’altra natura rispetto agli adulti.”

Laniso: “Quando si leggono i suoi lavori scientifici si ricava l’impressione che lei presenti l’adolescenza di per sé come modello di comprensione di certe patologie dell’adulto, come le personalità narcisistiche e gli stati- limite. Ritiene corretta una impressione del genere? E ancora, quanto, secondo lei, la psicoanalisi dell’adolescente ha influenzato la cura-tipo, se non la psicoanalisi in generale, sia dal punto di vista della tecnica e del setting, sia dal punto di vista della teoria?”
Cahn: “Sono effettivamente convinto della somiglianza tra le organizzazioni psicopatologiche degli adolescenti, nei quali i meccanismi di difesa arcaici ostacolano più o meno massivamente le possibilità di mentalizzazione, di soggettivazione e quelle degli adulti con stati-limite o personalità narcisistiche. Ecco perché in questi ultimi io propongo la teorizzazione di un processo di soggettivazione incompiuto. Per quanto riguarda il subentrare di uno stato psicotico nell’adulto, sono convinto che esso implica ciò che Piera Aulagnier definisce”potenzialità psicotica”, nella quale l’adolescenza ha potuto svolgere un ruolo determinante.
Del resto mi pare che lo psicoanalista di adolescenti, per l’esperienza clinica che gli è propria e per la sua ipersensibilità a tutto ciò che riguarda l’adolescenza, abbia, nella cura degli adulti,un ascolto molto più sensibile alla conflittualità che si è potuta svolgere dopo la pubertà e all’impatto che ne consegue con la problematica del paziente adulto”.





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