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Anno IV - N° 1 - Gennaio 2004

L' articolo del maestro




“L'autocura in adolescenza”

E. James Anthony



Uno scrittore contemporaneo (Fowles, 1971) ha affermato che l’adolescenza ha bisogno di essere vissuta e sentita, non collocata e studiata; tutto ciò mette in difficoltà l’operatore psicologico. Per risolvere tale difficoltà, egli deve dividersi, come abitualmente fa nell’esercizio della sua professione, in una parte esperienziale soggettiva e in un’altra oggettiva, e oscillare empaticamente tra le due. Quindi egli può studiare l’adolescenza mentre la sperimenta, essendosi egli stesso formato a studiarla con sensibilità. In nessun altro periodo dello sviluppo umano questo duplice approccio riveste così tanta importanza tanto per la comprensione che per il trattamento. In nessun altro periodo come questo l’individuo è così sensibile all’essere osservato piuttosto che essere toccato, ed anche così acutamente e intensamente cosciente di sé. Indubbiamente questi diversi fattori conducono allo sviluppo della psicopatologia, ma possono anche portare un forte potenziale per l’autocura.
Erikson (1968) ne era consapevole quando sottolineava che “scegliere una terapia per se stessi, dipendeva da un giusto movimento di deriva dato con lo spirito giusto e al momento giusto, e che tutto ciò dipendeva da una varietà di circostanze…dove la pienezza delle risorse che il giovane poteva mettere in moto dipendevano da condizioni favorevoli”. Questo lavoro tratterà dei fattori che contribuiscono all’integrità d’animo, tratterà dei tempi e delle condizioni che contribuiscono a generare la propensione dell’autocura.


Alcuni pionieri dell’autocura

Freud è stato sicuramente il grande precursore dell’autocura, annotando, nel corso della sua autoanalisi, in maniera fedele e memorabile sogni, ricordi, fantasie, sintomi, e psicopatologie quotidiane. Tuttavia, secondo Bernfelds (1944), egli attraversò un profondo e rivoluzionario cambiamento durante l’adolescenza riguardo all’uso del potere, rimandando la sua autocura all’età di 31 anni, quando sviluppò una nevrosi temporanea. Questo fu un difficile periodo per lui, poiché coincise con il fallimento della sua teoria della seduzione per spiegare la genesi degli stati isterici e ossessivi (Freud 1954). Nei tre anni successivi impiegò sforzi continui per esplorare le proprie profondità, servendosi appieno, anche se a distanza, di una peculiare relazione di transfert con Fliess. L’uso di alcune figure lontane, ma responsive alle quali siamo sensibili, è abbastanza caratteristica dell’autocura da parte dell’adolescente. L’introspezione sistematica di Freud era valida non solo come cura, ma anche come indagine. In questo processo, Freud scoprì dentro di sé un complesso neurogenetico nucleare che doveva riscontrare ogni volta di nuovo nei pazienti per il resto della sua vita. Ogni tanto proseguiva con la sua autoanalisi ma, per ragioni che non furono rese manifeste né spiegate, non intraprese mai un trattamento formalizzato. La motivazione potrebbe essere che l’autocura sia stata sufficiente.
Un altro pioniere è stato Jung (1963), il quale durante l’adolescenza cominciò ad utilizzare su di sé la terapia del gioco ogni qual volta si sentiva interiormente sotto pressione. Più tardi l’avrebbe applicata ai pazienti notando che tale metodo non solo lo aiutava, ma lo rendeva capace di comprendere fantasie che altrimenti avrebbe soltanto percepito vagamente. Provava un po’ di vergogna nell’utilizzarla, ma non ebbe mai dubbi sulla sua efficacia. Disse “…ero in un momento critico del mio destino ma mi sono arreso solo dopo continue resistenze e con un senso di rassegnazione. Per cui è stata un’esperienza molto umiliante rendermi conto che non restava altro che fare giochi da bambini”.
E’ illuminante notare come questi due esempi pionieristici di autocura fossero differenti così come lo sono i trattamenti freudiani e junghiani e come, per estensione, lo sono le tecniche degli analisti freudiani e junghiani.


Autocura e autopsicoterapia

L’autocura può essere considerata un fenomeno umano generale onnipresente ed inevitabile quanto il transfert. Sin dall’inizio dei tempi le persone erano capaci di curare se stesse sia fisicamente che psicologicamente. Così come non sempre ha successo l’intervento di medici qualificati, cosi anche l’autocura può risultare dannosa. Si può concepirla come una manifestazione della pulsione autoconservativa dell’uomo, opposta a quella autodistruttiva. Ambedue si mantengono in un delicato equilibrio nel corso della vita e puntualmente, quando gli impulsi autodistruttivi sfuggono al controllo, le regolazioni autoconservative intervengono in maniera terapeutica a ristabilire l’equlibrio.
L’autopsicoterapia è una forma più specializzata dell’autocura e tende a essere condotta con maggiore autoconsapevolezza e intenzionalità. L’individuo si trasforma in un paziente e cura se stesso attraverso tecniche psicologiche. Può analizzarsi, interpretarsi, vincere le proprie resistenze, sviluppare insight, annotare i propri sogni, le fantasie, i ricordi, e può perfino tentare, a volte riuscendoci, di rendere conscio l’inconscio. Questa era la tecnica utilizzata da Freud, raramente utilizzata da altri in modo così nuovo ed elaborato. Come per la psicoterapia, anche per l’autopsicoterapia ci sono due modelli fondamentali: uno analitico e l’altro non analitico. Nel primo il processo si compie interiormente, mentre nel secondo si include la manipolazione di persone e fatti, vengono stabiliti i cambiamenti dell’ambiente e saltuariamente, quando aiuto e sostegno esterni divengono necessari, si ricorre a sedute congiunte con genitori, insegnanti, fratelli ed amici. Il metodo non analitico può utilizzare l’autosuggestione, l’autopersuasione, l’autocatarsi e a volte, in particolari condizioni di stress, quello che si può chiamare autointervento di crisi. Mentre le autopsicoterapie analitiche tendono nel complesso ad essere a lungo termine ed impegnative per la loro pesante richiesta di costante introspezione, quelli non analitici sono transitori, legati a determinate situazioni e di gran lunga prevalenti.


Il potenziale per l’’autopsicoterapia

Sembra esserci una relazione stretta tra il potenziale a disposizione per l’autopsicoterapia, il portare a termine la psicoterapia e l’essere trattato psicoterapeuticamente. Requisiti come l’intelligenza, l’introspezione, l’attitudine psicologica, la capacità di insight e la sensibilità alle sfumature della vita intrapsichica sono generalmente riconoscibili nell’esito favorevole di tutte e tre le imprese.
Sorgono una serie di domande in relazione al processo analitico. Viene da chiedersi perché una persona deve curarsi da solo piuttosto che ricevere il trattamento da un altro? Si tratta di una persona che oppone resistenza ad un trattamento ordinario o che dispone di capacità terapeutiche tali da essere terapeutico verso se stesso o verso gli altri? L’autopsicoterapia è una funzione propria della persona o affiora in seguito ad una serie di circostanze particolari? Perché qualche volta è analitica ed altre, invece, non analitica? Ci sono condizioni speciali per praticarla con successo? Ad esempio, è necessario essere in tensione oppure rilassati, soli o con altri, sedentari o in movimento, distesi o seduti? E’ meglio svolgere speciali sedute con se stessi per di assicurarsi la privacy, o le giuste opportunità? Soprattutto, è possibile insegnare alle persone a diventare analisti di se stessi?
Non è facile rispondere a queste domande, dal momento che questo campo di indagine è stato così poco esplorato. Generalmente si può dire che gli analisti di se stessi tendono ad esserlo anche con gli altri. Possono ricorrere all’autocura quando non è possibile svolgere l’analisi, oppure come un’acquisizione successiva all’analisi. E’ stato affermato che il più importante esito della psicoterapia è che essa prosegue rendendo il paziente psicoterapeuta di se stesso. Il processo autopsicoterapeutico che segue l’analisi, è stato descritto in questo modo da un paziente visto in uno studio di follow-up (Wallerstein, 1960):
“Io non utilizzo necessariamente l’intuito, ma un certo modo di pensare riguardo al mondo, a me stesso e ai miei problemi… è diventato parte della mia esistenza ma non mi metto spesso seduto a pensare “beh adesso, qual è il significato di tutto questo e come sono arrivato qui? Cosa è successo?”…non è mai qualcosa di organizzato; è sempre il vagheggiare di pensieri nella tua testa. Elabori un certo aspetto, un punto di vista, che poi scompare e qualcos’altro viene fuori e così via”.
Ticho (1967) parla di una nuova abilità che affiora dopo la fine dell’analisi che è basata sulle identificazioni con il terapeuta, con il suo assetto terapeutico, e sul processo terapeutico, tutti elementi che implicano un particolare modo di pensare (libere associazioni), un ascolto oggettivo e rispettoso (con il “terzo orecchio”) ed una comprensione più profonda (attraverso l’interpretazione). Seguendo il trattamento, la libera associazione può all’inizio essere utilizzata intenzionalmente ma poi diventa gradualmente automatica; ascoltare se stesso con interesse e obiettività fa parte anche di una buona eredità terapeutica. Il terzo fattore di autointerpretazione è il più difficile da acquisire, poiché il terapeuta non ne da esplicita definizione né rivela i suoi processi. La sua costruzione avviene nella mente dell’analista rimanendo pressoché ineluttabile. In accordo con Ticho, il processo autoterapeutico è in gran parte un’attività preconscia che a volte si insinua nella coscienza quando si creano condizioni interne di malessere. Se assume una struttura formale o casuale dipende dal fatto che sia autoanalitica o orientata sulla crisi. Nella varietà autoanalitica, il paziente cercherà da sé opportunità che rendano la sua situazione il più possibile rilassata, mentre nel tipo non-analitico il paziente coglierà il momento, trattandolo come è necessario.
Quando inizia a formarsi il potenziale per l’autopsicoterapia? Generalmente i bambini in età prescolare non sono capaci né inclini all’autocomunicazione e all’introspezione, ma si abbandonano spesso alla terapia del gioco, dominando attraverso “l’esternalizzazione nel gioco” le angosce provocate da situazioni traumatiche. I tentativi autoterapeutici di bambini in età di latenza non sono altro che sforzi di tenersi in maniera ossessiva impegnati in preoccupazioni circoscritte alla raccolta, alla classificazione ed al calcolo. Nell’adolescenza, come hanno dimostrato Piaget e Inhelder (1958), l’individuo diventa capace di introspezione, analisi, pensiero astratto, ragionamento ipotetico-deduttivo, e di costruzione teorica sistematica. Conseguentemente diventa anche potenzialmente capace di autopsicoterapia e, in previsione di questo, può iniziare a tenere un diario sui suoi pensieri, sentimenti, sogni, attività e relazioni con oggetti. Incastrato tra le difese dell’età di latenza e la vita adulta, mai come in questo periodo l’adolescente avvertirà lo stesso senso di prossimità con il proprio mondo interno, a parte i suoi periodi di crisi e di crollo. Per tutte queste ragioni l’adolescenza è l’epoca d’elezione per l’autopsicoterapia. Pressoché per le stesse ragioni, è il periodo in cui le spinte autodistruttive possono avere la meglio su quelle autoconservative, con la conseguenza che ciò che inizia come autocura può rapidamente degenerare in odio verso se stessi con impellenti desideri di farsi del male.
Il potenziale per la modalità analitica di autocura può essere determinato dallo stile cognitivo. Un tipo di pensiero analitico può nascere abbastanza precocemente durante lo sviluppo. Nel diciannovesimo secolo Mill (1957) ha scritto sulla necessità di installare l’attitudine analitica mediante un’educazione intensiva nella prima infanzia e Poe (1963) ha parlato di menti analitiche che, in modo innato, ricevevano piacere “a sbrogliare” temi complessi. Successivamente nel campo della psicologia sperimentale, Witkin (1964) ha dimostrato l’esistenza di uno stile cognitivo analitico di base. Sembrerebbe logico quindi presumere che i pensatori analitici tendano ad una autopsicoterapia analitica e quelli non analitici ad una autopsicoterapia catartica e basata sull’azione. La dicotomia, comunque, non può essere così rigida. Ci sono testimonianze, ad esempio, secondo cui la psicoterapia psicoanalitica è in grado di trasformare lo stile cognitivo non analitico in analitico. Un paziente, descritto da Ticho (1967), si è trasformato da individuo prevalentemente orientato all’azione prima della sua analisi, in una persona introspettiva e contemplativa dopo la cura. Con il successivo ricorso dell’autopsicoterapia analitica, la nuova attitudine analitica era ancor più valorizzata.
La sensibilità verso se stessi ed i propri sentimenti, può essere accresciuta mediante l’abituale introspezione, ma non c’è alcun dubbio che l’autoconsapevolezza, le inclinazioni psicologiche e la capacità di intuito siano risultati di un primo sviluppo derivante in larga misura dal rapporto madre-bambino. E’ all’interno della simbiotica unione che sono nate l’empatia e l’intuizione. Quando poi l’individuo è “covato” dall’unione simbiotica, la sensibilità che porta con sé è l’espressione di quella presente all’interno di tale unione. L’empatia verso se stessi è un concetto inusuale che riconosce una certa risonanza tra le parti consce ed inconsce della personalità.
La cura del sé può essere sporadica, ad intermittenza o sistematica. Come per la psicoterapia, può impiegare settimane, mesi o anni. Nella sua forma sporadica può presentarsi soltanto quando una particolare concatenazione di circostanze creano il momento, il luogo e la condizione, secondo Erikson, in maniera del tutto imprevedibile, ed allora l’individuo viene fuori come autopsicoterapeuta. Egli non è normalmente autopsicoterapeutico, ma la vita, intrecciando i suoi fili tra gli esseri umani e gli eventi, tra le situazioni del passato e del presente, costruisce una rete dinamica fatta di ricordi, fantasie ed esperienze attuali che agiscono in modo terapeutico sulla persona. Lo stesso dicasi per l’innamoramento che, in adolescenza, si può considerare come un’importante estensione del tentativo di autocura per giungere ad una migliore definizione della propria identità proiettandola sull’altro, in modo da vederla riflessa e chiara (Erikson, 1968).


Il percorso dell’autopsicoterapia

Per studiare la natura e l’evoluzione dell’autocura, Erikson (1968) ha sentito che l’indagine psicologica doveva concentrarsi psicostoricamente negli uomini di genio che così spesso hanno seri problemi di identità, che portano a prolungate crisi durante l’adolescenza. Più specificamente, egli esortava il ricercatore a studiare “le crisi di identità nella vita di individui creativi, da loro affrontate e risolte soltanto offrendo ai loro contemporanei un nuovo modello di risoluzione come quello che trova espressione in opere d’arte o in imprese originali, e che, inoltre, sono desiderosi di raccontarlo in diari, lettere e autorappresentazioni”. Erikson aggiunge che “come le nevrosi di una data epoca rispecchiano l’onnipresente caos interiore dell’esistenza dell’uomo in un modo nuovo, così le crisi creative segnalano le soluzioni uniche di quel momento”.
I metodi con cui gli adolescenti superiori hanno affrontato nel passato i conflitti provenienti dall’inconscio emotivo, hanno molti punti in comune con le attività di risoluzione di problemi associate all’inconscio cognitivo. Entrambi possono essere ugualmente creativi nella ricerca delle soluzioni ed essere pienamente terapeutici nel processo di ricerca di soluzioni. La presenza di un inconscio cognitivo è stata proposta da Galton (1943), alla fine del secolo, il quale ha sostenuto che più lavorava con l’intelligenza inconscia (che ha paragonato alle fondamenta di una casa dove tutto è di funzionale importanza) e meno attenzione era rivolta ai prodotti della coscienza. Lo stesso punto di vista riecheggiava tra diversi e distinti psicologi come Binet, Claparede e Piaget. Piaget (1951) era convinto che esistesse un inconscio cognitivo ed uno emotivo, che il suo sistema di errori prendeva la forma di “fissazioni inconsce” e che potevano essere definiti dei “complessi cognitivi repressi”, sebbene scartasse il concetto di repressione, sentendo che l’inconscio si trovava in una temporale e topologica continuità con la coscienza. Le connessioni mentali erano tuttavia presenti fra il conscio e l’inconscio così come tra la sfera cognitiva e quella emotiva.
Il matematico francese Poincaré (1917) ha tracciato le fasi delle scoperte matematiche nei suoi studi, dimostrando come attività cognitiva conscia e inconscia si alternino l’un l’altra. Il primo stadio nella genesi dell’insight cognitivo era quello della “preparazione”, dove il lavoro già svolto sul problema veniva riesaminato proprio dove la conoscenza e la comprensione era fallita. Il secondo stadio era quello “dell’incubazione”, durante il quale lavoro era sotterraneo. Veniva poi il terzo stadio di “illuminazione” o “insight” che spesso era improvviso ed inaspettato, simile al fenomeno “ah-ah” secondo la teoria della Gestalt. Le maggiori illuminazioni capitano spesso nei momenti più inopportuni, su un bus londinese, camminando sulla spiaggia, infilandosi in un taxi e così via. Lo stadio finale consisteva nell’ elaborazione della scoperta e nelle prove di validazione. Il primo e l’ultimo stadio sono i risultati di un lavoro inconscio svolto da quello che egli chiamava “ l’Io subliminale o subconscio”, che riteneva comunque superiore all’Io conscio.
La comparsa dell’insight emotivo segue approssimativamente lo stesso corso, facendo pensare di nuovo che le due sfere inconsce non siano del tutto differenti.
Assumendo l’autopsicoterapia analitica come modello, gli stadi della scoperta terapeutica potrebbero essere descritti come segue: il primo, come un’iniziale fase preparatoria caratterizzata da angoscia e da un’attiva autoricerca sulle possibili soluzioni al conflitto emotivo. Durante questo stadio l’adolescente creativo leggerà in modo ampio ed intenso, registrerà i suoi sogni, e le sue fantasie a occhi aperti, ruminerà su domande e su possibili risposte, su conclusioni ed eventuali significati, su effetti e possibili cause. L’intera impresa evoca le congetture di Shaw (1959) sulla ragazza nera alla ricerca di Dio e su molti altri adolescenti in pellegrinaggio riportati in letteratura. Il secondo stadio è spesso introdotto sulla scia di una “domanda terribile” che nasce dal compendio di conoscenza ed apprendimento accumulati nel primo stadio. Questo degenera in una crisi emotiva, caratterizzata da un periodo di repressione durante il quale l’individuo rimane in un limbo dove apparentemente non avviene nulla. Gli insight improvvisi del terzo stadio possono verificarsi in qualsiasi situazione, ed essere prodotti in una grande varietà di modi. L’illuminazione può avvenire in seguito ad un sogno, il cosiddetto “sogno salutare” descritto da Winnicott (1958). Altri momenti di insigt possono derivare da letture di libri, fortunati incontri con estranei, confronti tra fantasie dominanti e realtà, e sintesi di elementi apparentemente incompatibili all’interno della personalità. Durante lo stadio finale, l’autopsicoterapia elabora gradualmente le nuove opportunità prodotte dall’insight, e trova spiegazioni alle illuminazioni dovute dall’intuizione. L’elaborazione potrebbe essere relativamente breve o, insieme alla scoperta intellettuale, potrebbe diventare un programma di vita.
Generalmente l’autopsicoterapia comprende la collaborazione di entrambi gli inconsci, cognitivo ed emotivo, e la sua efficacia è correlata alla capacità dell’individuo di usare insight cognitivi ed emotivi. Nella psicoterapia la tendenza a scartare gli insight cognitivi come difensivi ha portato in passato a fastidiosi conflitti nel terapeuta, a proposito della relativa l’importanza dell’insight e dei sentimenti. L’esperienza insegna che né la conoscenza intellettuale né i sentimenti abreagiti sono i soli responsabili del progetto terapeutico. La stessa cosa vale per l’autopsicoterapia. L’armonioso funzionamento di intelletto e affetto in reciproca relazione fornisce un più solido fondamento all’intero corso dell’analisi. L’equilibrio tra i due elementi può variare nelle diverse fasi del processo curativo. Ad esempio, dubbi intellettuali possono generare burrasche emotive e soluzioni intellettuali o emotive; i conflitti emotivi possono essere simbolizzati all’interno di una crisi intellettuale, con la sintesi finale che coinvolge entrambi in un cognitivo programma emotivo di vita. Questi cambiamenti verranno semplificati nelle spiegazioni seguenti.
Esistono tre tipi di programmi di vita curativi che possono derivare dal processo autopsicoterapeutico: un sistema orientato al futuro proveniente da un qualche insight di sintesi che propone un programma volto ad occupare completamente e costantemente l’individuo per gran parte della vita adulta; un sistema orientato sul passato che ha origine da un bisogno compulsivo di recuperare un tempo perduto e fortemente desiderato, e che potrebbe comportare una massiva ricostruzione autobiografica; ed un sistema orientato sul presente che nasce da qualche fantasia attuale su di sé in relazione al mondo che poi si estende ad una quantificabile impresa sociale. I programmi di vita constano di uno svariato assortimento di sublimazioni, sintesi, conversioni e trasformazioni simili, di sacrificio e di abnegazione di sé, di fantasie di autosostentamento e di cambiamenti drammatici dello stile di vita.
Nel modello non analitico di autopsicoterapia a breve termine, alcuni di questi stadi potrebbero essere tralasciati in modo che ci sia mancanza di preparazione, di illuminazione o di ricostruzione ma non della crisi. Questi quattro stati generalmente sono presenti nel modello analitico a lungo termine, anche se solo in forma rudimentale.


Illustrazioni di autopsicoterapia analitica

Non tutti gli adolescenti “autorevoli” che hanno contribuito alla nostra comprensione dell’autopsicoterapia hanno conseguito il medesimo successo nella cura di se stessi. Piuttosto la maggior parte di essi hanno lavorato per costruire difese, istituito appropriati dispositivi per fronteggiare (coping) gli eventi, e sublimare alcune delle loro inaccettabili pulsioni, quindi permettendo loro di sviluppare alcune capacità di base dell’Io a più alti livelli. Tutti hanno vissuto delle vite lunghe, creative e produttive convivendo con la loro nevrosi senza che quest’ultima paralizzasse i loro sforzi.


Il caso di Mill
(Come annotato nella sua autobiografia, 1957)
John Stuart Mill fu educato in modo molto distorto da suo padre e da Jeremy Bentham con l’intento di riformare il mondo e di estendere la nozione di utilitarismo. Si trattò, sulla base di tutti gli intenti ed i propositi, di un’educazione senza madre e libera dagli affetti, con un’enfasi sul pensiero rigoroso analitico. Non viene fatta alcuna menzione della madre nella sua autobiografia, e per questo sarebbe difficile, come Freud ha messo in evidenza, concludere dalle sue austere pagine che il mondo degli esseri umani fosse composto da due sessi distinti. Egli lavorò infaticabilmente per risolvere i problemi del mondo durante la sua adolescenza, ma a diciannove anni, dolorosamente consapevole della sua unilateralità, rivolse a se stesso la “terribile domanda”: Supponendo che tutti i suoi obiettivi nella vita, come stabilito da suo padre, si fossero completamente realizzati, lui sarebbe stato felice? “Un’irrefrenabile auto-consapevolezza rispose chiaramente, ‘no’. A ciò il mio cuore sprofondò con me; l’intero fondamento sul quale la mia vita era costruita crollò. Mi sembrò non ci fosse rimasto nulla per cui vivere.”
Egli divenne profondamente anedonico, indifferente, perplesso circa gli scopi della vita in generale e della sua vita in particolare. Poi venne il momento dell’illuminazione. Leggendo un’autobiografia di un autore francese s’imbatté in un passaggio relativo alla morte del padre, quando l’autore era ancora un adolescente e descriveva la decisione di assumere il ruolo del padre morto e la guida della famiglia. Mill si era commosso subito fino alle lacrime, sperimentando un enorme senso di solievo. I suoi sentimenti di depressione e di morte furono alleviati non sentendosi più disperato e impotente.
In associazione a questa ripresa emotiva avvenne una riorganizzazione cognitiva. Giunse alla conclusione che la consuetudine dell’analisi, insegnatagli da suo padre, aveva a tal punto indebolito i suoi sentimenti che egli aveva perso la capacità di sperimentare il piacere e il desiderio. Dal momento che questo non era chiaramente un modo di vivere appagante, egli cominciò a lavorare su una teoria dell’anti-consapevolezza di sé, con l’importante implicazione che il sé non era là solo per essere sezionato, ma anche per essere sperimentato e sentito. L’influenza di suo padre non fu mai eliminata, ma egli aggiunse ad essa, all’interno del suo sistema filosofico, alcuni sentimenti materni da tempo sepolti. Nella vita successiva divenne in modo evidente più umano, ma non del tutto sano dal punto di vista psicologico, sebbene fu in grado di dar forma ad una limitata relazione emotiva con qualcuno dell’altro sesso.


Il caso di Piaget
(Come riportato nella sua autobiografia, 1935)
Piaget nella vita si ritirò precocemente da sua madre, dai sentimenti e dall’infanzia in generale, a causa del preoccupante stato mentale della madre. Egli trascorse la sua latenza assorto in collezioni, invenzioni e classificazioni. Suo padre era erudito, libero pensatore, scrupoloso, ben adattato e scientificamente incline; sua madre era eccessivamente emotiva e altrettanto eccessivamente religiosa. Nel corso dell’adolescenza fu tormentato dalle attrazioni conflittuali per la religione e la filosofia da una parte e per la scienza dall’altra, ricercando risposte assolute, leggendo voracemente, e sempre domandandosi con curiosità se la religione o la scienza lo avrebbero condotto alla Verità. Dopo aver lottato a lungo con il problema, egli arrivò alla “terribile domanda”: queste grandi istituzioni umane della conoscenza possiedono spiegazioni soddisfacenti riguardo al significato della vita? Se nessuna poteva offrirle, erano a quel punto solo cose di nessun valore?
Egli entrò allora in uno stato di dubbio paralizzante, ed era così intimamente scosso, che fu mandato per un anno in montagna a riposare la sua mente sovraccarica. Tra le sue amate montagne la lotta interiore continuò fino al giorno in cui in quel luogo ebbe una rivelazione, in forma di una grande visione di sintesi, che sembrò risolvere tutti i suoi penosi dubbi. Una volta in possesso di questo schema, egli si riprese dalla sua inerzia e si accinse ad annotare l’intera esperienza in uno straordinario romanzo autobiografico. Intitolato in modo consono “La Ricerca”, il libro ci fornisce il prototipo di un pellegrinaggio di un adolescente (Piaget, 1917).
Il libro è diviso in tre sezioni: preparazione, crisi e sintesi. Il protagonista, Sebastian, disincantato e disilluso dalle contrastanti pretese della religione, della filosofia e della scienza, dava inizio ad un pellegrinaggio di ricerca per poter risolvere alcuni dei suoi molesti dubbi. Egli aveva compreso che le religioni ortodosse e quelle non ortodosse sono tutte inclini al mitico e al dogmatico, e che la scienza di per sé non è meno pretenziosa ed autoritaria. Il realizzare che non aveva nessuna guida lo aveva spinto ai limiti della disperazione. La sua vita appariva eccessivamente intellettuale, senza spazio alcuno per le esperienze sensuali. A volte, durante solitarie passeggiate, sarebbe caduto in stati di estasi che lo avrebbero portato indietro in un mondo di giovinezza nel quale ogni cosa era ancora gioiosa. Egli bramava di immergersi in un vortice di sensazioni, di amare ed essere amato, e di sperimentare la passione. Si sentiva preso in trappola tra queste insaziabili domande della mente e dei sensi, e raffigurava se stesso come “imprigionato nella sua individualità e posseduto dalla malinconia della sua mente analitica.” Appariva terribilmente solo e pregava Dio di concedergli la forza di riprendere possesso di se stesso. La disperazione e il disgusto lo avevano sopraffatto e lui si sentiva come un bambino piccolo del tutto abbandonato. Questa descrizione della crisi ci ha fornito uno dei più vividi ed esaurienti ritratti di un classico disturbo di un adolescente.
Fu a questo punto che Sebastian d’un tratto vide la luce, ed ogni cosa nella vita parve trovare il suo posto. Egli comprese che tutto ciò che è vivente, sia biologico che psicologico, tende verso un equilibrio governato da tre principali leggi. La prima di queste definiva la relazione tra il tutto e le sue parti, in termini di influenza del tutto sul tutto, del tutto sulle sue parti, delle parti sopra le altre parti, e delle parti sopra il tutto. La seconda legge aveva a che fare con la relazione tra assimilazione ed accomodazione, e la terza metteva insieme gli elementi delle prime due leggi.
Questa grande sintesi non solo rappresentava simbolicamente il mettere insieme le contrastanti parti paterne e materne all’interno dell’intera personalità di Piaget, ma anche fornire una cornice teorica per i principali elementi del suo successivo sistema psicologico. Il meraviglioso insight intellettuale del ragazzo forniva l’uomo per i futuri 55 anni di un programma di vita, gli ingredienti del quale erano derivati, nella sofferenza del suo turbamento adolescenziale. Tutto ciò appariva lontano da una completa guarigione, come Piaget stesso riconosceva, ed egli rimase danneggiato dalle angosce, una parte delle quali furono trasformate in un'attività lavorativa-compulsiva.


Il caso di James
(Come riportato nelle sue lettere, 1920)
William James divenne un autopsicoterapeuta precocemente in adolescenza, quando comprese che la sua vita stava per essere completamente dominata dalla benigna tirannia del proprio padre, il quale, come James Mill, concepiva il compito della sua vita nei termini del miglioramento dei suoi figli. Il ragazzo sviluppò marcati sintomi psicosomatici che lo preoccuparono, e fu così assorbito da se stesso da passare la maggior parte del suo il suo tempo analizzando i suoi pensieri ed i suoi sentimenti. La sua dipendenza e la sua remissività di adolescente si erano prolungate considerevolmente nella vita adulta. C’è il dubbio se, come Mill, si riprese mai dall’influenza di suo padre. In tarda adolescenza egli lottò passivamente tra il proprio desiderio di diventare un artista e il desiderio, che suo padre aveva per lui, che diventasse un dottore. Si dibatte indeciso fra le due possibilità per un po’, e alla fine scelse qualche cosa di intermedio fra le due possibilità. Il compromesso vocazionale in psicologia e filosofia non fu in se stesso sufficiente per emanciparlo. La crisi si intensificò e si pose a se stesso più e più volte ancora, la stessa “terribile domanda”, e cioè se una persona potesse essere realmente libero, se le proprie attività fossero interamente determinate da forze esterne. Il suo problema personale in questo modo era stato spostato su un livello astratto, ma esso rimaneva nondimeno angoscioso.
Poi un giorno, James, come Mill, stava leggendo un libro, ancora una volta di un autore francese, il quale si era costruito una valida ragione in favore della propria realtà individuale, del proprio potere creativo e “della resistenza autogovernativa del proprio Io nei confronti del mondo”. Ne ricavò un grande senso di liberazione e suo padre rimase impressionato dalla sua nuova vitalità. Suo figlio, quasi d’un tratto, aveva scoperto il Libero Arbitrio ed era totalmente esaltato da questa pratica di pensiero. Allo stesso tempo, le sue angosce rispetto al divenire malato in senso psichiatrico furono alleviate, poiché ora riteneva che i disturbi mentali fossero determinati psico-geneticamente e non dipendessero da fattori fisici. L’uomo era il padrone della propria mente e delle sue disfunzioni!
Nel postulare i principi dell’auto-determinazione e della psicogenesi, egli scoprì, come Erikson (1968) ha messo in luce, le intere fondamenta della psicoterapia, e questo di per sé gli avrebbe permesso di diventare un abile autopsicoterapeuta. L’illuminazione era mutativa, ed egli non è stato più la stessa persona: “ Benedici il mio spirito, quale differenza tra me come sono adesso e come ero…” Egli non fu curato con nessun mezzo, ma divenne sufficientemente libero da rimanere creativo e produttivo per il resto della sua vita, ancora una volta modulando l’elemento forte del padre e aggiungendo l’elemento materno in una sintesi totale.


Il caso di Beatrice Webb
(Come ricordato nella sua autobiografia, 1926).
Beatrice Webb, economista inglese e sociologa, era la prima di nove sorelle e aveva sentito, molto precocemente nella vita, un senso di crescente distacco da sua madre. La nascita di suo fratello quando aveva quattro anni, e la sua morte, quando ne aveva sette, si aggiunsero al suo senso di lontananza dalla propria madre. “Mia madre era vicina ai quarant’anni di età quando io divenni consapevole della sua esistenza”, ribaltando abilmente così l’esperienza traumatica.
Non vi era alcun dubbio, comunque, circa il suo sentimento di rifiuto. Ella si sentiva trascurata e non voluta, e si sentiva distante dalle sue personali risorse e con un intenso assorbimento su di se. Sviluppò una tipica depressione adolescenziale, associata con un ampia gamma di disturbi psicosomatici. Comunicò la sua autoanalisi sul suo diario, ammettendo con franchezza che stava vivendo in una “profonda miseria egoistica e trascurando ogni cosa utile nella vita”. Mentre procedeva la sua analisi, ed ella rileggeva i suoi brani passati, divenne consapevole della sua alienazione dalla vita e si trovò di fronte alla “terribile domanda”. La differenza tra il suo mondo interno ed il mondo attorno a lei venne d’un tratto messa a fuoco. Ella si domandò se avesse il diritto di pensare soltanto a se stessa ed alla sua sofferenza quando c’erano così tanta infelicità e miseria nel mondo. La lotta tra il suo egocentrismo irrisolto – il suo estremo essere piena di bisogni ed il suo accresciuto narcisismo – e le sue più recenti spinte altruistiche dirette all’oggetto, si spostò gradualmente a favore delle seconde.
Venne poi il momento dell’insight, quando ella comprese che l’unico modo di rendere se stessa più felice, ed il solo modo di compensare la sua propria deprivazione di cure materne era prendersi cura come una madre di tutte le persone deprivate del mondo. Da quel momento in poi il suo programma di vita fu decretato. Ella divenne sempre più impegnata nella vita pubblica e nel migliorare dovunque il destino delle persone infelici, bisognose e reiette. Se qualcuno potesse fare uno strappo alla regola, questo esempio potrebbe essere classificato (ma non troppo seriamente) come un’autocura della società! Fino a quando si interessò della salute mentale, ella funzionò con ancora maggiore successo rispetto ai casi precedentemente descritti.


Il caso di Napoleone
(Come riportato nella sua autobiografia, 1931)
Napoleone Bonaparte soffrì di una grave crisi emotiva all’età di 17 anni, quando la sua vita divenne, come egli disse, intollerabilmente pesante per lui. Si sentiva depresso, solo, inferiore ed incline al suicidio. In quel tempo egli era in Francia e lontano da sua madre, che egli idolatrava, ma che lo trattava secondo lui, né meglio né peggio rispetto ai suoi fratelli e sorelle. Sentiva che la Corsica, suo paese natale e piccola isola (così strettamente identificata con sua madre) era stata oppressa e defraudata dai tiranni francesi, mentre egli era miserevolmente spettatore sul suolo francese.
Finalmente si trovò di fronte alla “terribile domanda”: “Come ha potuto la follia spingermi a desiderare di uccidermi? Perché sono realmente al mondo? Perché dovrei soffrire dei giorni nei quali non posso promettere a me niente di buono? Le risposte divennero presto chiare: egli doveva morire passivamente o vivere attivamente e liberare il suo paese, sua madre e i suoi fratelli da un destino di gran lunga peggiore della morte. La scelta si pose di fronte a lui, e il resto è storia. Egli riscattò il suo adorato paese, liberò la sua famiglia, e rese questi onorati in tutta Europa.
Secondo Freud (1936), l’autopsicoterapia di Napoleone prendeva spunto da una sottostante fantasia centrale che egli collegava ad un “motore segreto dinamico”. Si trattava della “fantasia di Giuseppe”, nella quale la rivalità con i suoi fratelli e il suo desiderio di sostituire il padre morto hanno subito un rovesciamento ed uno spostamento in campo politico e militare. Egli attuò anche una spedizione storica in Egitto, perché, come Freud ha osservato, “Dove altro sarebbe potuto andare qualcuno se questo qualcuno è Giuseppe e se questo qualcuno vuole apparire grande di fronte ai propri fratelli?”. Come Giuseppe, egli si comportò con i suoi fratelli in maniera magnanima, a dispetto di una sottostante rivalità fraterna, rendendoli loro tutti principi e re. Infatti il sogno di Giuseppe che il sole, la luna e le stelle si sarebbero inchinati a terra di fronte a lui è diventato il sogno di Napoleone, così che sia il sogno che la fantasia diventarono il suo destino. Fino a quando seguì la sua fantasia, tutto andò bene per lui, ma quando egli rinunciò ad essa, il fallimento lo raggiunse.


Il caso di Proust
(Come riportato nelle sue novelle autobiografiche, 1932)
Joseph Conrad (1932) ebbe a dire sull’opera di Proust: “Io non penso che ci sia mai stato in tutta la letteratura un tale esempio del potere di analisi, e mi sento sicuro nel dire che non ce ne sarà mai un altro”. Proust ebbe una lunga vita invalidata dall’asma e dalle ipocondrie. Egli fu legato al passato e al suo grande amore per la madre da un numero infinito e vario di memorie, rievocate volontariamente o recuperate involontariamente, rispetto alle quali presente e futuro apparivano al confronto poco interessanti. Presto dopo l’adolescenza la vita divenne sempre più materia di esame retrospettivo. A partire da allora egli mise il suo inconscio cognitivo ed emotivo ininterrottamente al lavoro, salvando la sua infanzia, usando ogni parte della sua abilità analitica dominante per spingere fuori con forza l’ultima nota insignificante del sentimento e della sensazione.
In adolescenza egli fece il suo ultimo tentativo per la libertà, e perse. All’età di 14 anni incontrò una giovane ragazza nei giardini degli Champs-Èlisées che diventò la sua compagna di gioco. Ella, d’altra parte, divenne una figura ricorrente nella sua vita fantasmatica, e fu più tardi immortalata in vari differenti personaggi, quando ossessivamente egli esaminò i più minuti dettagli della quasi ipotetica relazione, alquanto pateticamente cercata, per sfidare la sua simbiosi con sua madre. Quello fu il suo primo ed ultimo tentativo di amare e di essere amato da qualcuno diverso dalla propria madre, e nel suo prevedibile fallimento restò ancor più fortemente imprigionato, con nessun'altra via di fuga se non l’omossessualità.
L’esperienza da adolescente tuttavia fece brillare lontano la sua capacità creativa dormiente, così da vivere una vita ricordata piuttosto che una vita in se stessa, così da costruire più con la fantasia che con la realtà, e per creare per sé un programma di vita fatto di ricordi. Egli recuperò il passato attivamente piuttosto che diventare passivamente prigioniero del passato. La cura non fu per niente completa. Negli ultimi 13 anni della sua vita si barricò nel suo appartamento, bendato come una mummia egiziana, chiudendo persiane e tende per vietare l’ingresso alla luce, e là, allontanatosi dalla realtà, rivisitò con accuratezza il mondo della sua infanzia.


Autopsicoterapia non analitica a breve termine

Nel caso di un autopsicoterapia non analitica, diverse fasi del trattamento potrebbero essere bypassate, e le tecniche decisionali riguardano, in modo rapido, soluzioni effettive, abreative, o di actingout.
Erikson (1968) utilizzò il caso di Jill per illustrare l’autocura in adolescenza. Jill aveva manifestato molti tratti orali, così come avidità e dipendenza, durante l’infanzia. Ella era stata anche invidiosa dei suoi fratelli e si era messa in competizione con loro con uno stile da maschiaccio.
Nonostante questo, emerse nella prima adolescenza come un’attraente ed equilibrata giovane persona, lasciando Erikson meravigliato di dove fossero finiti tutti i problemi dell’infanzia. La crisi, di tonalità depressiva, avvenne nella sua tarda adolescenza, quando Jill alloggiò in una fattoria ad occidente invece di far ritorno al college al termine delle vacanze. Ella si prese cura dei puledri appena nati, spesso preparando il biberon durante la notte per nutrire quelli più bisognosi. A questo riguardo sviluppò delle abilità che non solo furono di soddisfazione per se stessa, ma che le fecero ottenere uno sorpreso riconoscimento da parte dei cowboy. Il significato del suo comportamento sembrò abbastanza chiaro. Ella si stava occupando dei sintomi dell’infanzia lasciati in sospeso, trasformando la passività in attività, il sintomo in atto sociale, e il desiderio di essere accudita e nutrita nel prendersi cura e nel nutrire. Il trattamento ebbe molto successo ed ella fu in grado di tornare al college e riprendere la sua vita normale.
Innamorarsi durante l’adolescenza è spesso un altro breve tentativo di autocura, specialmente quando l’oggetto idealizzato è idealizzato, inaccessibile e incontaminato dall’esperienza sensuale. L’impatto su un adolescente che lotta con la scelta di vecchi o nuovi oggetti, con moti teneri o sessuali, con impulsi omosessuali o eterosessuali, con Dio o con il diavolo, e con tendenze progressive o regressive, può essere considerevole e di lunga durata.
Gli esempi classici sono numerosi. Nel Medio Evo, Dante (1948) fu impegnato in una battaglia in tarda adolescenza tra l’ascetismo e l’autoindulgenza verso le proprie passioni e, cercando di sintetizzare questi due disparati mondi dell’esperienza, rese immortale un’altra adolescente fiorentina, Beatrice Portinari. Da null’altro che un breve incontro egli costruì un programma di vita incarnando, o piuttosto disincarnando, questa ragazza in uno dei più grandi capolavori letterari di tutti i tempi.
In modo simile, ma in forma minore, lo scrittore francese Alain-Fournier (1971) scrisse una delle più belle novelle autobiografiche su di una adolescenza dolorosa e sensibile dopo un incontro simile, di breve durata ed accidentale, con una ragazza sconosciuta sulle rive della Senna a Parigi. Egli comprese dall’inizio che il suo amore era condannato e che avrebbe potuto causargli la più intollerabile sofferenza per il resto della sua vita, ma nessuno avrebbe potuto impedire che questo divenisse la preoccupazione e la passione travolgente della sua esistenza. Nel quaderno della sua giovinezza egli scrisse: “L’ho vista di nuovo, l’ho ascoltata, e potrei mordermi le mani dall’angoscia di non essere capace di descriverlo.” Comunque, egli finì per continuare a descriverlo in numerosi particolari, ed esso divenne un classico esempio della trasformazione creativa di un evento in una fantasia, caratteristico di certi tipi di autocura.


Il sogno salutare

Il prossimo esempio riguarda un genere di individuo meno famoso, ma dimostra un altro sensazionale metodo di autopsicoterapia a breve termine:

Io non sono il tipo di medico che va in giro in cerca di lavoro nel vicinato, ma pochi anni fa ero seduto nel giardino sul retro e caddi in una conversazione accidentale con un’adolescente delle vicinanze. Io le chiesi come stava ed ella trascorse le due ore che seguirono parlando con me. Era sicura che io sarei stato interessato perché ero uno psichiatra. Lei disse che gli ultimi due anni, fino di recente, erano stati orribili sia a casa che a scuola. Tutti la avevano odiata e lei aveva odiato tutti, ma più di tutti aveva odiato se stessa. Seriamente considerò di mettere fine alla sua vita in diverse circostanze.
Poi una notte fece un sogno nel quale si trovava in mezzo ad una grande tempesta, fino a che il suo collo fu nel fango e nell’acqua. Era molto spaventata, pensando che stesse affogando. Vide una finestra aperta e, dopo diversi tentativi, passò dall’altra parte in una stanza gradevole, pulita e calda dove, piuttosto sorprendentemente, sua madre stava mangiando un pasto pronto e suo padre stava leggendo il giornale. Era tutta bagnata e sporca, ma nessuno sembrava notarlo e nessuno la sgridò. In seguito si ritrovò vestita con vestiti puliti e asciutti mentre sedeva a tavola insieme agli altri, mangiando un cibo meravigliosamente gustoso.
Quando si svegliò dal sogno ella si sentì riposata, rilassata e calma, sensazione che era così diversa dal suo sé inquieto e ansioso. Sentì che sapeva immediatamente cosa doveva fare. Comprese il sogno come nel dire a se stessa: “La gente si comporterà male con te se tu tratterai loro male ed essi ti tratteranno bene se tu tratterai bene loro”. Questa sembrava una conclusione piuttosto banale, ma ebbe l’effetto di un cambiamento radicale su di lei. Seguendo ciò è andata avanti di forza in forza ed attualmente è diventata rappresentante di classe, studentessa modello, e una ragazza molto popolare.

Freud (1900) si è riferito a questo come ad un sogno di trasformazione, simile a quello che di solito si trova nelle fiabe, e che ha fondamento in un esibizionismo represso. Altri hanno pensato rispetto ad esso in termini di rinascita della fantasia del figliol prodigo. Ad ogni stadio del processo di separazione, ogni adolescente sperimenta un forte desiderio di tornare a casa, specialmente quando la vita è stata dura con loro. Anche il genitore, da parte sua, desidera che suo figlio torni a casa. La parabola è pertinente tanto per il genitore quanto per il figlio. Entrambi pongono alcune condizioni. Il genitore accoglierà il ragazzo in casa se egli sarà chiaramente pentito e se rinuncerà alle sue droghe, alla sua promiscuità, alla sua mancanza di scopo, in modo sufficiente per diventare di nuovo un figlio adolescente della famiglia. L’adolescente, d’altra parte, tornerà al conforto libero da conflitti della sua infanzia se il padre accetterà una parte della polvere, dello sporco e del disordine accumulato nei suoi vagabondaggi. Perché questa fantasia si realizzi, il genitore deve essere preparato a perdonare generosamente e l’adolescente a dimenticare benevolmente. L’enfasi nel “sogno salutare” della ragazza (come è definito da Winnicott, 1957) è sull’aspetto incondizionato del ritorno. C’è un certo sacrificio al servizio della riunificazione, e non c’è dubbio che una grande quota di ostilità venga bypassata affinché si compia la trasformazione.


Il processo autopsicoterapeutico

Il processo autopsicoterapeutico nel corso dell’adolescenza viene definito, nella teorizzazione classica, nei termini di una rielaborazione e risoluzione dei conflitti edipici, dei legami genitoriali precedenti, e di una ristrutturazione dell’apparato psichico con una conseguente espansione dell’Io e moderazione del SuperIo. Un certo grado di regressione di solito accompagna tali cambiamenti, e Hartmann (1939) ha suggerito che tale regressione può essere considerata come adattiva, come un tentativo di restituzione per la perdita di sintesi interna. Il desiderio di sintesi è un potente stimolo di conoscenza, con l’Io che prende il Sé come un oggetto di studio. Come Rosner (1972) ha sottolineato sia la conoscenza che l’esperienza sono necessarie per liberare il Sé dal suo passato. La funzione sintetica è composta da diverse parti. Essa è necessaria per completare la personalità, rafforzare l’identità, soddisfare la curiosità, raggiungere la casualità, ristrutturare il SuperIo, e fornire all’individuo un pieno senso di profonda completezza.
In termini interpersonali, il processo autopsicoterapeutico può includere una migliore accettazione degli altri, una migliore accettazione da parte degli altri, e conseguentemente una maggiore accettazione di se stessi. I ruoli si chiarificano, rimodellano, e si adattano alle nuove situazioni interpersonali. Il tempo individuale diventa continuo, fluendo dal passato, al presente e al futuro con un accrescimento del senso di identità.
All’interno del sistema concettuale di Piaget (1958), alla funzione sintetica è stato dato un nuovo significato nei termini di restaurazione di interezza in relazione alle parti, le parti in relazione l’un l’altra, e le parti in relazione al tutto, con una corrispondente diminuzione dell’egocentrismo.
Durante la fase preparatoria iniziale, il processo che si rivolge verso l’interno espone a conflitti fra le rappresentazioni interne di sé e le figure genitoriali. Con lo sviluppo della crisi, l’individuo diventa consapevole delle incompatibilità e delle disarmonie fra mondo interno e mondo esterno. Infine, una sintesi si realizza tra parti apparentemente disparate, e questo può quindi essere esternalizzato nella forma di alcune occupazioni di vita che simbolizzano la ricostruzione.
Tuttavia le due principali risoluzioni a cui è chiamato il processo autopsicoterapeutico sono l’egocentrismo III di Piaget, che comporta una graduale decentralizzazione, e il narcisismo di Freud, attraverso l’investimento di nuovi oggetti. Questo permette all’adolescente di mettersi in modo confortevole nei panni degli altri, e guardare alla vita attraverso altri occhi, ed eventualmente amare qualcun altro. In una certa misura adatta il suo Io al mondo, ed in minor misura egli aggiusta il mondo al suo Io, modificando il mondo in cui vive o cercandone uno più gradevole altrove.
Quando il processo autopsicoterapeutico diventa effettivo, la proporzione fra le spinte e le attività autoconservative e quelle autodistruttive è gradualmente spostata in favore di quelle autoconservative.


Alcuni rischi del processo autopsicoterapeutico

L’adolescente può rapidamente diventare dipendente dal processo autoanalitico e, come Mill (1957) metteva in guardia, questo può spogliarlo dei suoi sentimenti, specialmente se “lo spirito analizzante rimane senza i suoi naturali complementi e correttivi”. In breve, diventa un esercizio compulsivo. Può anche diventare interminabile, perdurando anche quando non ce ne è più la necessità.
Un altro pericolo nell’eccessiva preoccupazione per il Sé sta nel patologico incremento dell’autoconsapevolezza. Henry James, Sr. (1948), il padre di William James, era dell’opinione che “la sciagura del genere umano, che vuole l’umanità così limitata e depravata, è il senso di seità (self-hood), e l’assurdo abominevole dogmatismo che ingenera. Quanto dolce sarebbe ritrovarsi non più uomini ma innocenti ed ignoranti pecore che pascolano nel placido pendio, che bevono nella rugiada eterna e nella freschezza del prodigo seno della natura!” Il suo intenso interesse per i suoi figli cresciuti tutti proprio con un intenso senso di “seità”, li ha resi ipocondriaci, eccessivamente introspettivi, e complessivamente nevrotici. Inoltre, non c’era nessun pericolo che qualcuno dei James di finisse come “innocente ed ignorante pecora”!
Freud (1936) ha sottolineato altri problemi. “Nell’autoanalisi il pericolo di incompiutezza è particolarmente grande. Si è troppo presto soddisfatti con una spiegazione parziale, dietro la quale la resistenza può facilmente coprire qualcosa che è forse molto più importante.” Soprattutto gli adolescenti sono inclini ad essere sopraffatti rapidamente dalle loro resistenze, ed a rivolgersi verso metodi non analitici o anche non autoanalitici di autocura.
Un altro problema dell’autoanalisi è stato descritto da Tichto (1967) quando, in seguito a gravi conflitti, si sviluppava una regressiva aggressivizzazione e libidinizzazione della capacità autoanalitica. L’autoanalisi può far degenerare nella ruminazione ossessiva, nella autopreoccupazone, nell’autoaccusa, nell’intellettualizazione, nell’ammirazione di sé o nell’autoindulgenza. Diventa un gioco a cui l’autoanalista ama giocare e può diventare un equivalente della masturbazione.
Alcuni critici hanno contestato l’efficacia dell’autopsicoterapia per l’eccessiva pervasività del controtransfert!


Conclusioni

Ciò che Dewey (1920) ha descritto come “l’interminabile processo di perfezionamento, di maturazione, di rifinitura”, certamente è all’opera tutta la vita, ma sembra esserci un picco di tale attività durante l’adolescenza in quanto preparazione per la vita adulta. La gamma dell’autoterapia, come descritto in queste pagine, è piuttosto vasta per non intrecciarsi con un ampio spettro di problemi. Tuttavia c’è più speranza per un adolescente non trattato di quanto si possa presumere. Studi ben controllati di follow-up possono indicare in che misura gli adolescenti possono affrontare i loro problemi personali. Molti di noi sono sopravvissuti al grande periodo di transizione dell’adolescenza senza essere consapevoli di come ciò sia potuto avvenire. L’adolescenza diventa uno dei nostri sé morti e noi evidentemente non lo evitiamo né ne facciamo il lutto. Tuttavia la transizione dell’adolescenza ha aiutato ciascuno di noi ad arrivare dove siamo oggi. La funzione di sintesi, l’improvviso insight, l’ideologia utopica, e l’ampia programmazione di vita, tutto ciò può giocare la sua parte nella restaurazione dell’equilibrio fra il nostro sé interno e quello esterno.
La preghiera socratica alla fine del Fedro (Platone, 1928) è la preghiera di tutti gli adolescenti che si ingaggiano nella complessità dell’autocura, ed anche la preghiera di tutti gli adulti preoccupati per gli adolescenti e di coloro che ereditano il lascito della loro reintegrazione: ”O caro Pan, e voi altri dei di questo luogo, concedetemi di diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di fuori sia in accordo con ciò che ho nell’intimo”. Fedro aggiunge: “Fa questo augurio anche per me, poiché gli amici dovrebbero avere tutte le cose in comune”.

Traduzione di G. Monniello e L. Quadrana


*Self-therapy in adolescence
In: Adolescent Psychiatry, 1974, Vol III, 6-24




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