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Anno IV - N° 1 - Gennaio 2004

Lavori originali




“Il trattamento dell’adolescente violento” *

Gianluigi Monniello°



Introduzione

La psichiatria psicoanalitica dell'adolescenza ha sempre rivolto grande interesse all’adolescente violento. L’antisocialità, la delinquenza e la criminalità più o meno grave degli adolescenti hanno svolto un ruolo centrale nel definirsi della nostra disciplina e hanno prodotto una gran mole di riflessioni e contributi. Molti Colleghi, anche nei nostri precedenti Congressi ISAP (Flavigny, 1985; Evans, 1985; Gutton, 1985; Marohn, 1994; Jeammet, 1997; Novelletto, 1988; Stone, 1999; Streek-Fischer, 1999), hanno affrontato l'argomento da diverse angolazioni, secondo i propri interessi clinici. Soprattutto, è bene ricordarlo, ciascuno, in quanto psicoanalista, ha ripreso, per questa via, le proprie personali “questioni fondamentali” (Aulagnier, 1984). Senza dubbio confrontarsi con l’adolescente violento è una prova necessaria per chi lavora con gli adolescenti, richiede tutto il nostro impegno professionale e, al contempo, offre occasioni alla nostra formazione e crescita personale.
Inoltre il trattamento della violenza adolescente interroga con insistenza la nostra sensibilità clinica, impone di valutare i livelli raggiunti dal lavoro nelle istituzioni, porta ad interessarsi alle più recenti aree di ricerca delle neuroscienze, spesso anche a cercare conforto e chiarimenti in altri campi come la filosofia, la sociologia, l’etica e la giurisprudenza. Infine, secondo me, mette in gioco la nostra identità psicoanalitica.
Di fronte a territori psichici così incogniti come quelli della violenza adolescente, e mi riferisco qui alle sue manifestazioni più efferate, il riferimento all’inconoscibile della vita psichica, al lavoro dell'inconscio, alla sua a-logica o bi-logica e alla sua atemporalità viene spontanea.
Del resto quando parliamo di trattamento facciamo riferimento a ciò che non è legato nella psiche con l’intento di dargli forma, senso, coerenza. In particolare è ampiamente condiviso che molti gravi crimini contro la persona avvengono ad opera di soggetti con evidenti carenze nei loro processi di simbolizzazione e di mentalizzazione. “Trattare” diventa allora legare insieme, mettere in racconto, negoziare la ricostruzione di accadimenti, ma anche arrivare a trattare la resa del soggetto a se stesso così che si possano svolgere trattative di pace fra parti scisse della sua personalità. Il termine trattare riacquista insomma tutto il suo significato etimologico sia per quanto riguarda la cura che per quanto riguarda il trattare con un oggetto: entrare in trattativa con l’altro, commerciare, negoziare, così come nel linguaggio di guerra si aprono trattative di tregua, di pace e di cooperazione.
Certamente la violenza è anche un sintomo. E’ il risultato di slegamenti psichici molto pericolosi per il processo di soggettivazione (Cahn, 1991), costituisce una sintesi ipercondensata di eventi psichici, un cortocircuito del funzionamento psichico, e al contempo esprime comunque “un nucleo di verità storico” della vita del suo autore. L’adolescente violento ha certamente fallito nei suoi primi tentativi di trattare i messaggi enigmatici del linguaggio dell’adulto o è stato addirittura materialmente sottoposto a violenze fisiche, sessuali e psicologiche nel corso della sua infanzia.
Una caratteristica dell’adolescente violento è di non omettere quanto è fuori proposito, futile o insensato, inconveniente e spiacevole (il non-legato, il sessuale e/o l'aggressivo), ma piuttosto di agirlo, esibirlo. Così una quantità di scorie dei processi di legamento e di traduzione psichica invadono il campo, intralciano il funzionamento psichico. I processi di pensiero sono turbati e si riversano sull’ambiente esterno, sociale, istituzionale, giudiziario e sulla mente di chi si occupa di questi ragazzi.
Per questa propensione dell’adolescente a non omettere, la violenza ha una forza d'attrazione indubbia su di lui e si declina fra il rabbioso tentativo di superare gli impedimenti alla soggettivazione ed il rischio di produrre quella particolare “ristrettezza mentale” (narrowmindedness) senza la quale la crudeltà non può diventare operante come ha scritto Brenman (1985).
La violenza, a sua volta, disumanizza chi la subisce e più tale esperienza viene subita precocemente, più determina una falla nella capacità di sviluppo, falla che rischia di trasmettersi, come una eredità psichica, alle generazioni successive (Fonagy, Moran, Target, 1993).
Tutto ciò rischia di indurre allo scoraggiamento e quindi rendere difficile il trattamento. Tuttavia la risposta terapeutica e la prevenzione di fronte a tale rischio di deriva riposano sulla serenità del terapeuta di fronte all'ineluttabile presenza della violenza in ogni immaginario, nella vita fantasmatica di ciascuno. Riconoscere che la violenza è naturale ed inevitabile, che si fonda su un bisogno difensivo e non sadico in sé, anche se potrebbe diventarlo, costituisce il filo conduttore di ogni risposta terapeutica di fronte all'inquietudine dell'adolescente verso i propri fantasmi violenti e verso la tentazione rappresentata dalla trasformazione di questa violenza in distruttività cieca.
Resta valido quanto scrive Hannah Arent (1964): “Il terrore diventa totale quando si libera di qualsiasi opposizione. La sua legge è suprema quando nessuno gli si oppone”.


Psicopatologia e comportamento violento

E’ importante disporre di un percorso di comprensione teorica dei comportamenti violenti in adolescenza, per empatizzare con tali soggetti, condizione quest’ultima essenziale per realizzare la loro presa in carico terapeutica.
E’ necessario partire dal riconoscimento che molte cose sono attualmente cambiate nella relazione fra violenza e psicopatologia in adolescenza. Innanzitutto è cambiato il comportamento violento degli adolescenti (perché sono cambiati gli adolescenti), sia per entità numerica che per le caratteristiche dei reati (armi da fuoco, violenza per bande, violenza sessuale e contro i bambini, serial killer e stragi, ragazze omicide, bande di ragazze). Inoltre la dispersione scolastica è in aumento nelle città più violente e la scuola stessa è sempre più frequentemente sede di reati.
Anche dal punto di vista psicodinamico molte cose sono cambiate da quando Freud ha descritto il reato come espressione, dal valore simbolico, di un senso di colpa inconscio. Ad esempio, Roussillon (1995), rileggendo Freud, attribuisce ai fallimenti dell’ambiente di accudimento, nelle prime fasi della vita, l’organizzarsi di vissuti di colpa e ipotizza la presenza di un nucleo di colpa primario all’origine della criminalità e della violenza antisociale. Anche il concetto di debolezza dell’Io, quindi l’incapacità di tollerare le frustrazioni, di dilazionare la soddisfazione dei desideri, quello di un Super-io primitivo e quello di fissazione a tappe infantili dello sviluppo, risultano concetti insufficienti per orientarsi nella complessità dei quadri psicopatologici osservati in soggetti responsabili di reati gravi, spesso efferati. Essi possono essere ancora criteri sui quali formulare una diagnosi e il grado di ritardo maturativo e quindi utili solo per organizzare quella valutazione medico-legale dei dati, necessaria a rispondere ai quesiti dei magistrati: capacità di intendere e volere, imputabilità, pericolosità sociale. I limiti di tali valutazioni peritali sono stati segnalati da molti autori.
Per Winnicott, la tendenza antisociale, che si manifesta attraverso i comportamenti distruttivi, è una manifestazione rivendicativa nei riguardi della madre che non risponde in modo soddisfacente ai bisogni dell’Io del bambino. La reazione antisociale, che fa parte dello sviluppo normale, si inscrive in un percorso positivo, ed è solo quando la madre non comprende questo appello che si installa la ripetizione degli atti distruttivi.
Secondo Balier (1998), ciò che manca agli adolescenti violenti è la percezione interna di un legame indistruttibile tra i genitori che permetta di organizzare la scena primaria elaborandone, attraverso l’attività fantasmatica, gli aspetti di violenza in essa naturalmente presenti. Il difetto di elaborazione dei conflitti fra i bisogni narcisistici e il riconoscimento dell’oggetto, porta ad una mancanza di integrazione della violenza da parte della libido oggettuale. L’emergere dell’oggetto sessuale, esperienza peculiare di ogni adolescente, prende allora la forma di una minaccia all’esistenza del soggetto, tanto più in quanto è in primo piano, in questo periodo della vita, una riattualizzazione delle imagines genitoriali. La violenza è allora necessaria in quanto misura di protezione.
Secondo Kohut, la risposta al problema della violenza umana sta nella comprensione del fenomeno della rabbia. A tale proposito Wolf (1988) ne descrive così le origini: “L’origine della rabbia narcisistica deve essere ricercata nell’esperienza infantile di assoluta impotenza di fronte all’oggetto-Sé (generalmente una persona che ha funzioni di accudimento e che risponde a bisogni di rispecchiamento e di idealizzazione). Tali esperienze di impotenza sono dolorose in modo intollerabile perché minacciano la continuità e l’esistenza del Sé, quindi evocano la più forte difesa di emergenza del Sé sotto forma di rabbia narcisistica”. Come scrive Kohut (1985), la rabbia narcisistica è all’origine di alcuni dei più terribili aspetti della distruttività umana, spesso sotto forma di attività ben organizzate in cui la distruttività dei “perpetratori” si fonde con l’assoluta convinzione della propria grandezza e con la devozione a figure onnipotenti arcaiche. La rabbia narcisistica può assumere varie forme, che hanno però tutte una caratteristica comune: il bisogno di vendetta, il bisogno che si ripari un’ingiustizia, che si cancelli un’offesa con qualunque mezzo e una coazione irremovibile, profondamente radicata, a perseguire tutti questi obiettivi. Tale distruttività nasce quando il Sé e l’oggetto non riescono a corrispondere alle aspettative relative al loro funzionamento, siano esse “la disponibilità incondizionata da parte dell’oggetto-Sé speculare approvante o dell’oggetto idealizzato che permette la fusione”. Il risultato di questa deprivazione nello sviluppo è rappresentata da un soggetto che deve mantenere il proprio Sé attingendo a questa duplice esperienza, se non vuole sperimentare sentimenti di intensa vergogna o forme violente di rabbia narcisistica.
Soffermandosi sugli aspetti più orribili della crudeltà umana Bollas (1995), sostiene che il male trova la sua oggettivazione nella violenza priva di pensiero, vuota e terribile, come quella del genocidio e del serial killer. L’aggressore (nel modello estremo del serial killer, che è stato anche egli “ucciso” (Sé ucciso) nell’infanzia dai vari possibili tipi di trauma, che lo hanno privato dell’area intermedia d’illusione necessaria alla nascita e alla crescita del proprio sé creativo) s’identifica con l’oggetto che uccide tutto ciò che è buono (la fiducia, l’amore, la riparazione) e perciò uccide il Sé degli altri. Egli occupa lo spazio potenziale illusorio che ha fatto intravedere alla vittima con la realtà negativa della sua morte interna, del suo vuoto: la sua aggressione priva di ogni senso “è un trauma allo stato puro”.
Secondo la prospettiva intersoggettiva, Stolorow, Atwood e Brandchaft (1994) considerano le intense reazioni aggressive, così come si osservano nel trattamento analitico, come un prodotto psicologico che segnala sempre ostacoli al, o disturbi nel, legame di transfert d’oggetto-Sé del paziente, per cui l’aggressività serve da funzione restitutiva nel restaurare un sentimento di onnipotenza urgentemente agognato. Quando poi la rabbia violenta e la distruttività diventano dilaganti e cronicamente costituite, ciò è molto spesso il risultato del protrarsi del non riconoscimento di disgiunzioni (disruptions) transferali-controtransferali, laddove i bisogni arcaici rivissuti dal paziente vengono costantemente fraintesi e rifiutati dall’analista.
In un altro ambito, recenti ricerche biochimiche hanno riconosciuto che deficit o comunque alterazioni della funzione serotoninergica cerebrale sono quasi certamente implicati nella patogenesi dei vari disturbi psichiatrici caratterizzati da un cattivo controllo delle tendenze ad aggredire se stessi e gli altri (Cowen, 1996; Linnoila, Virkunnen, 1992). La spiegazione cognitivo-evoluzionista (Liotti, 2002) dell’aggressività umana prende le mosse dall’osservazione che l’aggressività compare in due forme fondamentali nel corso dell’evoluzione: come aggressività rivolta verso viventi di altre specie (aggressività predatoria, o difesa dai predatori), e come aggressività rivolta verso i membri della propria specie.
Alla luce di quanto finora detto riguardo alle ipotesi relative alla genesi del comportamento violento, alcuni punti fermi possono essere ora definiti.
Il ruolo delle esperienze infantili catastrofiche nel produrre le prime manifestazioni di violenza rabbiosa, dovute all’assenza di cure materne ed ambientali adeguate, è unanimamente condiviso.
E’ noto che la rabbia e la violenza infantili, con l’intervento di meccanismi di difesa primitivi, si traducono in sentimenti e impulsi negativi (invidia, gelosia, avidità, odio) che danno al Sé in via di sviluppo un’impronta patologica di tipo primitivo (disturbi di personalità). Il rapporto con l’oggetto si organizza tra due poli opposti: l’onnipotenza da un lato, la fusione dall’altro. La sicurezza dell’individuo (le basi narcisistiche) dipende dall’instaurarsi di un equilibrio intermedio tra questi due poli. E’ in questo periodo che si decide se gli impulsi istintuali del bambino possono assumere i caratteri dell’aggressività normale necessaria, capace di formare legami con gli oggetti, oppure quelli della distruttività e della violenza.
E’ noto che posizioni di partenza così compromesse possono essere almeno in parte recuperate dal bambino, e forse anche dall’adolescente, se vengono loro offerte esperienze transizionali (Winnicott) e riparative verso la realtà e l’esperienza condivisa della relazione con l’altro (esperienze di gioco che favoriscono l’attività fantasmatica, la proiezione, l’immaginazione, la metafora).
Pertanto va considerato che, a volte, la violenza può operare una metamorfosi e trasformarsi in una spinta all’autocura attraverso il racconto e la scrittura autobiografica, com'è successo, ad esempio, a Edward Bunker (1996, 2000, 2001), passato dal crimine alla notorietà come scrittore, che afferma: ”I tratti del mio carattere che mi hanno fatto combattere il mondo sono gli stessi che mi hanno poi permesso di farmi valere”.


Clinica dell’adolescente violento

A partire dalla mia esperienza clinica in Ospedale Diurno e da alcuni trattamenti psicoterapeutici svolti nel carcere minorile vorrei proporre alcune riflessioni e sollevare alcune questioni. Innanzi tutto segnalo come la maggiore difficoltà sia rappresentata dall’avvicinare l’adolescente violento al suo possibile trattamento. Inoltre le caratteristiche psicopatologiche di tali soggetti sono diversificate e quindi una corretta diagnosi è il punto di partenza fondamentale per attuare un adeguato intervento terapeutico. La complessità delle manifestazioni violente porta a considerare l’origine multifattoriale della violenza adolescente. Ad essa concorrono fattori genetici ereditari, neurologici, ambientali (legati alla famiglia d’origine), socio-culturali (effetti delle immagini di violenza osservate direttamente o in televisione) e psicopatologici. In particolare nei casi di reati gravi spesso è proprio l’atto violento ad essere il sintomo dal quale partire per valutare la psicopatologia. Essa rappresenta infatti la migliore soluzione psicopatologica possibile per l’adolescente criminale. Ricercarne il possibile senso è però un lavoro che può essere fatto solo attraverso il tempo. Infatti l’atto violento spesso, all’inizio, non ha senso né per il soggetto né per chi lo subisce o ne è spettatore. Solo gradualmente, a distanza di tempo dagli avvenimenti, diventa possibile arrivare, se non ancora ad una spiegazione, almeno all’assunzione di responsabilità da parte del protagonista.
Infatti il ricorso alla violenza in certi atti estremi avviene in uno stato di alterazione della coscienza, per la riviviscenza di processi primitivi e arcaici. Possono qui essere evocate le concettualizzazioni di M. e E. Laufer (1984) a proposito del breakdown prodotto dall’avvento del corpo sessuato, in quanto questi stati di alterazione della coscienza sono accostabili ad episodi di depersonalizzazione. In molti casi descritti in letteratura, l’intensità degli incubi e dei sogni d’angoscia, il loro protrarsi dopo il risveglio, così come la pregnanza di alcune fobie di tipo primario, quasi allucinatorie, testimoniano della vicinanza della psicosi.
Così molte espressioni di violenza dell'adolescente con un disturbo della personalità sono semplici figurazioni, prime tracce esteriorizzate di una condizione traumatica interna che ha difficoltà a trovare una rappresentazione psichica e accedere alla simbolizzazione. Tali figurazioni violente avvengono "in corsa", per mancanza di autoregolazione (Stern, 1985) e di capacità riflessive (Fonagy, 1995): l'adolescente ha perso il controllo su di sé, si è frammentato e violentemente tenta di riconquistare una certa coesione del Sé (Marohn, 1994), utilizzando a questo scopo un modello di comportamento appreso, cioè la distruttività.
La mia ipotesi di fondo è che alcuni atti violenti non trovino una spiegazione diretta nella presenza di fantasie inconsce più organizzate e dovute ad esperienze traumatiche legate alla scena primaria o all'edipo. Tali chiavi di lettura interpretative compaiono quando si avviano, nell’adolescente, investimenti sia libidici che aggressivi sull’ambiente di cura, quando i processi di simbolizzazione hanno ripreso ad essere operanti. Piuttosto le letture interpretative costituiscono delle possibili tele di fondo sulle quali tessere dei legami psichici e dei percorsi di senso. L’ipotesi avanzata da Novelletto (1986; 1988) per cui, in certi soggetti, l’atto criminoso realizzi una “fantasia di crescita psichica” (psychic growth fantasy) ne è un esempio. Infatti tale lettura interpretativa, quando è il risultato del lavoro comune dell’adolescente e dell’analista, è molto utile al percorso che porta all’assunzione di responsabilità. Questa condizione, a sua volta, è il segno di una ripresa del controllo sul proprio funzionamento mentale e indica la costituzione, nel soggetto, di uno schermo antistimolo adeguato.
E’ possibile affermare che più le manifestazioni violente sono gravi e ingiustificate, più i quadri psicopatologici sono complessi e più le soluzioni terapeutiche, gli ambienti di soccorso, devono potersi adeguare per rispondere alle complessità in questione.


Il trattamento in Ospedale Diurno dell’adolescente violento

La gestione ed il trattamento dell’adolescente violento sono particolarmente impegnativi per il terapeuta e per l’ambiente di cura. Una cosa è riconoscere l'importanza dell'agire, per far fronte alla sensazione di essere agiti dalle trasformazioni puberali somatiche e psichiche, altra cosa è confrontarsi con la violenza narcisistica. Tale violenza, come ho già sottolineato, spesso è cieca ed è accompagnata da un sentimento di rabbia che, per lo più, rimanda ad angosce abbandoniche, di frammentazione, e che rimane inscritto ad un livello emotivo somatico, non verbalizzabile. Dal punto di vista psicopatologico siamo di fronte a stati psichici di blocco dello sviluppo, di impedimento alla soggettivazione, ad uno squilibrio qualitativo fra investimenti narcisistici e investimenti oggettuali che non limitano solo l'integrazione dell'impulso aggressivo ma anche i processi evolutivi dell'ideazione e del pensiero. In questi soggetti, l'ideazione non arriva al livello normale della "rappresentazione" ma si arresta ad un livello rudimentale, fondamentalmente percettivo e concreto. L'attività mentale associativa del preconscio è molto ridotta, e ciò si ripercuote sul funzionamento psichico nel suo complesso. Scrive infatti Guillaumin (1976): “Sono portato a considerare il preconscio come il luogo dell’altro nell’Io… Infatti gli automatismi senso-percettivi e motori, linguistici o altri, che il preconscio conserva dopo che essi sono stati selezionati dall’Io, sono prodotti d’identificazione: più esattamente di assimilazione delle identificazioni. Essi corrispondono a schemi senso-motori appresi, ottenuti a partire dalle relazioni con i modelli di riferimento. Tali relazioni, sufficientemente desessualizzate e distaccate dal loro supporto personalizzato primario, possono così essere riprodotte “senza pensarci troppo” da chi le prende in prestito”.
Ritengo che in presenza di comportamenti violenti e del ricorso alla forza fisica, l'Ospedale Diurno sia il luogo privilegiato per offrire all'adolescente, quando le condizioni e il tempo sono favorevoli e a fronte di progressioni e di regressioni, le opportunità per un percorso di ricomposizione dello sviluppo. Tale esito dipende molto da ciò che avviene nell’incontro e nella relazione dell’adolescente con il terapeuta e con l’ambiente istituzionale. Si tratta di vedere se il trattamento nel suo complesso permetta o meno una evoluzione del funzionamento mentale dell'adolescente da una condizione in cui predominano la realtà percettiva e motoria, la negazione dell'alterità e il timore dello scambio relazionale, ad un'altra in cui sono operanti le rappresentazioni, i simboli ed è riconosciuta e tollerata la distanza dall’altro.
Il trattamento in Diurno consiste nel fornire all'adolescente violento, oltre alla psicoterapia individuale o di gruppo ed ai colloqui con i genitori, un ambiente terapeutico che si configuri come un contenitore e come uno spazio all'interno del quale sia possibile dare figurazione ai contenuti intrapsichici. Inoltre l'istituzione è chiamata a fornire dei modelli per la simbolizzazione all'adolescente in crisi di rappresentazione e alla ricerca di legame psichico fra interno ed esterno, passato e presente, corpo e mente. L'organizzazione della vita istituzionale, la regolarità, la coerenza e la prevedibilità del suo funzionamento, con il tempo forniscono elementi per la strutturazione psichica, dilazionando le risposte immediate e delineando un possibile percorso verso la simbolizzazione. Le terapie occupazionali, ricreative, educative e musicali favoriscono l'esperienza di funzionare e offrono all'adolescente occasioni di creazione simbolica. Infine la presenza di regolari spazi dedicati alla psicoterapia vera e propria basata sull'analisi del transfert favorisce la messa in parole di eventi traumatici, il riconoscimento delle identificazioni e la nominazione di sentimenti, emozioni ed affetti. Pertanto l'adolescente entra in contatto con una struttura organizzata che gli permette la diffrazione dei movimenti transferali, gli offre una diversificazione nelle relazioni ed una gamma di oggetti esterni sui quali i diversi aspetti del suo funzionamento psichico possono svolgersi. Le sue proiezioni e le sue scissioni possono cioè dispiegarsi sull'insieme dei curanti e sul terapeuta. E' la possibilità o meno di articolare ed integrare i diversi vissuti controtransferali dei curanti nelle regolari discussioni di gruppo a permettere di raccogliere e contenere tali modalità di espressione del loro disagio.
Per quanto attiene all’ambiente terapeutico, ciò che sarebbe auspicabile realizzare è rendere l’Ospedale Diurno un “sito analitico allargato”, parafrasando la metafora proposta da Donnet (1995) di “sito analitico” per figurare l’azione analitica e lo spazio-tempo in cui essa si “situa”. Ricordo che il sito è definito come “la configurazione caratteristica di un luogo occupato da un insediamento umano, che fornisce le risorse locali necessarie alla vita quotidiana e al suo miglioramento”. E’ utile, cioè, lavorare per creare le condizioni di un incontro fra l’adolescente violento in cerca di soggettivazione e la geografia di un luogo istituzionale vivamente partecipe, che ha la sua storia ed i suoi abitanti: psicoterapeuti, operatori ma anche altri adolescenti. I controtransfert di tutti questi diversi protagonisti presenti sulla scena istituzionale, (ma forse sarebbe più esatto dire i loro transfert), quando è operante una inconscia regia gruppale, possono diventare funzionali agli eventuali movimenti transferali del singolo adolescente.
Il lavoro clinico nel Diurno per adolescenti mi fa ritenere che i destini della violenza e delle sue diverse figurazioni dipendano dall'offerta di un appoggio psichico da parte del terapeuta e del gruppo dei curanti e di una cornice istituzionale di contenimento che fornisca modelli per la simbolizzazione. La violenza deve poter essere pazientemente addomesticata grazie al rafforzamento delle basi narcisistiche dell'adolescente.
Certamente mettersi al servizio di questi tipo di pazienti pone grandi responsabilità al terapeuta, in quanto si tratta di cercare di svolgere una "funzione soggettivante" (Cahn, 1998). Già la fisiologica elaborazione della violenza puberale richiede preliminarmente che l'adolescente incontri un adulto che abbia gestito l'impatto della propria pubertà ed anche della propria violenza.

Antonio si presenta al Diurno dopo aver messo sotto sopra, a distanza di cinque mesi dall’inizio della sua psicoterapia, lo studio privato di una collega esperta e competente. Quest’ultima, che è stata anche aggredita fisicamente, ha deciso di rinunciare. Antonio ha quasi 12 anni e già da alcuni mesi è pubere.
Non frequenta più la scuola, dove, da qualche tempo, rispondeva male ai professori ed insultava i compagni. In classe non riusciva a stare fermo. A casa tiranneggia i genitori, ha sfasciato molti oggetti e distrutto la sua stanza.
Quando lo vedo mi sembra più grande della sua età. Si presenta facendo il bambino e piagnucolando. Con una voce in falsetto si lamenta: “Non ci voglio andare. Non mi piace”.
E ancora: “Mi arrabbio con mamma e papà, perché sono cattivi. Allora dico parolacce e spacco tutto!”.
Poi fa la voce grossa e dice spavaldo: “Quella zoccola (pute) ha detto che ti conosce. Le ho dato un pugno ed è volata via. Le ho rotto il naso e poi ho spaccato tutto. Sono fortissimo. Papà voleva che io le chiedessi scusa e si è impegnato a pagare i danni. Il solito vigliacco”.
Gli chiedo: “Da quanto tempo sei così forte? E’ successo all’improvviso?”
Poi lo invito a sedersi. Si guarda intorno e si siede.
“Non hai uno studio privato? Questa stanza è da poveracci. Tu sei ricco e famoso? Quanto guadagni al mese?”
Resto in silenzio e lo guardo benevolmente cercando di accogliere dentro di me quegli accenni d’idealizzazione, pur preoccupato per l’intensità della sua paura denunciata dal suo modo di presentarsi.
Inizia a mangiarsi le unghie con slancio, rilassato, a suo agio.
Gli chiedo allora: “Da quanto tempo lo fai?”
“Mi piace”.
Lo invito a parlarmi dei suoi pensieri, delle sue fantasie, a raccontarmi qualche sogno.
“Sogno tutte persone cattive ma non so chi siano. Ho paura di essere bocciato..”
Poi cambia nuovamente tono: “Un giorno ho spaccato il muro. Sono stato in carcere. Di lavoro faccio il garagista. Sono capace di guidare la Ferrari. Tu ce l’hai la Ferrari? Sei famoso? Ci vai in televisione?”
Penso che si stia chiedendo se sono abbastanza forte per aiutarlo a contenere il suo spavento e la violenza che ne deriva. Sono preoccupato per la possibilità che si strutturi uno stato ipomaniacale.
Gli dico che sa molte cose sulle auto e che se vuole possiamo continuare a parlarne insieme. Aggiungo che a questo punto avrei piacere, se lui è d’accordo, di incontrare anche i suoi genitori, in sua presenza.
I genitori entrano con aria intimorita e dimessa. La madre addebita subito tutti i problemi del figlio alla grave malattia che l’ha messa a rischio di vita, quando Antonio aveva appena un anno. Da allora ha vissuto molti anni difficili e non ha potuto occuparsi del figlio. Se ne sono occupati i suoi genitori che lo hanno “trattato come un re”. Adesso Antonio è violento anche con loro!
Antonio accetta di ritornare e di frequentare per qualche giorno l’Ospedale Diurno. Il suo comportamento violento però si accresce ulteriormente nei riguardi dei genitori e dell’ambiente esterno.
Nelle sedute con me oscilla fra stati di profonda regressione, fa il bambino piccolo piange, si butta per terra, si mette a quattro zampe cominciando ad abbaiare, e atteggiamenti di sfida e sfrontata onnipotenza (pretende di aprire i miei cassetti, di frugare nelle cartelle cliniche, di manomettere il computer). Riprendo i suoi “drammatici” vissuti di trasformazione fisica, l’angoscia di essersi sentito sopraffatto ed impreparato.
Al suo quarto giorno di presenza in Ospedale Diurno i genitori chiedono che il figlio sia ospedalizzato. Si scaglia in mia presenza contro i genitori e quando anche io considero il suo bisogno di interrompere questo eccesso di sofferenza, inizia ad insultarmi pesantemente, mi si avventa contro e prova a colpirmi. I genitori titubanti cercano di fermarlo ma, come al solito, è come se temessero di toccarlo, di tenerlo. Dopo essermi spostato alla fine lo afferro e lo immobilizzo.
Inizia ad urlare che mi ucciderà, che sono uno stronzo. Poi fa la voce da bambino, piange dicendo che gli faccio male. Continuo a tenerlo. Faccio fatica ma sento che posso riuscirci. I genitori restano spettatori invitandolo blandamente a calmarsi.
Gli dico, a muso duro, che ora può arrabbiarsi quanto vuole. Io lo terrò finchè non sentirà di aver recuperato il controllo su di sé. Continua ad oscillare fra la reazione rabbiosa, da spaccone ed il disperato lamento di un bambino piccolo.
La situazione si protrae per un po’. Sono stanco ma soprattutto, improvvisamente, mi sento scoraggiato e depresso.
Mi ricordo allora che da ragazzo mi trovai in una situazione simile. Trattenevo una persona cara che rischiava di farsi del male. A proposito di quell’episodio ho sempre ritenuto che il mio intervento fosse stato fondamentale. Coglievo ora la sensazione di come il valore “positivo” di quel gesto mi avesse indotto, interiormente, a fare l’economia dell’angoscia provata in quella circostanza e in quel periodo della mia vita.
Dico al padre di Antonio di chiamare l’infermiera, alla quale chiedo di preparare alcune gocce di neurolettico. Antonio me le sputa addosso. Dopo lunghe trattative accetta di farsi fare una iniezione (clorpromazina) dall’infermiera, in mia presenza. Gli dico: “Questo è quanto potevo fare per te. Ora sappiamo che per te è utile essere ricoverato. Sei in grado di decidere da solo se vale la pena oppure no”. E così è stato.
A seguito della sua ospedalizzazione la violenza di Antonio ha potuto essere assunta ai suoi occhi come l’espressione di una reazione disperata di fronte ad angosce pervasive di minaccia alla sua identità. Sappiamo che tale minaccia è tanto maggiore quanto maggiore è il bisogno, cioè quanto più l’adolescente tenta di avvicinarsi all’uso dell’oggetto (Winnicott, 1971). Il vissuto soggettivo di minaccia all’identità emerge sempre in occasione di brusche variazioni della relazione con l’oggetto desiderato, sia nel senso dell’allontanamento (separazione, abbandono) che in quello, opposto, dell’avvicinamento eccessivo (seduzione, molestie, intrusività).
In situazioni come quella di Antonio, l’adolescente si sente in balia di una forza, esogena o endogena, che lo soverchia, lo trascina, lo passivizza. Tali vissuti invadono il soggetto, proprio a causa dell’uso ancora molto incerto dell’oggetto, con la loro inevitabile connotazione sessuale. Il solo modo di sottrarsi a questa sopraffazione è l’espulsione dell’eccitazione disorganizzante su elementi della realtà esterna (persone o cose). Su questi oggetti fittizi il soggetto cercherà di esercitare quel controllo onnipotente che egli non riesce più ad esercitare su di sé, sulle proprie angosce di essere inerme (helplessness).
La possibilità, per Antonio, di intuire la sua profonda fragilità narcisistica è passata attraverso l’esperienza senso-motoria di sentirsi contenuto fisicamente da un resistente abbraccio materno.
Concludendo, per quanto riguarda il trattamento in Diurno dell'adolescente violento vorrei segnalare alcuni punti che mi sembra caratterizzino il possibile percorso terapeutico:
- le figurazioni violente non esprimono il ritorno del rimosso ma vanno considerate come l’espressione del ritorno di materiale psichico scisso, che ritorna in forma percettiva e allucinatoria e che riguarda esperienze traumatiche non simbolizzate;
- l’elaborazione psichica della fisiologica violenza della pubertà richiede che siano rimosse le fantasie incestuose e parricide, e necessita del sostegno narcisistico da parte dei genitori. In altre parole è necessario che questi ultimi riconoscano attivamente il processo puberale e il processo di soggettivazione del figlio adolescente e perciò svolgano anch’essi un percorso psicoterapeutico;
- la violenza sorge nel momento in cui l’apparato psichico (psychic apparatus), privato della sua relazione con l’oggetto, non può più assicurare la propria funzione di legare l’eccitazione. Le carenze psicologiche ed ambientali, la povertà dei modelli di identificazione, la mancanza di prospettive per il futuro cooperano nel contrastare l'elaborazione, nell'adolescente violento, delle spinte istintuali violente e la loro integrazione all'interno della corrente libidica sessuale, edipica e creativa;
- la relazione terapeutica intima al terapeuta di prendere coscienza della propria legittima violenza, aspetto essenziale della maturazione dell’essere umano, e non è pensabile esaurire tale presa di coscienza una volta per tutte. Sperimentare e talvolta esprimere l’odio nel controtransfert è una dimensione molto frequente. Ma il terapeuta è sollecitato, non solo controtransferalmente ma anche a livello della propria autoanalisi, a fornire al paziente esperienze rappresentabili relative al proprio personale percorso di addomesticamento della propria violenza istintuale, naturale e innata. Per autoanalisi intendo il processo costituito da rimaneggiamenti psichici spontanei e da significati nuovamente appresi su di sé, processo che a sua volta muove dalla considerazione che la propria analisi personale rappresenta "un percorso compiuto nella sua incompiutezza" (Botella, 1997).


La psicoterapia psicoanalitica in ambiente carcerario

Condurre delle psicoterapie psicoanalitiche in carcere con adolescenti responsabili di reati gravi contro la persona è possibile solo se si costruisce una collaborazione con l’ambiente carcerario, così che possa svolgere, nel suo insieme, una funzione di contenitore. Balier descrive come sia possibile realizzare queste condizioni di lavoro e la validità di tali trattamenti sia per i pazienti che per l’istituzione. Egli sottolinea, inoltre, l’importanza di utilizzare la terapia faccia a faccia proprio per riattivare, attraverso lo sguardo, il piacere del funzionamento sulla base di un rispecchiamento nell’altro. “Si tratta proprio della capacità di guardarsi che permette di accedere ad un ‘piacere del funzionamento’ necessario all’elaborazione” (Balier, 1998).
L’obiettivo, all’inizio e per un lungo periodo, è quello di portare tali soggetti a parlare di sé, renderli interessati al loro funzionamento mentale. Il terapeuta è talvolta esposto a provare un vissuto di frustrazione per il fatto che spesso molti giovani detenuti non vogliono essere ascoltati, anteponendo al rapporto con l'altro il muro della violenza. E’ necessario ricordare che alcuni di questi giovani adulti presentano un disturbo di personalità antisociale e sono ritenuti a tutt’oggi, da diversi autori, non curabili.
Certamente si tratta di realizzare interventi terapeutici adeguati al tipo di psicopatologia in questione. Ritengo, comunque, che, per rendere efficaci tali interventi debba esserci la presenza, nella loro organizzazione, della mente di uno psicoanalista disponibile "a correre il rischio di una condivisione profonda dei propri livelli psichici più arcaici" e a considerare la possibilità di ripercorrere, dentro di sé e con il paziente, il difficoltoso processo di integrazione dell'istinto violento, per ricondurlo alla propria storia personale, all'area edipica e del controllo libidico.
Il primo passo verso l’assunzione di responsabilità è rappresentato dalla condizione di acquietamento. Spesso infatti nel primo periodo di detenzione si presentano manifestazioni autolesionistiche o di violenza nei confronti dell’ambiente carcerario e dei suoi componenti. Inoltre fanno la loro comparsa manifestazioni psicosomatiche o produzioni deliranti e allucinatorie. Tutto ciò può rappresentare un tentativo di dare nuove soluzioni ai vissuti di frammentazione psichica. L’acquietamento è il primo indice dell’esperienza di potersi sentire contenuto.
Il secondo passaggio è rappresentato dalla restaurazione dello schermo antistimolo attraverso l’interiorizzazione delle funzioni contenitive dell’istituzione.
Il terzo passaggio è la restaurazione della continuità narcisistica del soggetto.
Il quarto passo è la costruzione del funzionamento preconscio e quindi la possibilità di filtrare gli impulsi e dare tempo al pensiero di operare.
Infine, quando il processo autoriflessivo è avviato, la psicoterapia psicoanalitica può permettere di riprendere un percorso maturativo e quindi di riconoscere che quello che è mancato è proprio l’esperienza del processo adolescente.
Nei diversi passaggi schematicamente descritti i cedimenti depressivi sono frequenti e possono essere al servizio sia della regressione e del ritiro che della trasformazione e della creatività.
Tali esperienze analitiche possono fornirci informazioni utili per realizzare modelli operativi ed interventi utili per altri giovani che potrebbero così riprendere il loro percorso di soggettivazione. Il trattamento, talvolta, è una richiesta personale da parte del soggetto, per lo più a distanza di tempo dal reato. In queste rare situazioni, l’atteggiamento analitico può essere assunto e l’analista può addirittura permettersi di procedere "senza scopo" (Bonnet, 2000).
In altri casi, invece, risulta molto utile proporre la possibilità di un trattamento individuale immediatamente dopo il reato e in prossimità del processo. Il momento del giudizio costituisce infatti un momento molto significativo del processo di restaurazione della relazione del soggetto con se stesso e con l’altro. L’attesa del processo e le fasi processuali portano l’adolescente a confrontarsi con la realtà della vittima e con il proprio atto criminale. Inoltre tutto l’ambiente esterno, familiare, istituzionale e sociale, partecipa dell’attesa e c’è la possibilità di utilizzare tali momenti e la figura del giudice come un rito d’iniziazione.
Nell’imminenza del processo penale Paolo, 17 anni, responsabile di omicidio e di tentata strage, manifesta un nuovo bisogno di “sapere” come sono andati i fatti, dimostrando di continuare ad aver bisogno di processarsi in fantasia ma contemporaneamente anche di verificare i propri progressi, per sentirsi pronto non solo al processo in tribunale ma anche al suo processo interiore di sviluppo.
Nel corso di una seduta racconta un sogno: “ Mi trovavo con molti dei miei familiari. Il giudice leggeva una sentenza di condanna. Stranamente non mi sentivo né scoraggiato né impaurito. Con calma facevo presente al giudice che egli non aveva ancora capito a fondo i miei sentimenti. Venivo condotto in una stanza luminosa senza sbarre alle finestre né porte di ferro. C’erano delle persone e potevo parlare. Pur sapendo della condanna provavo un senso di soddisfazione”.
Anche Mario, 16 anni, responsabile di tentato omicidio, nei giorni che precedono l’inizio del processo mi racconta questo sogno: “Stavo in una stanza con il giudice. Eravamo l’uno di fronte all’altro, il giudice era vestito con cura. Il suo viso però non lo ricordo. Sfogliava un grosso libro con molta cura, lentamente. Quindi diceva il mio nome ed il mio cognome ed emetteva la sentenza. Mi condannava a tre anni di reclusione. Pensavo che i conti tornavano”.
Nel corso dei trattamenti da me condotti in carcere su alcuni adolescenti responsabili di omicidio, un aspetto di particolare interesse è stato il sopraggiungere di una lunga fase durante la quale tali adolescenti restavano a lungo in silenzio (Novelletto, Monniello, 1999). Avevo allora considerato tali condizioni vicine a quelle che Masud Khan aveva descritto come “restare a maggese” (lying fallow). Mi sembra ora possibile ripensare a tale costruttiva fase della psicoterapia al luce del concetto di Winnicott di “informe” (formlessness). In questi casi, dunque, ciò che sarebbe stata insufficientemente vissuta è la condizione di indeterminazione, di informe, fornita da un’attività libera e spontanea del bambino, autorizzata e sostenuta dalla madre ambiente. In mancanza di tale esperienza il bambino non può che sentirsi continuamente agito dall’esterno, costretto ad una “agenzializzazione forzata” (Roussillon, 2002) e non può avviare effettivamente i processi di interiorizzazione e quindi la soggettivazione. Ne risulterebbe una costante indefinita minaccia ai confini del Sé.
Questo specifico retroterra teorico penso possa dare senso e valore alle terapie corporee e, ad esempio, alla tecnica dei packs (uso di avvolgimenti umidi ghiacciati), dove il soggetto è sollecitato a ridefinire i propri confini corporei quasi ricreando delle esperienze originarie di nascita.
Tornando alle psicoterapie psicoanalitiche condotte in carcere purtroppo, nella mia esperienza, dopo il processo penale l’attenzione sugli esiti evolutivi di molti adolescenti si riduce di molto e la prospettiva di un recupero, spesso intravista, si perde per l’affievolirsi dell’attenzione dell’ambiente istituzionale e sociale.
Nel periodo del giudizio e durante la pena sarebbe utile realizzare una gestione efficace dell’adolescente che abbia un valore effettivamente riabilitativo.
Vorrei sottolineare, infine, alcune iniziative utili al recupero di tali adolescenti:
una maggiore apertura all’esterno durante la detenzione e la realizzazione di progetti che possano proseguire anche dopo l’uscita dal carcere;
un tutoraggio permanente che consiste nell’offrire una figura unica di riferimento per tutto il periodo dell’esperienza penale;
la possibilità di una psicoterapia psicoanalitica che possa proseguire anche dopo la detenzione e l’incoraggiamento a ricorrere a tale eventualità soprattutto quando siano presenti i segni di un disagio psichico e di una richiesta anche indiretta di aiuto;
l’utilizzo di tali soggetti per interventi socialmente utili.
Per realizzare tutto ciò è necessario costruire un dialogo operativo con il mondo della giustizia, così da realizzare situazioni di contenimento istituzionale, anche in ambito carcerario nei casi di reato grave, che siano adeguati e sufficienti per fronteggiare la violenza, la disperazione, l’angoscia e quindi la depressione là dove manca un sistema di contenimento interno.
A questo punto risulta ineludibile, in questa sede ed in questo contesto internazionale, rinnovare l’auspicio che si realizzi una più fattiva collaborazione con gli addetti ai lavori della giustizia minorile, in Italia e negli altri paesi ed un costruttivo coordinamento fra chi, nei diversi paesi, è impegnato in questo campo. Tutto ciò richiede l’impegno di tutti noi, ma soprattutto quello dei politici e degli amministratori.


Altre forme di trattamento

Prima di arrivare alle conclusioni vorrei brevemente accennare ad altre modalità di trattamento che non possono essere ignorate ma piuttosto attentamente valutate.
Innanzitutto il trattamento farmacologico può essere utilizzato in molte situazioni, soprattutto quando è presente un disturbo psichiatrico (collocabile nell’asse I del DSM IV). Si tratta del ricorso ai nuovi antipsicotici, agli stabilizzatori dell’umore e agli antidepressivi, non solo a scopi di sedazione, ma per ridurre stati di angoscia incontenibili ed evitare i rischi di manifestazioni autolesionistiche o i tentativi di suicidio. Inoltre, in caso di ospedalizzazione va considerata la necessità di utilizzare stanze apposite per rendere possibile scaricare la forza fisica senza danni per sé o per gli altri.
Dopo questa fase più immediata ed urgente alcuni approcci terapeutici sono ritenuti validi ed efficaci. Essi considerano estremamente indicato un approccio corporeo attraverso tecniche di rilassamento, ascolto della musica, training autogeno, tecnica dei packs.
Va infine ricordata la Terapia Multisistemica (MST) che costituisce la risposta terapeutica prevalente di fronte agli adolescenti offender e sexual abuser. Essa è rivolta essenzialmente alla famiglia, ma tiene conto dell’insieme dei sistemi di cui il paziente minorenne fa parte (famiglia, scuola, gruppo dei pari, parenti, vicinato). Viene così proposta una terapia modellata sul paziente che può comprendere diversi tipi di intervento. Tale forma di trattamento psico-sociale, soprattutto nel caso di adolescenti sexual abuser, si propone una serie di obiettivi: superare la negazione del reato, diminuire l’eccitazione deviante, sviluppare l’empatia, la comprensione e l’identificazione con la vittima, chiarire le distorsioni cognitive, promuovere e sostenere le abilità sociali, aiutarli insomma a riconoscere il loro comportamento abusante per prevenirlo e combatterlo (Sabatello, 2002).


Conclusioni

Al momento attuale credo che sia possibile realizzare ambienti terapeutici istituzionali per il recupero degli adolescenti violenti, ambienti di soccorso adeguati alle difficoltà di molti di tali soggetti.
Ritengo che il modello di funzionamento dell’Ospedale Diurno, ambiente terapeutico che può diventare lo scenario nel quale dare figurazione ai fantasmi violenti nei casi di disturbo della personalità (Monniello, 2002), può essere utilizzato anche per mettere le strutture carcerarie in condizione di accogliere gli autori di reati gravi contro la persona. In questo modo questi soggetti potrebbero evitare di incorrere in stati di progressiva disorganizzazione psichica al momento e nel corso della loro detenzione.
L’attenzione va rivolta al setting istituzionale, al funzionamento del gruppo degli operatori, alle terapie occupazionali e ricreazionali, al ruolo degli oggetti di mediazione, al lavoro terapeutico individuale e di gruppo e alla terapia farmacologia: tutto ciò va messo in gioco per poter fronteggiare situazioni complesse ma non impossibili. Accettare la sfida del recupero della violenza adolescente significa aver fiducia di poter rimettere in moto i processi di simbolizzazione e di soggettivazione.
In alcuni rari casi è possibile condurre delle vere e proprie psicoterapie psicoanalitiche che sono delle esperienze preziose anche per l’analista, perché diventa possibile avventurarsi nella clinica del rimorso e del perdono, fino a coglierne la profonda correlazione. Entriamo così nel campo delle motivazioni profonde che possono spingere uno psicoanalista formato a lavorare con tali pazienti. Ritengo infatti che il transfert dei pazienti più gravi sia messo in moto dal controtransfert dell’analista e dal suo transfert sulla propria adolescenza e sulla psicoanalisi in quanto corpus dottrinario vivo.
Ma che cosa può impegnare lo psicoanalista in questa direzione?
Credo che una possibile motivazione risieda nella spinta a rendere continuo il proprio lavoro autoanalitico, a riconoscere la pervasività dell’inconscio ed a muoversi sul quel delicato crinale che fa vedere da un lato la propria creatività dall’altro la distruttività da cui essa origina.
Ad un altro livello mi chiedo se il lavoro analitico con un paziente che non può dimenticare il suo crimine non rappresenti per lo psicoanalista uno stimolo ad inoltrarsi nell’esperienza dell’oblio possibile ed a disporsi, per dirla con Ricoeur (2000), “nell’orizzonte di una memoria felice”. Penso qui alla coraggiosa esperienza di un intero popolo, realizzata dalla giovane democrazia sudafricana, attraverso la commissione “Verità e riconciliazione” (Truth and Reconciliation Commission, 1996-1998), dopo molti decenni di lotte fratricide.
In ogni caso i nostri tentativi di dare senso, di interpretare la violenza e la crudeltà ci confrontano con uno scarto, con qualcosa che non dà tregua alla ricerca analitica ed anche autoanalitica proprio perché sia la violenza che la crudeltà costituiscono un resto ineludibile dei processi di simbolizzazione (Balibar, 1996). Ma è allora proprio di fronte alla violenza che la dimensione inconscia acquista, per noi psicoanalisti, tutto il suo valore, confrontandoci con l'ineludibilità di una condizione di impotenza. Perciò penso sia importante, di tanto in tanto, fermarci e riconoscere come il nostro impegno a voler spiegare, ricostruire e trattare “eccessivamente” i comportamenti violenti sia anche l'espressione della nostra resistenza all'impotenza, nel senso della ricerca di una razionalizzazione difensiva, che rischia di impoverire il nostro possibile apporto umano e terapeutico all'adolescente violento.
In ultima analisi, le capacità o meno di entrare in relazione con il vissuto violento, senza il timore di riconoscerlo come espressione anche del nostro funzionamento mentale, non può ascriversi soltanto alla trasformazione dei modelli teorici e delle relative tecniche, ma forse piuttosto al continuo approfondimento della nostra analisi personale e della nostra capacità autoanalitica, nonché alla naturale empatia per la specificità della condizione adolescente.


Riassunto

La psichiatria psicoanalitica dell'adolescenza ha sempre rivolto grande interesse alla violenza adolescente. L’antisocialità, la delinquenza e la criminalità più o meno grave degli adolescenti hanno avuto un ruolo centrale nel definirsi di questa disciplina e hanno prodotto molte riflessioni e contributi scientifici. Attualmente tali condotte richiedono spesso il nostro impegno professionale e personale ma, al contempo, continuano a fornire nuovi apporti alla nostra formazione e crescita personale. In particolare affrontare il tema del trattamento della violenza adolescente significa interrogare profondamente la nostra identità psicoanalitica, considerare i livelli raggiunti dalla clinica istituzionale, interessarsi alle più recenti aree di ricerca delle neuroscienze, spesso cercare conforto e apporti in altri campi di ricerca come la filosofia, la sociologia, l’etica e la giurisprudenza.
A partire dall’esperienza clinica in Ospedale Diurno e da alcuni trattamenti psicoterapeuti svolti nel carcere minorile vengono descritte le possibili priorità che il trattamento dell’adolescente violento deve proporsi. Le caratteristiche psicopatologiche di tali soggetti sono diversificate ed una corretta diagnosi è il punto di partenza per attuare un adeguato intervento terapeutico. La complessità delle manifestazioni violente giustifica l’importanza di considerare l’origine multifattoriale della violenza adolescente.
I destini dei trattamenti dell’adolescente violento narcisisticamente vulnerabile, impedito nel suo processo di soggettivazione dipendono, comunque, dall'offerta di un appoggio psichico da parte dell’analista e di una cornice istituzionale di contenimento che fornisca modelli per i processi di simbolizzazione. La violenza deve poter essere pazientemente addomesticata grazie al rafforzamento delle basi narcisistiche dell'adolescente. Più le manifestazioni violente sono gravi e ingiustificate, più i quadri psicopatologici sono complessi e più le soluzioni terapeutiche devono potersi adeguare per rispondere alle complessità in questione. Le potenzialità evolutive dell’adolescente autorizzano a sperare di poter deviare il corso della violenza verso un’aggressività più sana e incanalarla verso forme e scopi meno distruttivi.


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* Versione modificata ed ampliata della relazione presentata al 6° Congresso I.S.A.P. (International Society for Adolescent Psychiatry), Roma, 26-29 giugno 2003

° Neuropsichiatra Infantile. Dirigente del Day Hospital Adolescenti della II Divisione di Neuropsichiatria Infantile, Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche dell'Età Evolutiva, Università degli Studi "La Sapienza", Roma.
Psicoanalista SPI, Socio fondatore ARPAd, Vice President I.S.A.P.




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