| | Anno IV - N° 2 - Maggio 2004
Lavori originali: Il lavoro psicoanalitico con adolescenti nelle istituzioni Roma, 8-15-22 Maggio 2004
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Mediare per integrare: il lavoro con gli operatori dei servizi per adolescenti fra supervisione e gruppo esperienziale
Daniele Biondo, Emilio Masina*
Premessa
"Psicologi, sociologi e biologi siedono voltandosi le spalle. Al centro di questa visione tridimensionale stanno i medici e i terapeuti, cercando di mantenersi in equilibrio. Questa è l'acrobatica posizione che manteniamo quando lavoriamo in una comunità terapeutica. L'illustre privilegio degli accademici è di credere di essere prossimi a sapere tutto; l'umile sensazione di brancolare nel buio, propria di coloro che esercitano la pratica clinica, porta invece questi ultimi a sapere che quasi tutto rimane incerto e paradossale" (Hinshelwood, 1989).
Questa citazione dello psicoanalista inglese Hinshelwood ci è sembrata appropriata per introdurre il breve resoconto del progetto di mediazione interistituzionale con gli operatori dei servizi romani che lavorano con adolescenti, commissionato dall'Ufficio Minori del Comune di Roma e condotto da un gruppo di soci dell'Arpad diretti dal prof. Novelletto, di cui ha fatto parte, oltre agli autori, Giovanna Montinari.
La citazione ci sembra efficacemente sintetizzare le difficoltà che si incontrano quando dal rapporto a due con il paziente nel proprio studio ci si sposta verso il lavoro nei gruppi, nelle comunità e nelle istituzioni. Lo sforzo di tollerare un certo livello di incertezza per raggiungere un punto di equilibrio fra diverse esigenze e diversi punti di vista, quello di mantenere saldo il legame con i riferimenti teorici della psicoanalisi per orientarsi nel buio di una nuova esperienza clinica e tuttavia di uscire da una posizione accademica che ancora definisce il lavoro nelle istituzioni l'applicazione di una psicoanalisi elaborata e validata altrove. Ma, soprattutto, lo sforzo di immergersi nel vivo delle problematiche degli operatori e di sfide cliniche affascinanti, entrando a far parte di una comunità psicologica in cui le diverse attribuzioni di ruolo di conduttori e partecipanti al gruppo vengono investite di complessi significati sia nel mondo esterno che in quello interno.
Il nostro progetto ha rappresentato il culmine e al tempo stesso la conclusione di un lavoro di dieci anni nell'Osservatorio sul disagio dell'adolescenza che l'Arpad ha avuto in affidamento dall'Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Roma (cfr. in bibliografia i Quaderni Osservatorio sul Disagio dell'Adolescenza del Comune di Roma); un lavoro che abbiamo scelto di impostare sull'ascolto e il sostegno degli operatori che lavorano con adolescenti realizzando alcune ricerche-intervento che possono essere consultate sul sito www.rifornimentoinvolo.org. Parlare con gli operatori per individuare i loro bisogni formativi ci ha consentito di evidenziare che vi è da parte degli operatori una difficoltà di far funzionare i Servizi in modo competente connessa alla difficoltà di elaborare il complesso "incastro" emozionale fra il controtransfert nei confronti degli adolescenti e quello nei confronti della propria e delle altre istituzioni con cui si trovano ad interagire. In secondo luogo abbiamo verificato che i moduli denominati G.I.L. (Gruppi Integrati di Lavoro) in cui lavorano insieme operatori del Comune e della Sanità rappresentano uno strumento organizzativo utile ma insufficiente per realizzare l'integrazione fra operatori di Servizi caratterizzati da specifiche "culture locali". I GIL, cioè, non riescono a contenere l'angoscia degli operatori rispetto all' "estraneo", cioè a tutto quello che esula e si differenzia dal proprio sistema di appartenenza e a "curare" la qualità delle relazioni nell'équipe interistituzionale e con gli adolescenti.
Come esito di questa situazione vi è una demotivazione da parte degli operatori al lavoro con gli adolescenti, con abbandono o frequenti passaggi di mano dei casi e una burocratizzazione dei GIL che spesso funzionano come mera centrale di smistamento dei casi agli operatori dei diversi servizi.
I due livelli dell'intervento formativo
Il primo livello dell'intervento formativo è stato dunque quello di istituire un setting gruppale interistituzionale, stabile nel luogo e durevole nel tempo, in cui i partecipanti potessero sospendere il fare e dunque l'urgenza e il pragmatismo che si porta dietro l'operatività, per riflettere sul loro operato, dando spazio al pensiero personale e alla convivenza con interlocutori e culture di lavoro ancora poco conosciuti.
Gli obiettivi del progetto di ricerca-intervento sono stati principalmente tre: sostenere l'autostima professionale degli operatori, aiutandoli a passare dal ruolo di utenti dell'intervento di consulenza al ruolo di committenti della domanda formativa;
facilitare il passaggio dalla rete interistituzionale alla rete psicologico-terapeutica, come modello di rete interiorizzabile sia dagli operatori che dagli utenti per la gestione plurifocale dei casi, ed evidenziare i nodi interistituzionali implicati nella gestione degli adolescenti, anche attraverso una valutazione delle risorse esistenti nel territorio interessato e una prima analisi delle metodologie adottate per trattare gli adolescenti "difficili".
Questo primo livello ha riguardato la partecipazione degli operatori di sei Municipi a due gruppi quindicinali in cui discutere i casi che presentavano problemi nel rapporto fra i diversi Servizi che avevano trattato l'adolescente. I Municipi sono stati scelti fra quelli che avevano il maggior carico di lavoro con adolescenti affidati al Servizio sociale e i partecipanti provenivano dai Servizi Sociali del Comune e dai Servizi Materno Infantile delle ASL, con una presenza significativa di insegnanti delle scuole medie e superiori, di operatori di cooperative del Privato Sociale che gestiscono strutture per adolescenti e di assistenti sociali e psicologhe del Servizio Sociale del Ministero di Giustizia.
Un secondo livello dell'intervento ha riguardato la costituzione di un "Gruppo Centrale Adolescenza" a cui hanno partecipato i dirigenti delle Istituzioni di cui facevano parte gli operatori suddetti e una rappresentanza di giudici togati del Tribunale dei Minorenni.
Nodi interistituzionali e problematiche tecniche emersi nei gruppi municipali sono stati via via riportati e discussi nel Gruppo Centrale che è stato dunque pensato per funzionare come area intermedia o "spazio terzo", che consentisse agli operatori dei Servizi di ancorarsi ad un gruppo integrato, al fine di condividere ed elaborare strategie di intervento o superare impasse dell'équipe di appartenenza. Il Gruppo Centrale si è proposto inoltre come gruppo di studio e discussione (anche attraverso l'apporto delle problematiche emergenti a livello periferico), al fine di indicare nuove strategie e criteri o protocolli operativi di intesa fra i diversi livelli istituzionali rappresentati.
I nodi interistituzionali emersi nei Gruppi Municipali
Il lavoro svolto ci ha consentito di individuare alcuni nodi interistituzionali su cui si potrebbe lavorare in una eventuale seconda fase del progetto.
In primo luogo abbiamo evidenziato la difficoltà degli operatori di riconoscere le diverse versioni del Sé dell'adolescente e la loro frammentazione nello "spazio psichico allargato" della rete dei Servizi. Ciascun membro dell'équipe viene ad essere sollecitato dall'uno o dall'altro frammento in base alla sua personale disposizione a risuonare emotivamente con l'uno o con l'altro elemento proiettato dal giovane. Tuttavia, la mancata elaborazione ed integrazione dei frammenti da parte del gruppo degli operatori ostacola la restituzione all'adolescente di un'immagine composita e articolata, che favorirebbe il suo processo di soggettivazione.
In secondo luogo è emersa la notevole influenza sul processo e sugli esiti dell'intervento di categorie affettive inconsciamente e collusivamente condivise dagli operatori, che vanificano le possibilità di raggiungere un consenso sugli obiettivi dell'azione trasformativa e sugli strumenti necessari a perseguirli. Sia nel corso dei diversi interventi presi in esame che nel dibattito che i gruppi hanno sviluppato sul caso abbiamo potuto riscontrare la facilità con cui gli operatori sfuggivano il confronto con i compiti previsti dal proprio ruolo professionale ed erano orientati da una motivazione al potere senza competenza, oppure da una motivazione all'appartenenza affiliativa.
Abbiamo potuto mettere in evidenza e discutere con gli operatori come la costante irruzione di fantasie collusive nel gruppo di lavoro sostenga la scissione degli interventi fra le funzioni della valutazione, della progettazione, dell'azione trasformativa e della verifica.
Infine, abbiamo evidenziato come l'impossibilità di avere a disposizione uno "spazio terzo" abbia ostacolato la capacità degli operatori di far funzionare in termini simbolici i provvedimenti giudiziari sui minori e li abbia orientati all'utilizzazione nei servizi per adolescenti del modello operativo dei servizi per i bambini.
Conclusioni
Non possiamo descrivere approfonditamente il lavoro che abbiamo svolto con i gruppi e ci limitiamo ad alcune considerazioni conclusive.
1. Il lavoro sia con i gruppi municipali che con il gruppo centrale è stato diverso da quello che si svolge nel gruppo esperienziale, anche denominato in psicologia sociale training group o gruppo di base. In quest'ultimo caso, infatti, il compito è quello di riflettere su quanto avviene nell'interazione stessa del gruppo ma escludendo ogni tematica che non concerne, nell'hic et nunc, l'interazione stessa.
Il nostro lavoro, al contrario, pur prevedendo una forte attenzione alla fenomenologia del gruppo in azione è sempre stato fortemente ancorato ai contesti di provenienza dei partecipanti.
In altre parole, il qui ed ora è sempre stato connesso e rimandato al là e allora dell'esperienza dei partecipanti nell'istituzione di appartenenza. L'attenzione a questi diversi ma interrelati livelli di lavoro ci ha consentito di cogliere nel vivo delle dinamiche del gruppo la riproduzione di sistemi di valore, di modalità di interazione e, più in generale, di connotazioni culturali specifiche delle organizzazioni locali.
2. Il lavoro intrapreso è stato differente anche da quello della supervisione: non si è limitato infatti a fornire una visione "altra" della gestione del caso ma ha comportato scendere per così dire nell'arena intergruppale, come la definisce Hinshelwood, che rappresenta un'interfaccia fra gli aspetti sociali e culturali e quelli personali e in cui vengono negoziati sia le fantasie individuali e gruppali che gli assunti organizzativi. Ciò ha voluto dire camminare su un esile crinale fra il rispetto delle fantasie, dei pensieri e delle emozioni individuali e la possibilità di utilizzarli come indicatori di processi di integrazione e di disintegrazione che potevano favorire oppure arrestare lo sviluppo del gruppo di lavoro.
I nostri sono stati dunque interventi di partecipanti e non di osservatori distaccati: soprattutto nella fase iniziale abbiamo dovuto lavorare con il transfert istituzionale nei nostri confronti di fantasie in uso nei diversi contesti di appartenenza ed utilizzare il nostro controtransfert come fonte di informazione sulle difficoltà del gruppo di individuarsi come oggetto credibile ed affidabile. E' stato per certi versi sorprendente sperimentare insieme con i partecipanti ai gruppi come l'inconscio possa permeare non solo la mente individuale, ma anche quella di un gruppo e come aspetti della realtà interna possano facilmente attaccarsi alle "stampelle" offerte da forme di organizzazione del lavoro precarie o disfunzionali, oppure funzionare come risorsa per riorientare processi di lavoro burocratizzati e scarsamente efficaci e per migliorare la qualità delle relazioni nell'équipe.
Il caso di Marta e della sua famiglia
Il caso viene riferito da un'Assistente Sociale municipale: "Il nucleo familiare è composto dai nonni materni e da tre nipoti: Enzo di 20 anni, Marta di 16 e la piccola Simona di 12 anni. Le due sorelle sono state affidate al servizio sociale di un altro Municipio nel marzo 2000, con decreto del Tribunale per i Minori. Io avevo già conosciuto i nonni, risiedenti nel mio Municipio, perché erano arrivati al Servizio inviati dal D.S.M. per un progetto di sostegno economico; fino a quel momento essi avevano usufruito di un contributo del D.S.M. (la nonna era seguita per una depressione). Il padre è deceduto 8 anni fa, la madre nel dicembre 1999, per malattie conseguenti la loro tossicodipendenza. I nonni si sono proposti come affidatari delle due nipoti, cosa che li ha scompensati e ha rotto l'equilibrio nel rapporto con gli altri nipoti. Dopo la morte della madre le ragazze si sono trasferite nel mio Municipio. L'abitazione nel loro municipio d'origine era collocata in un complesso di case popolari in cui viveva anche la zia materna con i propri tre figli, anche lei tossicodipendente, alcoolista e sieropositiva e lo zio materno, agli arresti domiciliari, coniugato e con un figlio.
Le bambine, ora ragazze, una di 16 anni, l'altra di 12, si sono trovate a vivere da sole sia la morte della madre, che l'arresto del fratello maggiore, ora ventenne. Dopo la morte della madre le ragazze sono entrate in un istituto di suore, mentre dopo sono state affidate ai nonni. Nel giugno del 2000 il rientro a Roma del fratello Enzo, a cui le ragazze sono molto legate, ha creato non poco scompiglio nella famiglia visti i conflitti con gli zii materni. I nonni delle ragazze vivono una forte confusione tra i compiti genitoriali e quelli di capostipiti di una famiglia multiproblematica e non riescono a mediare in alcun modo tali conflitti. Il rapporto delle sorelle con i nonni è spesso conflittuale, in particolare con la nonna, dalla mentalità conservatrice, influenzata profondamente dalla sua religione (Testimoni di Geova) che ha inculcato anche alle nipoti. Del resto anche il rapporto della nonna con la mamma delle ragazze era conflittuale. Il nonno ha ricoperto un ruolo affettivo, mentre la nonna ha assunto una funzione più normativa. Quando c'è qualcosa che non va con le nipoti, la nonna esprime la sua rabbia con questa frase: "Sei come tua madre!".
Il Servizio Sociale ha lavorato molto per favorire l'integrazione di M. (16 anni) a scuola ,un istituto alberghiero in cui la ragazza si è ben inserita, riuscendo ad ottenere buoni risultati. Iintegrazione riuscita grazie anche al buon rapporto che intercorre tra questa scuola e il Municipio d'origine di Marta. Tuttavia, ora emerge il problema di far continuare questa integrazione, dal momento che è cambiato il Servizio Sociale. La ragazza, oltre alle inevitabili problematiche derivanti dal contesto familiare in cui è vissuta, comincia ad evidenziare i sintomi di un'adolescenza burrascosa.Ha un carattere più espansivo della sorella più piccola , però, con lle problematiche, tipicamente adolescenziali, di rottura con il mondo degli adulti, di pretesa d'indipendenza assoluta, di rifiuto delle regole, si aggiunge il disagio per i gravi problemi fisici che l'affliggono: ha una malformazione del nervo ottico che l'ha resa quasi cieca da un occhio e una forma di scoliosi rilevante. Ciò la porta ad essere insicura nel rapporto con i coetanei, che tende a nascondere con comportamenti aggressivi o di indifferenza. Il Servizio sociale di provenienza delle ragazze ha elaborato un Progetto che prevede:
- un collegamento tra le due cooperative dei due territori coinvolti, visto che le ragazze sono molto affezionate alle educatrici del Muncipio di provenienza, per realizzare un buon passaggio di mano.
- Il proseguimento del sostegno psicologico della ASL, al fine di aiutare le ragazzine ad elaborare il lutto.
- Un sostegno economico al nucleo con l'attivazione dell'ex ENAOLI
- Il coinvolgimento dell'assistente sociale tutore delle minori nell'attivazione di aiuti diretti (attraverso l'utilizzo dei soldi dell'assegno d'invalidità di Marta).
L'assistente sociale conclude la sua esposizione del caso esplicitando la sua preoccupazione che l'integrazione fra i servizi che si era riusciti a raggiungere nel Municipio di provenienza delle ragazze sarà difficile da ottenere nell'attuale Municipio, a causa del cambiamento degli operatori del Sismif e degli insegnanti , su cui quell'integrazione si fondava. Aggiunge che non è stato possibile assicurare neanche la continuità del trattamento psicologico visto le difficoltà di collaborazione con il servizio sociale della ASL. Conclude dicendo: "forse il passaggio andava fatto più gradualmente, ma io mi sono travata con un progetto già deciso da altri !"
Il dibattito nel gruppo si fa subito infuocato e polemico. "Ma le ragazze che dicono del loro cambiamento di residenza?" chiede subito un assistente sociale municipale. "Perché non è stato mantenuto il rapporto con le vecchie educatrici del Sismif e con le cugine ?", incalza un'altra operatrice. "In questi due anni con chi sono state le due ragazze ?"aggiunge l'assistente sociale di una A.S.L. Chiude la raffica di interventi, dal tono polemico, una psicologa di un Municipio, che dice : "Quello che manca in questo gruppo familiare è la separazione, la distinzione dei ruoli. C'è una grande dipendenza. C'è anche una confusione di ruoli: marito o cugino? Nonni o genitori? Com'è che non è stato pensato un intervento terapeutico con tutta la famiglia?". Una psicologa di una A.S,L. afferma : "Mi auguro che il Tribunale non dia l'affidamento ai nonni, in modo che possa sempre esserci qualcuno che monitori la situazione". Le fa eco un'assistente sociale di una A.S.L.: "Ssarebbe meglio che neanche la tutela fosse data ai nonni". La psicologa della ASL aggiunge : "C'è un S.E.R.T. che non ha fatto niente. Un D.S.M. che non ha tutelato i minori, perché si era occupata della nonna per una depressione maggiore e pur sapendo che a suo carico c'erano dei minori non ha fatto la segnalazione al S.M.I. La nonna, inoltre, ha prodotto un altro delinquente". L'assistente sociale che aveva presentato il caso ricorda, forse per il bisogno di recuperare credito fra i colleghi, che: "Già il fatto che i nonni si siano trasferiti nel VII Municipio ha migliorato molto la situazione".
Il clima teso del gruppo, abbastanza insolito visto l'affiatamento raggiunto in questa fase del percorso (questo è uno degli ultimi incontri), viene attenuato dall'intervento di uno psicologo scolastico, che dice : "In "Cent'anni di solitudine" Marquez ha visto quelle storie terribili non con un taglio sanitario, ma non con un taglio esistenziale. Se non facciamo anche noi così rischiamo di non comprendere la situazione". A questo punto il conduttore fa notare al gruppo come l'assistente sociale sia stato messo dal gruppo nella stessa situazione emotiva in cui la famiglia di Marta aveva messo la ragazza. Fa notare che tale situazione può essere descritta come la sindrome dell'ultimo arrivato, il quale deve fare i conti con una serie di elementi indifferenziati grezzi difficili da affrontare in un'ottica individuale. Accenna agli elementi di irreparabilità del danno, collegati alla trasmissione intergenerazionale presenti nel caso. Tale tema, per superare le sue caratteristiche di inelaborabilità non può essere delegato alla ragazza o all'assistente sociale, ma deve essere realizzato dal gruppo delle istituzioni accudenti. Come? Ad esempio proteggendo le relazioni buone fino a quel momento realizzate dalle ragazze ( scuola, Sismif, nonno, psicologa ASL), valorizzando ciò che di buono possono ricevere dai contesti "alternativi" alla famiglia. Grazie a queste considerazioni il clima del gruppo può cambiare e diventare più empatico con le difficoltà dell'assistente sociale. Lo psicologo scolastico dice : "Mi sembra che il tuo operato sia stato molto giusto, perché hai utilizzato un approccio integrale ". Una psicologa municipale aggiunge : "Mi sembra che stiamo mettendo in scena i diversi nuclei della situazione". Il conduttore conclude l'incontro dicendo : "Quello che abbiamo messo in scena dentro il gruppo è come si sono sentite le due ragazze nella loro famiglia: 1) le ultime arrivate (senza potere) sulle quali pesano le decisioni degli altri; 2) con un'eredità negativa transgenerazionale (deficit di vista: incapacità di pensare ed elaborare tutto questo "troppo"); 3) disconfermate nel loro operato e nelle loro competenze affettive, relazionale, scolastiche (senza sapere).
Commento al caso
L'elemento più significativo che possiamo rintracciare nel racconto da parte dell'Assistente Sociale del caso di Marta e della sua famiglia è la molteplicità degli elementi problematici in campo e la loro grande dimensione intesa sia a livello spaziale (vengono interessati più Municipi) che temporale (coinvolge almeno tre generazioni). Ciò ha comportato, inevitabilmente, l'attivazione di una serie di istituzioni per la gestione del caso.
La relazione con la famiglia multiproblematica, di per sé difficile per la complessità dei temi in campo, si complica quanto sono presenti degli adolescenti: più propensi ad agire il disagio o a somatizzarlo, più che esprimerlo a livello psicologico .
L'operatore, con gli adolescenti, è di conseguenza sottoposto ad ulteriori effetti destabilizzanti che mettono a dura prova il suo equilibrio personale.
Tali effetti sono il risultato della proiezione sull'operatore degli elementi grezzi che circuitano nella famiglia che ha preso in carico. In particolare l'assistente sociale sembra essersi identificata inconsciamente con i sentimenti d'impotenza e di disperazione degli adolescenti di questa famiglia.
Ciò che l'assistente sociale porta al gruppo, come fa notare il conduttore, è il suo vissuto di "ultima arrivata", corrispondente a quello dei ragazzi di cui si deve occupare, i quali devono fare i conti con i problemi di tossicodipendenza dei genitori e di depressione e rigidità superegoica dei nonni. Sull'assistente sociale sono stati proiettati i vissuti inconsci dei ragazzi (inerenti problematiche non risolte che appartengono alle generazioni precedenti), che vengono da lei comunicati al gruppo nei termini dell'angoscia di dover fare i conti con la responsabilità di un progetto d'intervento elaborato in altre sedi ed in altri tempi, senza che lei possa avere alcuna possibilità di integrare ed elaborare tutto ciò.
Possiamo dire, a tal proposito, che l'assistente sociale è l'operatore più esposto alle identificazioni proiettive degli utenti e delle istituzioni coinvolte. Ciò porta, quasi automaticamente, questo operatore a "disfunzionare". Poiché gli assistenti sociali hanno spesso a che fare con individui e famiglie pesantemente disfunzionanti, che portano bisogni, istanze e materiale psichico non integrato di varia natura, è inevitabile che questi operatori siano contagiati da tutto ciò, finendo per funzionare secondo le modalità primitive dei loro utenti.
In altri termini si può ipotizzare che nel soggetto o nelle famiglie che disfunzionano a livello sociale vi siano una serie di istanze psichiche nascoste che aspirano ad avere una rappresentanza, cioè che aspirano a raggiungere una forma comprensibile e accettabile. Il tentativo di raggiungere tale forma elaborabile può attraversare le generazioni e le istituzioni senza un buon esito, facendo "ammalare" tutti coloro che vengono coinvolti.
"Cent'anni di solitudine" è stato giustamente evocato dal gruppo per dare un nome al pellegrinaggio infinito di tale sofferenza psichica. Il problema, dunque, non è tanto evitare che ciò accada, ma come affrontare tali contenuti frammentati inconsci senza esserne destabilizzati, ma riuscendo a sopravvivere psichicamente. I rapporti interistituzionali non funzionano soltanto a causa di carenze di comunicazione, informazione, contenitori, ma anche perché il gruppo interistituzionale è il luogo in cui si scaricano gli aspetti disfunzionali o problematici del caso (i suoi deficit esistenziali), producendo un analogo disfunzionamento interistituzionale (distorsione percettiva). Possiamo ipotizzare che alla trasmissione intergenerazionale patologica delle famiglie corrisponde una trasmissione interistituzionale patologica, intesa come incapacità di gestire il passaggio della presa in carico tra diverse istituzioni. Se adottiamo tale prospettiva possiamo comprendere che i gruppi interistituzionali "non funzionano" perché "non devono funzionare"; nel senso che sono destinati a contenere il disfunzionamento transgenerazionale delle famiglie multiproblematiche di cui si occupano. Poiché parliamo di individui e di famiglie disfunzionanti, che al proprio interno hanno una serie di esigenze, istanze e bisogni inconciliabili e non integrati e/o non integrabili, è inevitabile che l'intervento in questa realtà da parte di più soggetti istituzionali si frammenti e si ammali dello stesso male del proprio oggetto di lavoro. Detto in altri termini, possiamo ipotizzare che nel soggetto o nelle famiglie che disfunzionano a livello sociale, ci siano una serie di istanze che aspirano ad avere una rappresentanza, sia in termini psichici (nel senso freudiano del rapporto del sogno con l'inconscio), che in termini del gioco democratico fra le diverse forze istituzionali in campo.
Così come nella terapia individuale il primo compito dell'analista è quello di "uscirne vivi", per dirla con Winncott, così nel lavoro sociale con queste famiglie multiproblematiche, possiamo dire, l'obiettivo è riuscire a sopravvivere alle loro manovre inglobanti e disorganizzanti.
Come dice A. Ferro "Se noi lavoreremo bene nel ridare rappresentatività ai «blocchi» dei legami intersoggettivi, «giochi della follia» individuali, gruppali e soprattutto istituzionali potranno allentarsi ed anche sciogliersi" (A. Ferro, 1996).
Bion (1962) ha dimostrato che tali blocchi (da lui definiti "elementi beta") possono essere trasformati attraverso due fasi: la prima di contenimento e la seconda di passaggio dalla posizione schizo-paranoide e quelle depressiva. La fase di contenimento presuppone che tali esperienze devono poter risuonare in un'altra mente, capace di contatto emotivo ed empatia, per poter essere accettati dalla mente e trasformata.
Una volta collocata in uno spazio mentale e affettivo condiviso e perciò adeguato, l'esperienza dolorosa può essere avvicinata ad altre esperienze ad essa connesse (da Bion definito come "prodotto della funzione alfa").
Il gruppo come nota Correale (1996), per sua natura sembra costituire un apparato particolarmente propizio al verificarsi di tali processi. Esso sembra infatti dotato di due funzioni prevalenti, opposte ma integrative. Da un lato, il gruppo induce nei partecipanti fenomeni di più o meno parziale depersonalizzazione, con conseguente emergenza di fenomeni di frammentazione, scissione e concretezza. Dall'altro lato, il piccolo gruppo, sembra essere particolarmente adeguato per operare la sintesi e l'integrazione di questi processi mentali. "Per sua natura, infatti, il gruppo propone quasi fisiologicamente l'idea che ogni intervento non sia soltanto espressione del punto di vista di un individuo, ma costituisca la parte di un tutto, che lentamente prende forma" (Correale, 1996, pag. 116).
Il gruppo istituzionale, caratterizzato in termini di ruoli e funzioni gerarchiche, non è solitamente dotato di un sistema di contenimento ed integrazione delle esperienze psichiche degli operatori. Di conseguenza queste restano scisse e non integrate lasciandole all'individuo, il cui apparato psichico ne viene dolorosamente invaso.
Affinché le istanze psichiche non rappresentate nella catena transgenerazionale possano trovare una loro figurazione occorre che trovino uno "scenario". Spesso esso è rappresentato per le famiglie multiproblematiche, non da elementi interni, ma dalle istituzioni che intervengono in soccorso, che proprio con il loro coinvolgimento realizzano una promessa di accoglimento del non dicibile. Ma affinché tali istituzioni possano elaborare una rappresentazione delle istanze inconsce (il non detto transgenerazionale) che attraversano le famiglie di cui si prendono cura, , devono potersi dotare di un setting adeguato, quello che abbiamo definito della mediazione interistituzionale. Nel caso di Marta si evidenzia che solo grazie al dispositivo gruppale interistituzionale, è possibile far emergere il fantasma inconscio di Marta e della sua famiglia, depositato nell'assistente sociale, inerente l'angoscia di essere lasciati soli nel mare dell'esistenza senza i dovuti strumenti mentali per riuscire a navigare e trovare una rotta. Marta ha dovuto drammaticamente constatare che sono tanti che nella sua famiglia sono annegati in questo mare, a cominciare dai propri genitori. Con l'evocazione di "Cent'anni di solitudine", il gruppo riesce a trovare una figurazione poetica della condizione di angoscia esistenziale di Marta, della sua famiglia e dell'assistente sociale che se n'è fatta carico.
Note
*Daniele Biondo: psicoterapeuta. Socio A.R.P.AD.
Emilio Masina: specialista in psicologia clinica. Socio ordinario A.R.P.AD., Socio fondatore Coop. Rifornimento in Volo.
La prima parte del contributo è stata scritta da Emilio Masina, il caso da Daniele Biondo.
Bibliografia
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Bion W.R. (1965), Trasformazioni, Armando, Roma
Bion W.R. (1967) Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando Editore, Roma 1970
Correale A. (1996), L'ipertrofia della memoria come forma della patologia istituzionale, In Kaes e altri : Sofferenza e psicopatologia dei legami istituzionali, Borla, Roma, 1998
Ferro A. (1996), La terapia istituzionale tra dimensione grippale e percorso individuale, In Kaes e altri : Sofferenza e psicopatologia dei legami istituzionali, Borla, Roma, 1998
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Novelletto A. (1998), Tendenza alla frammentazione e processi integrativi nell'adolescente e nell'èquipe. Relazione al Corso regionale di formazione, Università di Napoli (inedito).
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Novelletto A., Biondo D., Masina E., Montinari G. (a cura di) (2003), Mediazione Interistituzionale. Un progetto per l'integrazione degli operatori del comune di Roma che lavorano con gli adolescenti. III° Quaderno Osservatorio sul Disagio dell'Adolescenza del Comune di Roma, E-Service, Roma.
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