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A.R.I.R.I.
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Paolo Migone
Psicoanalisi e psicoterapia: identità e differenze
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Relazione tenuta al Corso di Aggiornamento ARIRI "Aggiornamenti in Psicoterapia Psicoanalitica" a Bari il 6 settembre 2003
In questo breve scritto mi propongo di riassumere alcuni passaggi del
mio seminario tenuto a Bari il 6 settembre 2003 sulle identità
e differenze tra psicoanalisi e psicoterapia. Non potendo in questa sede
esporre la trattazione dettagliata di questo argomento, rimando ad altri
lavori per un maggiore approfondimento (vedi in particolare Migone, 1991,
1992,
1995b, 1995c,
1998,
2000, 2001).
Per cercare di dare una risposta coerente all'annoso problema della differenza
tra psicoanalisi e psicoterapia (problema mai risolto chiaramente - si
vedano ad esempio i vani tentativi di un Wallerstein, 1969, 1989) è
indispensabile partire da una prospettiva storica e sociologica, oltre
che teorica. La pratica della cosiddetta "psicoterapia psicoanalitica"
si è diffusa negli Stati Uniti attorno agli anni 1950 parallelamente
allo widening scope della psicoanalisi (Stone, 1950): in quegli
anni, come naturale conseguenza della enorme diffusione della psicoanalisi
in quel paese, sempre più analisti si trovarono a trattare casi
difficili, ed era sorta la necessità di modificare il setting analitico
classico per venire incontro ai bisogni dei pazienti che non riuscivano
a tollerarlo. Ma va ricordato che proprio in quegli anni, non a caso,
si era nel periodo di massimo fulgore della Psicologia dell‰Io (Hartmann,
1937, 1964; Hartmann, Kris & Lowenstein, 1964; Blanck & Blanck,
1974) secondo la quale assumeva importanza, sia a livello teorico che
tecnico, il ruolo dell'Io, cioè delle difese del paziente (A. Freud,
1936). Si può dire che il passaggio da una precedente "Psicologia
dell'Es" alla Psicologia dell'Io significava innanzitutto prestare
una massima attenzione alle difese, rispettarle, e in generale trasformare
la tecnica psicoanalitica da una pratica meramente interpretativa ad una
"analisi delle difese" (dalla superficie al profondo, e così
via). Si può dire che per precisi motivi teorici e clinici la naturale
sovrapposizione di psicoanalisi e psicoterapia, e quindi la mancata fondatezza
di un tentativo di differenziarle su basi solamente teoriche (i "criteri
intrinseci" di cui parlerà Gill
nel 1984), era già posta e risolta allora; i successivi tentativi
di differenziare queste due tecniche, quando non erano basati su fraintendimenti
ed teorizzazioni incoerenti, rispondevano prettamente ad esigenze politiche
e di mercato (preservare la identità del marchio "psicoanalisi"),
oppure si arenavano in tautologie (del tipo: la psicoterapia si fa in
un modo e la psicoanalisi in una altro - ovviamente a livello di criteri
"estrinseci" o esterni, cioè frequenza settimanale, lettino
ecc.). Infatti, secondo la prospettiva della Psicologia dell'Io, la variabile
indipendente non era più la tecnica che andava applicata ai pazienti,
anche di diverse diagnosi, ma il paziente, il suo Io, cioè il suo
stato difensivo, il suo livello di sviluppo (o diagnosi), insomma i suoi
specifici bisogni: da questi bisogni dipendeva la tecnica, che appunto
diveniva la variabile "dipendente" (non a caso, secondo la prospettiva
kleiniana, che era opposta a quella della Psicologia dell'Io, veniva teorizzato
un identico approccio tecnico, quello interpretativo classico, anche ai
casi clinici più gravi come gli psicotici). Per far comprendere
meglio questa problematica, si può dire che uno "psicoanalista"
che con un determinato paziente si rifiutasse di fare lo "psicoterapeuta"
(intendendo con questa accezione tra virgolette la modificazione del setting
a seconda dello stato dell'Io del paziente, cioè dei suoi bisogni)
risulterebbe essere solo un "cattivo psicoanalista", cioè
tradirebbe la sua stessa teoria (la Psicologia psicoanalitica dell'Io),
non essendovi alternative. Per un approfondimento, rimando a un dibattito
suscitato da un articolo di Kernberg del 1999 sull'International Journal
of Psychoanalysis, in cui intervenni criticamente anch'io (questo
dibattito è riassunto da Galatariotou nel n. 2/2000 dell'International
Journal, ed è scaricabile da Internet: vedi Galatariotou,
2000). Per rendere meglio l'idea di quello che voglio dire, e per
brevità, riporto qui un mio brano (tra i tanti che potrei citare)
di quel dibattito sulle posizioni di Kernberg in cui ponevo delle domande
precise (vedi Migone,
2001): "Perché uno psicoterapeuta supportivo 'orientato psicoanaliticamente'
non dovrebbe analizzare il transfert e il controtransfert? Se questo terapeuta,
dato che conosce la teoria psicoanalitica, è consapevole dell'esistenza
del transfert e del controtransfert, e se crede che la loro analisi sia
utile, perché dovrebbe deprivare il paziente di questa opportunità?
Quale è il razionale di questa tecnica? D'altro lato, se uno psicoanalista
crede che con un certo paziente in un dato momento una analisi del transfert
o del controtransfert possa essere dannosa o inutile, perché dovrebbe
farla? Se non la fa, diventa improvvisamente uno psicoterapeuta? E se
la fa, e quindi danneggia il paziente, che tipo di tecnica psicoanalitica
sta usando?". Kernberg non rispose direttamente a queste domande.
A proposito della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia è
fondamentale presentare il contributo
di Eissler del 1953, che appunto sistematizzò in modo logico
e coerente, dal punto di vista classico, i motivi per cui poteva essere
modificata la tecnica psicoanalitica classica affinché potesse
essere ancora definita "psicoanalitica" e non "psicoterapeutica".
Vediamo brevemente il contributo di Eissler, che conserva tuttora la sua
validità nonostante possano essere modificate le premesse (e questo
grazie anche a Gill) secondo le quali solo un determinato setting (quello
classico) poteva caratterizzare la psicoanalisi.
Il contributo di Eissler
(1953) sul "parametro di tecnica"
Eissler nel 1953 teorizzò, a scopo euristico, un "modello di
tecnica di base" (basic model technique): questo è un
modello ideale, difficilmente attuabile in pratica, in cui si suppone
che l'analista lavori con un paziente che abbia un Io intatto, e in
cui i suoi interventi si limitino solamente all'interpretazione verbale,
senza che le regole di base del setting vengano modificate. In questo
caso l'Io del paziente è talmente forte che riesce a tollerare
ed elaborare i significati trasmessi dalle interpretazioni (le quali
sole, va ricordato, erano ritenute lo strumento terapeutico par excellence
della psicoanalisi "ortodossa"). Eissler coniò il termine
"parametro di tecnica" per indicare una modificazione della tecnica
resa necessaria dalle condizioni deficitarie dell'Io del paziente; queste
modificazioni possono includere vari tipi di interventi diversi dall'interpretazione,
quali ad esempio la rassicurazione, il consiglio, il ritorno alla posizione
vis-à-vis, la prescrizione di un comportamento (come il
suggerire l'esposizione a un oggetto fobico), lo stabilire di autorità
la data del termine della analisi per mobilizzare eventuali resistenze
(queste ultime due tecniche furono praticate da Freud [1914] con l'Uomo
dei lupi [Migone,
1995a, pp. 42 e 56]), e così via. Però secondo Eissler,
e in questo consiste il suo principale contributo, una tecnica può
essere chiamata ancora "psicoanalisi" quando l'introduzione di un parametro
si basa sui seguenti quattro criteri: 1) deve essere introdotto solamente
quando sia provato che la tecnica di base non è sufficiente;
2) non deve mai oltrepassare il minimo inevitabile; 3) deve condurre
alla sua autoeliminazione; 4) le sue ripercussioni sul transfert non
devono mai essere tali che non possa più essere abolito dall'interpretazione.
In questo modo Eissler propose una giustificazione razionale della differenza
tra psicoanalisi e psicoterapia: per operare una reale modificazione
della struttura dell'Io, il parametro eventualmente introdotto deve
essere poi eliminato, altrimenti si incorrerebbe in un pericolo dell'uso
di un parametro (contro il quale mise acutamente in guardia lo stesso
Eissler), quello del "sequestro di materiale analitico" come conseguenza
dell'introduzione del parametro stesso, in quanto "ogni introduzione
di un parametro incorre nel pericolo che una resistenza venga eliminata
senza essere stata analizzata" (p. 65). Quindi da un punto di vista
psicoanalitico, secondo Eissler per "psicoterapia" si potrebbe intendere
una terapia basata su parametri non analizzati e non eliminati, introdotti
in modo fisso nel setting (quindi a rigore non definibili "parametri"
nel senso dato ad Eissler del termine, ma come vere e proprie "modificazioni"
della tecnica [Eissler, 1958]). Questa terapia potrebbe avere un effetto
benefico nel paziente, ad esempio lo rassicurerebbe, ma, non permettendogli
di introiettare determinate funzioni (mantenendolo dipendente da certe
caratteristiche dell'ambiente per funzionare, ad esempio da un determinato
parametro), né di acquisire l'insight sulle ragioni del suo benessere
ottenuto tramite il parametro, non opererebbe quelle modificazioni strutturali
dell'Io che sono l'obiettivo della psicoanalisi (per una esemplificazione
clinica dell'utilizzo del parametro del setting di terapia breve, vedi
Migone,
1995a, pp. 58-62).
Come si accennava prima, il ragionamento di Eissler conserva tutta la
sua lucidità e coerenza, e sottolinea il possibile significato
difensivo dell'azione, anche nel senso di agito (acting out o,
meglio, acting in, cioè all'interno della seduta), rispetto
alla capacità del paziente di trasformare l'azione in parole,
ovvero di disporre di una maggiore mentalizzazione o di nuove strutture
dell'Io, ad esempio di poter fare a meno di un determinato comportamento
dell'analista senza necessariamente perdere l'equilibrio psicologico
raggiunto (sia veda anche la tradizionale differenza tra disturbo "alloplastico"
e "autoplastico"). E' in questo processo che Eissler identificò,
e a mio parere correttamente, l'essenza della psicoanalisi, e questo
ragionamento, anche se Eissler legò la psicoanalisi al setting
"classico", regge a prescindere dal tipo di setting usato,
ortodosso o eterodosso che sia (Migone, 2000). La revisione teorica
compiuta 30 anni dopo da Gill
(1984) e la sua enfasi sul ruolo della interpretazione del transfert
come aspetto centrale della psicoanalisi, come vedremo, non è
in antitesi con questa impostazione di Eissler. Gill, grazie ad una
riconcettualizzazione "relativistica" del concetto di transfert,
permetterà un ampliamento dei criteri che lui chiamò estrinseci
(cioè del setting classico), e quindi un utilizzo della psicoanalisi
nei setting più vari. Ma accenniamo ora alla posizione dell'ultimo
Gill (1982, 1983, 1984,
1993, 1994).
La revisione di Gill
(1984)
Nel 1954 Merton Gill definì i criteri coi quali differenziare
la psicoanalisi dalla psicoterapia, e questo suo contributo rimase un
punto di riferimento per tutto il movimento psicoanalitico. Ma trenta
anni dopo, nel
1984, rivide le sue posizioni e scrisse un altro lavoro in cui propose
le differenza tra psicoanalisi e psicoterapia in termini nuovi, grazie
anche alla sua revisione del concetto di analisi del transfert. Questa
revisione riprende le intuizioni degli psicoanalisti interpersonali
degli anni 1920-1940 (Sullivan, Fromm-Reichmann, Horney, Thompson, ecc.),
inquadrandole però in una rigorosa e coerente cornice teorica
come mai era stato fatto prima all'interno della tradizione classica.
Gill propose una concezione allargata di psicoanalisi basata non sui
criteri "estrinseci" (alta frequenza settimanale, uso del lettino, ecc.)
ma solo sui criteri "intrinseci" (l'analisi del transfert), visti però
con un significato diverso perché inseriti all'interno di una
concezione bi-personale e "relativistica" della interazione analista-paziente,
secondo la quale il concetto di transfert viene talmente allargato che
per certi versi diventa sinonimo di "relazione". Questa revisione
di Gill è importante perché ha profonde implicazioni per
la psicoanalisi, anche a livello istituzionale e del training. Permette
infatti in questo modo di ampliare la applicazione della psicoanalisi
rimanendo coerenti con il principio della centralità della analisi
del transfert (o della relazione). La psicoanalisi, secondo la accezione
allargata di Gill (che tentativamente definì "terapia psicoanalitica"
[Gill, 1984,
p. 157]), consiste essenzialmente nella analisi della relazione col
paziente, qualunque setting si adotti o in qualunque situazione clinica
ci si trovi.
In questa sede non mi è possibile riassumere tutti i passaggi
della revisione teorica di Gill, per cui rimando ad alcuni lavori già
citati (Migone,
1991, 1995b). Quello che voglio fare è semplicemente presentare
un breve caso clinico, consistente in una "psicoterapia sul lettino"
e una "psicoanalisi sulla sedia", dove viene capovolto il tradizionale
modo di concepire la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia se la
loro identità rimane legata unicamente ai criteri estrinseci,
bene esemplificati con l'uso del lettino che ancora oggi da molti è
considerato parte integrante del setting psicoanalitico e non di quello
psicoterapeutico.
Caso clinico: una "psicoanalisi sulla sedia" e una "psicoterapia
sul lettino"
Si tratta di un episodio che mi accadde alcuni anni fa con una paziente,
allora di 31 anni, in terapia trisettimanale vis-½-vis, che durante
una fase difficile della terapia incominciò a mostrare, assieme
a varie manifestazioni di cosiddetto "transfert negativo" (aggressività,
sensazione di non essere capita, minacce di interruzione, ecc.), una
notevole difficoltà a tollerare il contatto visivo con me, lamentando
il fatto che la terapia era faccia a faccia, mentre lei avrebbe preferito
il lettino che le avrebbe permesso di sentirsi più "contenuta",
"protetta", "rilassata", di esprimere con minore difficoltà i
suoi "veri sentimenti", e così via.
L'elaborazione interpretativa di questa situazione comportava, tra le
altre cose, le seguenti considerazioni. I genitori della paziente, che
non erano sposati, si erano lasciati poco prima della sua nascita; il
padre avrebbe voluto che la madre abortisse, e si rifiutò di
riconoscere la figlia. Per una serie di litigi che non erano mai stati
chiariti né capiti a fondo dalla paziente, da allora erano cessati
del tutto i rapporti col padre. Questi, che era di classe sociale molto
superiore a quella della madre, viveva nella stessa città, e
qualche volta si incontravano per strada, ma sempre facendo finta di
non conoscersi. I sentimenti della paziente erano di forte aggressività,
mista a paura, affetto, e sentimenti di inferiorità e vergogna
causati dalla ambivalente fantasia che il padre per un qualche motivo
avesse "fatto bene" ad abbandonarla, o che comunque avesse avuto le
sue buone ragioni. Naturalmente la paziente avrebbe potuto prendere
l'iniziativa e andare a parlare col padre, ma ne era impossibilitata
da una forte paura di esplodere di rabbia con lui. Inoltre l'avvicinarsi
al padre avrebbe comportato una rottura della loyalty con la
madre, con cui viveva ancora insieme e a cui era molto legata, la quale
per problemi propri non era stata capace di elaborare il rapporto con
lui, e per motivi di orgoglio aspettava che fosse lui a fare il primo
passo. Inutile dire che questa situazione pesava come un lutto non risolto
per la paziente, avendo contribuito per esempio a crearle una forte
inibizione a farsi una famiglia e ad avere essa stessa un figlio nonostante
le molte occasioni che le si erano presentate, poca assertività
nel fare carriera, un forte senso di inferiorità, indegnità
di meritare i diritti di tutti gli altri, ecc. (questa problematica,
tra l'altro, era qui ben razionalizzata anche dal fatto che la paziente
ambivalentemente svalutava me - e, a ben vedere, se stessa - per il
fatto che non usando il lettino secondo lei io non le facevo una "psicoanalisi"
ma una "psicoterapia", anche perché io ero un terapeuta indipendente
dalla associazione psicoanalitica "ufficiale", la quale sola la avrebbe
finalmente "riconosciuta" e "legittimata"; ma ero ben consapevole che
nella sua ambivalenza lei aveva scelto proprio me perché sapeva
bene che, in un certo senso, ero un suo alleato in quanto anch'io ai
suoi occhi ero un "non riconosciuto"...).
Ebbene, con molta probabilità dietro a questa difficoltà
del contatto emotivo e visivo diretto con me c'era anche quella a provare
ed esprimere tutti i dolorosi sentimenti ambivalenti verso il padre
(odio, amore, ecc.). La richiesta del lettino poteva significare anche
un ripetere il dramma del "non rapporto" col padre, e se avessi accettato
di introdurre questo cambiamento, forse avrei dato inconsciamente alla
paziente l'immagine di un padre che non voleva fare veramente i conti
con la forza delle emozioni che la paziente appunto voleva evitare:
si può far l'ipotesi che in questo caso io sarei stato "risucchiato"
dal transfert della paziente, la quale sarebbe riuscita ad evocare inconsciamente
in me la "risonanza di ruolo" (Sandler,
1976) evocata dal transfert.
Ma non voglio soffermarmi sull'analisi di queste ipotesi psicodinamiche,
perché sono facilmente alla portata di qualunque terapeuta esperto.
Quello che voglio discutere è il ruolo degli elementi del setting
nella logica interpretativa. Nel caso in questione fortunatamente il
lavoro interpretativo, incentrato sul significato inconscio della sua
richiesta del lettino, riuscì a sbloccare la paziente e a farle
evocare tutta una serie di ricordi e sentimenti dolorosi, sia su di
sé che sul padre, facendo così procedere la terapia positivamente.
Ma supponiamo che il mio lavoro non fosse riuscito, che cioè
la paziente non avesse retto nel rapporto faccia a faccia con me e avesse
minacciato di interrompere la terapia se non la mettevo sul lettino,
quale sarebbe stata la condotta da seguire? Pongo questa domanda qui
solo come esercizio teorico, e supponendo ovviamente che l'analisi da
me fatta sulla genesi delle resistenze della paziente sia corretta.
Una possibilità in effetti sarebbe stata, seguendo Eissler
(1953), quella di introdurre, a causa della "debolezza dell'Io"
della paziente, un "parametro" nella "psicoanalisi con la sedia" e metterla
in "psicoterapia col lettino" per continuare il lavoro, fino a quando
non si riuscisse ad eliminare il parametro (il lettino) per poi farla
ritornare alle condizione della mia tecnica di base (che in questo caso
comportava l'uso della sedia). Così, paradossalmente, qui la
psicoanalisi si sarebbe fatta con la sedia e la psicoterapia col lettino,
reso necessario dalla paziente per la quale non era sufficiente il lavoro
di interpretazione verbale sulla difficoltà a guardarmi in faccia,
per cui avrebbe richiesto un "agito", cioè l'introduzione di
un parametro proprio secondo la concezione di Eissler.
Trovo questo esempio utile, anche perché in modo divertente capovolge
i termini del problema delle differenze tra psicoanalisi e psicoterapia
così come sono intese se si considerano solo i criteri estrinseci,
e nel contempo ci fa pensare a quale può essere il rischio che
si corre in molte psicoanalisi ortodosse, dove si può scivolare
in una psicoterapia "manipolatoria" nella misura in cui, proprio come
disse Gill, permettiamo che parte del materiale sfugga dal lavoro interpretativo
se crediamo nella neutralità e nella universalità del
setting classico.
Abstract. Viene discusso
l'annoso problema della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia,
mostrando come sia indispensabile partire da una prospettiva storica
e sociologica per comprendere i vari sviluppi della psicoanalisi. In
particolare viene ripercorsa la storia del dibattito ufficiale sulla
differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, e discusse le radici storiche
della identità della cosiddetta "psicoterapia psicoanalitica" così come
si è andata formando negli Stati Uniti attorno agli anni 1950 parallelamente
allo "widening scope" della psicoanalisi. All'interno di questo
excursus storico viene presentata e discussa la concettualizzazione
del "parametro" di tecnica di Eissler
del 1953. Infine vengono presentate in dettaglio le posizioni dell'ultimo
Merton Gill
(1984), degli anni '80, che si sono radicalmente modificate rispetto
a quelle da lui stesso sostenute una trentina di anni prima e che erano
considerate un punto di riferimento per tutta la tradizione classica.
La revisione operata da Gill coinvolge non solo i criteri estrinseci
della psicoanalisi (uso del lettino, frequenza settimanale, ecc.) ma
anche gli stessi criteri intrinseci (teorici), riformulando in modo
più lucido e coerente le intuizioni fatte da alcuni pionieri della psicoanalisi
vari decenni prima (Sullivan, Alexander, Fromm-Reichmann, ecc.), e permettendo
in questo modo di ampliare la applicazione della psicoanalisi rimanendo
coerenti con il principio della centralità della analisi del transfert.
Per far comprendere meglio le implicazioni della revisione di Gill viene
presentato infine il dettagliato esempio clinico di una "psicoterapia
sul lettino" e di una "psicoanalisi sulla sedia", dove viene capovolto
il tradizionale modo di concepire la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia
se la loro identità rimane legata unicamente ai criteri estrinseci.
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Paolo Migone
Via Palestro, 14
43100 Parma
Tel./Fax: 0521-960595
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