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Articoli tratti dalla Rivista

PSICODRAMMA ANALITICO


G. Gasca

L’ANALISI DUALE CONDOTTA SECONDO LA TEORIA E LA TECNICA DELLO PSICODRAMMA ANALITICO

in: Psicodramma Analitico, n. 7, gennaio 1998, Torino.

 

Ci proponiamo di mostrare in questo articolo come la formazione personale di un terapeuta realizzata attraverso lo psicodramma non gli sia utile solamente nel praticare questo o altre tecniche terapeutiche fondate sulla drammatizzazione, ma possa sia costituire una valida base per condurre una terapia duale con strumenti verbali, sia suggerire specifiche tecniche utilizzabili nel contesto duale stesso.

Secondo la nostra esperienza possiamo considerare tre diversi livelli che contribuiscono a tale risultato:

1. L’allievo psicodrammatista se da un lato, attraverso il gruppo di psicodramma, fa esperienza di un’incisiva analisi personale, d’altro lato sviluppa in esso strumenti teorici e pratici specificamente idonei alla comprensione di ogni dinamica relazionale sia interpersonale, sia tra parti interne proprie e altrui.

2. Lo psicodramma analitico ha permesso di sviluppare, a partire dall’esperienza nel gruppo di ruoli in interazione tra loro, un modello utile ad interpretare dinamiche di gruppi, anche non di psicodramma (terapeutici, istituzionali, familiari, gruppi interni al paziente). Ora tale modello si può rivelare particolarmente utile anche in un’analisi duale.

3. Sono state sperimentate diverse tecniche di drammatizzazione applicabili nell’analisi duale. Tra queste ottimi risultati ha dato quella che abbiamo denominato drammatizzazione immaginale.

In questa sede tratteremo brevemente il primo punto, e svilupperemo un po’ di più il secondo, mentre cercheremo di illustrare con ampie esemplificazioni il terzo, più specifico e innovativo.

 

La formazione alla terapia duale attraverso l’esperienza di psicodramma

Ci siamo resi conto dell’efficacia di tale esperienza quando ci trovammo a supervisionare psicologi allievi psicodrammatisti che, nei servizi di appartenenza, si erano trovati nella necessità di lavorare con colloqui terapeutici a singoli pazienti. Poiché i nostri allievi non avevano altra esperienza di analisi personale, ad eccezione di quella effettuata con lo psicodramma, fummo assai colpisti sia dall’acutezza e profondità di certe loro intuizioni, sia dall’appropriatezza ed incisività di interventi che, per così dire, sembrano essersi presentati alla loro mente spontaneamente.

Non vogliamo con questo mettere in questione la necessità che un terapeuta, per operare con una data tecnica, deve fare una specifica e prolungata esperienza, nella condizione di paziente, della tecnica stessa. Come nessuna analisi duale, per quanto approfondita, fornisce strumenti adeguati a destreggiarsi come conduttore e nemmeno come personaggio ausiliario (Io ausiliario nella terminologia moreniana) in un gruppo di psicodramma analitico, così vale il reciproco: solo attraverso esperienze di analisi duale e di gruppo condotte con mezzi verbali si matura un’adeguata capacità di condurre analisi dello stesso tipo.

Dobbiamo allora ipotizzare che esiste una metodologia di analisi duale che possiamo definire psicodrammatica, anche in assenza di psicodramma, nato dallo psicodramma analitico individuativo che dopotutto costituisce una sintesi di analisi e psicodramma.

D’altra parte non è neppur raro il constatare come analisti, già formati e praticanti, cambino stile traendo vantaggio da un’esperienza di psicodramma, grazie a nuovi insight personali, allo sviluppo di una maggiore sensibilità nel rapporto col paziente, nonché di un approccio interpretativo più concreto e flessibile.

L’analisi attraverso lo psicodramma porta, nell’uno e nell’altro caso, coloro che l’hanno effettuata ad una conoscenza particolarmente approfondita e dinamica delle loro parti (ruoli interni) e della dialettica tra essi; dell’origine di tali ruoli interni come dei ruoli esterni, attraverso l’aver agito e interiorizzato relazioni di similarità o complementarietà coi propri genitori o Altri Significativi della loro storia; degli effetti delle aspettative proiettate dai familiari sull’analizzando fino ad evidenziare dinamiche psicologiche trans e plurigenerazionali.

Il modello cognitivo-intuitivo così sviluppato si coniuga, nell’analista formato attraverso lo psicodramma, ad una spiccatissima sensibilità per ogni sfumatura della complessa dimensione relazionale, assai utile a cogliere nella molteplicità delle loro sfaccettature i problemi del paziente senza ridurli a schermi teorici precostituiti, ma comprendendoli attraverso una buona capacità d’immedesimazione.

L’ottica dello psicodramma infatti porta ad evitare discorsi astratti ed interpretazioni da manuale per privilegiare immagini concrete che mettono a fuoco i problemi del paziente attraverso episodi emblematici della sua vita attuale e passata, sì da portarlo ad interpretarli esso stesso grazie alla presentificazione di tali episodi che permette al tempo stesso di rivivere i sentimenti originariamente provati e di farli oggetto di coscienza riflessiva. Tale metodo costituisce tra l’altro un efficace antidoto contro l’eccesso di razionalizzazioni interpretative di cui spesso abusano i giovani (e talora anche non più giovani) analisti.

 

L’analisi come interazione di ruoli progetto.

E’ noto che la teoria dei ruoli dello psicodramma si serve, per visualizzare ogni dinamica di gruppo (psicodrammatica o meno), del modello di un triangolo, ciascun vertice del quale è unito agli altri due da una coppia di frecce diretto l’una in senso opposto all’altro (Gasca 1992).

Il vertice superiore rappresenta la struttura attuale del gruppo, intesa come il complesso di ruoli che ciascun membro assume e di quelli che attribuisce ad altri.

Il vertice inferiore destro rappresenta invece i ruoli che ciascun membro del gruppo ha in passato assunto o visto assumere da persone per lui significative, nei gruppi di cui ha fatto parte (il primo e più importante di questi è la famiglia di origine).

Il vertice inferiore sinistro, infine, rappresenta la costellazione di ruoli interni: questi corrispondono per certi aspetti alle funzioni (anima; ombra; persona e così via) e in altri casi ai complessi autonomi della psicologia junghiana, mentre per altro verso hanno molti punti in comune col concetto di gruppalità interna sviluppato dalla gruppoanalisi.

Le frecce a doppio senso che collegano i tre vertici illustrano il fatto che mentre i ruoli assunti o attribuiti qui e ora in gruppo sono attualizzazioni di modelli costituitisi in passato e al tempo stesso espressione e proiezione di propri ruoli interni, il gioco di ruoli nel gruppo presente evoca ricordi di episodi con struttura similare e attiva nell’inconscio dei membri del gruppo i ruoli interni in risonanza con la dinamica del gruppo stesso.

E infine tali ruoli interni hanno preso forma sulle immagini di Altri Significativi incontrati nel corso della propria storia, e insieme tali Altri hanno potuto venir compresi, attraverso un processo di assimilazione, proiettando su di essi l’uno o l’altro dei propri ruoli interni. Ora è possibile servirsi di un modello omologo a quello che abbiamo sopra descritto per rappresentare anche le dinamiche tranferali di un gruppo. In questa variante il vertice inferiore destro rappresenterà la componente delle dinamiche tranferali legate al manifestarsi nella situazione terapeutica della influenza della storia passata del paziente: l’assimilazione proiettiva dei terapeuti o di altri membri del gruppo a persone significative del proprio passato: tale modello di transfert corrisponde a quello prevalente nelle prime teorizzazioni freudiane.

Il vertice inferiore sinistro rappresenta invece l’assimilazione proiettiva dei terapeuti e degli altri membri del gruppo a parti o funzioni del paziente stesso, cui corrispondono da parti degli interessati controproiezioni complementari: tale modello di transfert e controtransfert corrisponde a quello prevalente nella tradizione junghiana (Jung 1946-Montefaschi 1985).

Il vertice superiore infine rappresenta il porsi in relazione tra loro dei membri del gruppo per ciò che ciascuno di loro realmente e attualmente è. Ciò corrisponde al tele definito da Moreno (1946-1953) come: quel processo con cui ciascun membro del gruppo valuta e stima intuitivamente che tipo di uomo sia l’altro che non nasce da fantasie inconscie nevrotiche o meno, ma da un complesso di sentimenti evocati dai reali attributi di una persona, nonché da ciò che essa effettivamente incarna e rappresenta.

Tale dimensione autentica del rapporto può, d’altro lato, venir considerata anche nell’ottica Binswangeriana (1955) dell’ essere-per-l’altro ed essere-con-l’altro o in quella di May (1962) dove l’elemento essenziale della psicoterapia è l’incontro a livello di persone reali del quale il transfert rappresenterebbe una distorsione. Schemi di dinamica di gruppo, proiezioni transferali e modi di essere attraverso la relazione con l’altro come evidenziati dalla pratica dello psicodramma.

I tre circuiti possono considerarsi sovrapposti come tre diversi aspetti di una stessa dinamica.

    Schema di dinamica di gruppo, proiezioni transferali e modi di essere attraverso la relazione con l'altro come evidenziati dalla pratica dello psicodramma. I tre circuiti possono considerarsi sovrapposti come tre diversi aspetti di una stessa dinamica.

 

Ma, è essenziale comprenderlo, nel modello teorico ed operativo dello psicodramma queste tre modalità non si danno l’una ad esclusione delle altre, né si alternano o competono tra loro, ma sono costantemente presenti in un rapporto dialettico ciascuna manifestandosi o prendendo forma attraverso l’altra. Così ad esempio noi conosciamo e comprendiamo gli altri attraverso le nostre parti interne similari e grazie a certe nostre esperienze passate che d’altra parte hanno assunto e assumono nell’orizzonte del mondo presente un certo senso, forma e struttura solo in quanto elementi di una costellazione di relazioni con altri.

Ora questo modello di relazione transferale, nato da un lavoro di gruppo, è perfettamente applicabile all’analisi di transfert e controtransfert in una situazione duale. In essa, in primo luogo, terapista e paziente si rapportano attraverso le loro caratteristiche personali e , ancor più, attraverso le aspettative che ciascuno ha sul processo analitico.

In secondo luogo ciascuno porta nella relazione analitica la sua costellazione in ruoli interni, e, in particolare, quelli che saranno attivati dall’interazione con la costellazione dell’altro. Infine ciascuno sarà, nell’assumere il ruolo di paziente o di terapeuta, (più o meno consciamente) influenzato dalla somma di ruoli assunti e visti assumere da altri negli incontri significativi della sua storia passata. E ciascuno di questi tre momenti rifletterà in se gli altri due e ne sarà riflesso.

Se nell’ottica psicodrammatica l’inconscio, come il sogno nel modello junghiano (Jung 1945-Hillman 1983) viene considerato come un dramma di ruoli interni che agiscono nello spazio interiore (spesso senza esser visibile al palcoscenico della coscienza), sì che ciascuno di essi e tutti nel loro insieme traggono il proprio senso da tale dramma interiore, anche la psicoterapia può venir riportata ad un’interazione di ruoli –progetto. Ormai nessuno crede più alla possibilità che un analista si pongo come neutrale nella relazione col paziente.

Il mitico analista in grigio, che, dando solo interpretazioni rigorosamente obiettive, non mostra nulla di sé, assume, lungi da ogni neutralità, un ruolo assai specifico: la bocca della verità, interprete esclusiva di una ideale ragione contrapposta all’irrazionalità ed alla patologia propria del ruolo del paziente. Inoltre non raramente, il silenzio analitico viene usato come strumento di potere e di manipolazione attraverso la disconferma, rinforzando la dipendenza del paziente dalle interpretazioni.

Guggembühl Craig ha mostrato (1970-1983) quanto certi atteggiamenti dell’analista possano patologizzare e infantilizzare il paziente, spingendolo a regredire anziché maturare. E’ allora meglio che fin dall’inizio analista e paziente siano entrambi ben consci di giocare ruoli complementari indotti sia dalla dottrina analitica di riferimento e dalle regole del setting, che dai tratti di personalità di entrambi e del progetto da essi fatto sull’analisi.

Applicando il sopra enunciato modello del triangolo, al vertice della situazione attuale (l’analista come colui che, obiettivamente, ma non sempre necessariamente, ne sa di più sull’animo umano ed ha maggiormente differenziato e maturato le istanze della proprie psiche ed ha inoltre caratteristiche proprie variabili da caso a caso – si pensi alla tipologia psicologica) si sovrapporrà il vertice delle situazioni passate (adulti da cui il paziente bambino dipendeva fisicamente e cognitivamente) e il vertice delle funzioni interne del paziente (terapeuta interno, Io ideale, Selbst proiettate sull’analista. Così a seconda dei casi l’analista si vedrà investito di un ruolo le cui connotazioni varieranno tra padre, madre, maestro, tecnico al servizio della scienza e della ragione, vecchio saggio, guaritore, oracolo, ma anche Trikster, o autorità da abbattere o divoratore di cervelli, mentre il paziente si sentirà nei ruoli complementari.

Ora, in una psicoterapia suggestiva lo psicoterapeuta può anche restare fisso in un ruolo, si da fornire un modello di identificazione al paziente o da rinforzare in lui il ruolo complementare. Ciò può mettere ordine nel caos dell’esperienza di questi e rassicurarlo con una rigida distinzione tra bene e male, convincendolo della solidità di certe convinzioni: certi pretesi analisti hanno addirittura teorizzato l’utilità per il paziente di constatare che la sua aggressività non distruggerebbe il terapeuta. Questa è proprio il contrario di una procedere analitico e in generale lo è quando il terapeuta, dall’alto del suo ruolo di genitore infallibile proponga, sotto l’apparenza di interpretazioni, suggestioni che sistematicamente riducano a modelli teorici precostituiti il mondo interno del paziente, il suo passato e il suo agire attuale in seduta e fuori. E tale suddivisione rigida dei ruoli è rinforzata quanto le interpretazioni spiegano ogni atto o giudizio attuale del paziente come prodotto di dinamiche patologiche o infantili, costringendo così il paziente nel ruolo complementare a quello assunto dall’analista.

In una terapia che sia invece realmente analitica l’analista deve essere cosciente e distinguersi dai ruoli che di volta in volta assume e, attraverso di essi, rendersi conto dei ruoli di volta in volta assunti dal paziente e/o proiettati da questi su di lui, così da non identificarsi in un unico ruolo, ma, passando dall’uno all’altro, poterli rimandare al paziente come possibilità che il paziente stesso ha in sè e può assumersi come proprie: padre o madre di se stesso, cioè funzione normativa mutuo-autonoma (e non più eteronoma) e funzione affettiva accogliente; funzione conoscitiva-analitica, funzione di Puer (spirito critico trasformativo e creativo) e così via, fino alla funzione che è precipuamente analitica: quella di Soggetto. Vale a dire la capacità di non fare tutt’uno con la vicenda, il qui ed ora, il ruolo assunto di volta in volta, ma di porsi riflessivamente rispetto ad esso per coglierne il senso in relazione al contesto attuale, alla propria storia personale, alla complessità del mondo interno ed ai possibili progetti futuri.

Tale funzione, che è quella che in particolare è sviluppata dallo psicodramma analitico individuativo e che il conduttore interpreta soprattutto nel doppiaggio, è essenziale nell’analisi del controtransfert e, attraverso di esso, del transfert, ma attraverso l’esperienza analitica deve essere progressivamente mostrato al paziente come farla propria.

Illustreremo quest’ultimo punto con un esempio: Furio inizia con un’analista formato allo (e dallo) psicodramma una terapia duale per dei disturbi fobici che hanno finito per compromettere gran parte la sua vita di relazione: non tollera i luoghi chiusi, le situazioni in cui, in compagnia di altra gente, non si sente padrone di andarsene quando vuole, ma anche, emerge in seguito, tutte quelle situazioni in cui non ha l’iniziativa e non può scegliere (controllare) le eventualità (quali ad esempio un esame). Tale fobia non si presenta quando è iperattivo, il che si traduce talora in comportamenti rischiosi ad esempio nel guidare l’automobile.

Fin dall’inizio le sue richieste all’analista oscillano, con stacchi netti, tra due modalità 1) richieste sui farmaci (che è stato chiarito in partenza non è compito dell’analista prescrivere) sulla diagnosi, su come controllare i sintomi, sulla probabilità e sui tempi della guarigione 2) esposizione di emozioni, immagini oniriche e esperienze significative, collegandole con i suoi ricchi interessi artistici, filosofici e letterari. Nella prima posizione il mondo del paziente coincide con la malattia, nella seconda questa sembra essere irrilevante e lo scopo dell’analisi da lui è definito “un viaggio di Ulisse nel mondo interiore”. L’analista si sente a sua volta posto in due ruoli diversi, complementari a quelli assunti dal paziente: nel primo, si sente oggettivato, usato come un computer; nel secondo diviene un compagno di viaggio in un’esperienza piacevole e interessante ma in cui si rischia di perdere di vista la meta.

D’altra parte la prima posizione è in sintonia con antiche valenze razionali-la scienza medica- dell’analista compenetrate da esigenze di controllo ossessivo; la seconda posizione con istanze creativo intuitive-la dimensione fluida, simbolica, ribelle ad ogni limite, ma a rischio di inflazione di certe correnti della psicologia analitica che indulgono troppo a sfumature mistiche. Le due istanze hanno trovato sintesi ed equilibrio nella sua attuale pratica professionale.

L’esplicitazione (un po’ come si esplicitano i vissuti dei personaggi ausiliari dopo un gioco di psicodramma) dei vissuti dell’analista rispetto a tali ruoli ed ai controruoli del paziente che li hanno indotti porta questi (ovviamente non siamo più alle primissime sedute ed il paziente ha già fatto qualche esperienza nell’analizzare il suo porsi nella relazione) a prender coscienza di due parti di sé o modi di essere che coll’escludersi reciprocamente condizionano la sua intera esistenza. 1) Una parte dominata dalla categoria della necessità che ricerca un assoluto controllo razionale degli eventi: in essa la progettualità del paziente, è come cristallizzata, costretta a rinchiudersi su se stessa senza vie d’uscita. 2) Una parte che, rifiutando la stessa possibilità di un limite (necessità o progettualità altrui),. si lascia andare in modo, più che libero, caotico ad ogni emozione ed intuizione. Ma ora il paziente, che, come l’analista, ha assunto la posizione di soggetto, può, non facendo tutt’uno né con il primo, né con il secondo nucleo di ruoli, comprendere la relazione tra loro: la debolezza intrinseca della seconda e da lui più amata posizione, l’esser fuori dalla realtà obiettiva, innesca, ogni volta che è possibile un confronto con questa, la paura di esser coartato da altri, di perdere la totale libertà di essere e con ciò attiva la prima posizione, l’esigenza di controllo: il sentire l’insorger di questa come Altro da se, una minaccia esterna alle proprie possibilità, fa sì che, paradossalmente il lottare contro l’esigenza di controllo la rafforzi e il solo pensarvi basti a scatenarla. E tale presa di coscienza apre la strada a vedere l’attuale problema del paziente come il perpetuarsi, rigido e cristallizzato, di ruoli reattivi a precedenti esperienze di confronto con modello materno (più dal lato del controllo) e paterno (più dal lato della libertà, ma spesso perdente in rapporto a criteri “oggettivi” di successo) in conflitto tra loro.

 

La tecnica di drammatizzazione di scena in analisi duale

L’assenza di un gruppo o di personaggi ausiliari (gli Io ausiliari di Moreno) non costituisce un impedimento assoluto ad usare, anche in un contesto duale, il gioco drammatico rivelatosi così efficace in psicodramma. Erano stati fatti inizialmente giochi di drammatizzazione in cui il paziente era invitato a cambiare di posto con l’analista, assumendone il ruolo nell’interpretarsi o nel rispondere alle sue stesse domande, o scene più complesse nelle quali i diversi ruoli, segnati da sedie vuote o cuscini, venivano successivamente assunti dal protagonista. Ma attualmente riteniamo che, salvo casi eccezionali, simili marchingegni non solo non siano necessari, ma complichino e appesantiscano inutilmente il lavoro.

E’ invece sufficiente, come nell’immaginazione attiva Junghiana (1936-1947) o nel rêve éveillé di Desoille (1938-1961) invitare il paziente a visualizzare dinnanzi a se un’immagine, immedesimandosi quindi in uno dei personaggi in essa presenti. In proposito abbiamo osservato che non occorre alcuna induzione ipnotica o suggestiva. I pazienti, alcuni chiudendo gli occhi, altri addirittura ad occhi aperti, riescono a costruire con la propria immaginazione la scena e ad immedesimarsi in essa.

La sola eccezione finora riscontrata sono alcune personalità borderline o psicopatiche con spiccata tendenza al passaggio all’atto, che sono incapaci a situarsi sul piano riflessivo-immaginale, in analisi come in psicodramma, essendo sempre dominati dall’agire finalizzato ad obiettivi concreti nel qui ed ora. Il terapeuta, stando accanto al paziente, sente da questo le descrizioni verbali di ciò che il paziente vede, pensa o prova nelle diverse parti e, come in una scena di psicodramma, può invitarlo a fare dei cambi di ruolo o doppiarlo.

La tecnica può essere ottimamente inserita in una seduta condotta verbalmente e, nella nostra esperienza, è meglio (per la tensione emotiva e/o la quantità di materiale nuovo che può produrre) consista nella visualizzazione di una sola scena, per non più di 10 minuti in una seduta di 50-60 minuti, il resto della quale sarà dedicata all’elaborazione delle nuove prospettive e connessioni emerse.

Rispetto all’immaginazione attiva o al rêve éveillé la scena visualizzata con questa tecnica si caratterizza per non essere in genere prodotta al momento dalla fantasia del paziente, ma per essere la ricostruzione del ricordo di un evento reale o di un sogno. Le eventuali scene non provenienti dall’esperienza passata del paziente sono soggette alle stesse rigide regole che abbiamo riscontrato . Ciò che rende specifica la nostra tecnica rispetto al réve éveillé o alla fantasia attiva è la funzione centrale che assume il cambio di ruolo, con l’effettiva, a volte imprevedibile, assunzione di nuovi punti di vista.

Ci spiegheremo con alcuni esempi:

Furio, di cui sopra abbiamo già parlato, ha messo a fuoco come le sue crisi fobiche insorgano quando si sente osservato da altri: ricercando esperienze simili nel passato, emerge un ricordo della prima infanzia: all’asilo è al gabinetto, svestito, la maestra lo aiuta. Entrano altri bambini e si sente preso in giro, è irritato perché la maestra non li manda via subito. Racconta la scena con distacco, gli sembra come non fosse successa a lui. Nella “drammatizzazione immaginale inizia nel ruolo di se stesso attuale che osserva un ricordo, ma,invitato a cambiarsi di ruolo con se stesso bambino, si trova di colpo immerso nell’atmosfera emotiva della scena di allora e ne rivive le sensazioni: è il bambino che sente che altri, irruenti, lo osservano, invadono la sua intimità. Il lavoro successivo su tali sensazioni evidenziò il collegamento con una parte vulnerabile, sentita come femminile, che subisce, contrapposta al ruolo abituale, iperattivo, razionale, ipercontrollato. E l’analogia di questa parte col padre, uomo assai sensibile, con cui Furio bambino si identificava, ma che viveva perdente rispetto ai giudizi razionali, svalutanti di una madre da cui lui stesso si sentiva invaso e minacciato. Nella scena immaginale venne effettuato anche il cambio con la maestra, che il paziente sentì vivere in un tempo diverso dal bambino, mandare via gli altri bambini con calma e compostezza e farlo tranquillamente rivestire: una parte adulta del protagonista, contrapposto al bambino angosciato, capace di saggezza ed autocontrollo.

In altri casi una scena virtuale aiuta ad evidenziare il vero significato delle paure di un paziente : Angelo, trentaduenne giovane e brillante, dirigente, era in analisi per la sua incapacità a sviluppare relazioni profonde e durature con persone di sesso femminile.

Un giorno confessò un suo imbarazzo: fumava di nascosto alla madre, ma temeva che l’analista, giudicando tale atteggiamento immaturo, lo obbligasse a palesare alla madre tale fatto. Venne invitato allora, per comprendere tale sua paura, a giocare in modo immaginale la scena futura in cui rivelava alla madre di fumare e, al momento critico, fu portato ad assumere il ruolo della madre: “Ma non importa, sciocchino” si sentiva dire nella parte di questa, con un sorriso indulgente. Ritornato nella propria parte riferì sentirsi ridotto “alto così”. Il gioco evidenziava cioè non la paura di un rimprovero, ma di una disconferma materna di fronte a quello che non era che un atto di ribellione abortito dal bambino piccolo dentro di lui. E, sotto la persona del dirigente sicuro di sè, razionale ed estroverso, il peso determinante che avevano in lui la madre interna dolce, e svalutante ed il bambino dipendente ed insicuro. Non era da meravigliarsi che il mostrare la sua parte affettiva più profonda in un rapporto con l’altro sesso gli fosse precluso.

La funzione delle scene immaginali nell’evidenziare e dar voce alle parti interne per farle dialogare tra loro è ancor più evidente nel terzo esempio. Tullia, giovane coscienziosissima impiegata, non aveva voluto rifiutare, pur potendo, la richiesta della ditta per cui lavorava, di ricoprire un delicato incarico in un’altra città, dove si sentiva oppressa dalle responsabilità lavorative e dalla solitudine.

Dopo qualche mese aveva però avuto crisi in cui urlava, si rotolava per terra e piangeva fino ad attirare l’attenzione dei vicini di casa. Tali crisi, inspiegabili a Tullia, il cui ideale era non chiedere mai nulla a nessuno ed essere autosufficiente, finirono per determinare il suo ritorno nella città di origine dopo un periodo di astensione dal lavoro per malattia. Ma le crisi continuavano, da ciò la sua richiesta di psicoterapia. Nelle prime sedute il terapeuta ipotizzò una Tullia 1 adulta, iperadattata ed una Tullia 2, in cui però la paziente non riusciva a riconoscersi, bambina che solo attraverso le crisi riusciva a farsi ascoltare.

Attraverso la drammatizzazione immaginale della prima crisi, Tullia 1, la parte presente in seduta, evocò e si immedesimò nel ruolo di Tullia 2, che in preda ad un panico irresistibile, urlava per attirare l’attenzione su di sé: l’analista doppiando Tullia 2 la portò a rivolgersi a Tullia 1: essa dice “Non ce la faccio più, voglio tornare a casa e lavorare meno”, ma pensa “Non c’è via d’uscita, la situazione è troppo grossa, ho bisogno che qualcuno si prenda cura di me”. L’analista propone il cambio di ruoli con Tullia 1: questa risponde “Non è possibile” e adduce ragioni concrete, che però evidenziano la sua rigidità, la stessa per cui non ha saputo far valere le ragioni di Tullia 2 in passato. L’analista allora, doppiando Tullia 2 minaccia di paralizzare Tullia 1 in modo da ottenere, attraverso la malattia, ciò che vuole (ciò che nella realtà Tullia 2 ha fatto nella circostanza che si sta rappresentando).

A questo punto la paziente, nel ruolo di Tullia 1 riesce a capire il punto di vista di Tullia 2, ma confessa di aver paura a chiedere qualcosa agli altri anche quando può ottenerlo, e si irrigidisce nel rifiuto. Comunque Tullia, in posizione di Soggetto, ha compreso la dinamica del conflitto tra le due parti di se, finalmente presenti insieme: in precedenza era come se il manifestarsi dell’una cancellasse l’altra.

Nel prosieguo della seduta rievoca come fin dalla più tenera età la madre, assai timorosa del giudizio altrui, la ossessionasse con “non bisogna lamentarsi, non si deve far vedere agli altri che si hanno dei problemi” mettendo le basi per tale rigidità: ricorda come si era isolata dai compagni delle elementari, cui tale comportamento appariva “superbo”.
Nelle sedute successive Tullia 1 dice di esser riuscita a fare qualche concessione a Tullia 2, mentre le crisi sono cessate, si sente però ansiosa e depressa.

A questo punto porta in seduta un incubo: è inseguita da un mostro verde simile ad una rana con la testa bavosa di una lumaca. Il sogno viene visualizzato e drammatizzato. Nella propria parte Tullia non sente il mostro come un pericolo fisico “vuol solo farmi star male”. Nella parte del mostro “inseguo Tullia perché voglio si ricordi di me, senta il rimorso per avermi trascurato: voglio che senta le cose che deve fare per altri” doppiato dall’analista “chi sono? come son fatto? dice “sono brutto perché sono viscido, uno che asseconda gli altri anche quando non ne ha voglia”. Il mostro è cioè una Tullia 3 che si sente indegna ed al tempo stesso estremamente bisognosa dell’affetto altrui e che si nasconde sotto la Tullia 1 e al tempo stesso la costringe ad un comportamento iperadattato.

Tullia nello spazio successivo della seduta dirà di odiare le persone viscide (in termini junghiani possiamo dire che il mostro era l’ombra di Tullia), ma ricorderà anche una serie di situazioni infantili in cui il suo bisogno di affetto e la insicurezza nel rapporto, l’avevano costretta ad assecondare eccessive pretese dei suoi genitori, nascondendo i suoi veri sentimenti. Tali scene furono il punto di svolta della terapia.

Non solo le crisi non si ripresentarono, ma nel giro di pochi mesi Tullia divenne capace di fare parecchie cose non più per gli altri, ma per se stessa, e di modificare sostanzialmente il suo rapporto coi datori di lavoro, colla madre e col fidanzato, tanto che la terapia si potè considerare conclusa con piena soddisfazione. Ma, più che il miglioramento dei sintomi e della qualità di vita, indice del successo della terapia è, secondo noi, l’acquisita capacità di Tullia di far dialogare tra loro le sue differenti parti e così di modificarle ed integrarle.

Una cosa che ancora adesso ci colpisce e sorprende, in certi cambi di ruolo fatti sia nella pratica dello psicodramma analitico propriamente detto, che, ancor di più, nella drammatizzazione immaginale è che il paziente riesca, cambiando angolo visuale, ad esprimere modi di vedere e sentimenti assai lontani dalla sua personalità cosciente e talora del tutto imprevedibili, a lui come all’analista, ma che si rivelano profondamente veri e chiarificatori.

 

Considerazioni conclusive

Dalla esperienza formativa, dalle formulazioni teoriche e dalle tecniche dello psicodramma analitico individuativo si è sviluppata una specifica tecnica di analisi duale.

In essa è comunque centrale l’applicazione all’analisi del transfert della teoria dei ruoli, la focalizzazione dei problemi attraverso immagini concrete, il dar voce, far dialogare tra loro ed integrare le parti interne del paziente.

La tecnica di drammatizzazione immaginale può essere usata eccezionalmente (come nel caso di Furio in cui venne applicata solo alcune volte, quando l’analisi era già andata molto avanti, con tecniche puramente verbali) o costituire (come nel caso di Tullia) la struttura portante dell’analisi stessa: è possibile una grande flessibilità. In ogni caso i suoi risultati sono, nella nostra esperienza, eccezionalmente rapidi e incisivi, anche se la completa acquisizione dei contenuti profondi che talora emergono può richiedere una successiva prolungata elaborazione con mezzi verbali.

L’ambito di applicazione sembra, sul piano terapeutico, poter essere tutta la fascia di disturbi nevrotici, mentre, almeno con le tecniche attualmente usate, abbiamo delle riserve sul suo uso nella cura della schizofrenia e soprattutto della personalità borderline per la difficoltà che hanno tali pazienti ad usare correttamente le funzioni immaginali.

Teoria e tecnica meritano a nostro parere di essere sviluppate ulteriormente.

 

Bibliografia

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  • Moreno J.L. (1953) Principi di sociometria, psicoterapia di gruppo e sociodramma, Etas Kompass, Milano, 1964.

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