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Rivista

Medicina Psicosomatica

Organo Ufficiale della Società Italiana di Medicina Psicosomatica



Rosso A., Robone C., Salviati M., Delle Chiaie R.

Relazione tra depressione ed infarto:
Evidenze cliniche ed ipotesi


Depression and myocardial infarction: evidence and hypothesis of a clinical connection

 

Pubblicato su: Medicina Psicosomatica, Vol.46, n.4, 2001
(Società Editrice Universo, Roma)



Introduzione
Sin dalla medicina in età classica è stato evidenziato il ruolo molto importante che le emozioni possiedono per la modulazione dell'attività dell'apparato cardiovascolare. Inoltre molti casi di morte sono stati spiegati in relazione alla loro connessione con eventi emozionalmente traumatici. In epoca recente la letteratura medica si è rivolta in modo specifico all'area di studio che indaga sui rapporti esistenti fra Depressione e Infarto del Miocardio. Gli studi condotti in merito hanno seguito diverse strategie, e puntato a obiettivi diversi, e potrebbero essere racchiusi in tre categorie: - studi che hanno messo in evidenza una relazione fra le due entità patologiche - studi che hanno indagato i possibili meccanismi fisiopatologici alla base di tale relazione - studi che ne hanno esplorato le prospettive terapeutiche. Scopo di questa rassegna è sato di valutare in modo analitico e sistematizzato i risultati di ricerche condotte in questo ambito.

Relazione tra infarto e depressione
L'evidenza di una relazione esistente fra Depressione e Infarto del Miocardio si basa su due componenti, supportate da diverse strategie di studio. La prima componente, è l'aumentato rischio di Infarto presente in pazienti depressi.

Alcuni autori hanno comparato la mortalità in pazienti depressi e nella popolazione generale, e dai loro risultati si evince un significativo aumento di morti per cause cardiovascolari nei soggetti depressi. Il primo di questi studi fu effettuato addirittura nel 1937 da Malzberg nello stato di New York (1). L'autore ha comparato il tasso di mortalità dei pazienti depressi nel sistema degli ospedali civili e quello della popolazione generale dello stato, trovando che fosse più elevato nei soggetti depressi, e che fosse dovuto principalmente a cause cardiovascolari e malattie infettive. I risultati non furono però considerati convincenti, e l'argomento non fu più riesaminato fino agli anni 70. Uno dei primi studi di questi anni fu effettuato in Danimarca dalla Week e i suoi collaboratori (2). Utilizzando i registri nazionali danesi la Week ha identificato tutti gli individui con diagnosi di depressione maggiore o disturbo maniaco depressivo e ne ha esaminato le cause di mortalità, dimostrando un aumento del 50% di morti per cause cardiovascolari fra questi pazienti rispetto alla popolazione generale danese. Per escludere la possibilità che l'associazione fra depressione e mortalità potesse essere confusa dal trattamento , la Week ha successivamente comparato il rischio relativo di mortalità nella popolazione dei soggetti depressi prima e dopo l'introduzione di una terapia farmacologica, giungendo alla conclusione che il rischio fosse addirittura minore durante il trattamento. Lo stesso metodo di studio è stato seguito negli anni successivi da altri ricercatori, conducendo a risultati simili (3,4,5,6,7,8).

Altri autori hanno invece effettuato degli studi di comunità, selezionando delle popolazioni inizialmente in apparente buona salute, di cui hanno valutato il livello di depressione allo stato basale, e seguito il follow-up per diversi anni. (vedi tabella) Nel 1993 Anda et al. hanno pubblicato il primo studio che ha messo in relazione la depressione con il duplice rischio di sviluppare un infarto del miocardio, e morire di infarto (9). Quindi apportando la novità della valutazione non solo della mortalità per IMA, ma anche della morbilità. 2.832 individui di 45 anni di età dopo essere stati sottoposti a visite mediche e test di laboratorio, e aver evidenziato l'assenza di patologie in atto, sono stati seguiti per 12 anni e 1/2 . Dopo avere controllato per altri fattori di rischio per malattie cardiovascolari, quali fumo, peso, pressione arteriosa, colesterolo, i soggetti che avevano mostrato valori più alti di depressione avevano una maggiore probabilità sia di sviluppare un infarto che di morirne. Particolare attenzione da parte dei ricercatori è stata diretta nei confronti del fumo quale possibile fattore confondente. E' nota infatti la relazione esistente fra fumo e depressione, in quanto la depressione maggiore aumenta la probabilità che un soggetto possa fumare, e che fallisca i suoi tentativi di smettere (10), e questo può sicuramente facilitare l'insorgenza di problemi cardiaci. Ma dopo avere separato il campione fra soggetti fumatori e non, l'influenza della depressione è rimasta inalterata. Negli anni immediatamente successivi altri lavori seguendo lo stesso metodo d'indagine hanno confermato l'associazione esistente fra depressione ed elevato rischio di IMA e mortali (11,12,13,14,15,16,17) . Un follow up di 13 anni effettuato a Baltimora pubblicato nel 1996 (17) si è rivelato particolarmente interessante anzitutto per essere stato il primo ad utilizzare i criteri diagnostici DSM-III di depressione maggiore, per avere effettuato un controllo fra depressione e altre patologie psichiatriche, e soprattutto per avere incluso la categoria di disforia nella stessa popolazione. Dei 1.151 individui inclusi nello studio, e in apparente buona salute allo stato basale, si è mostrato un rischio di infarto del miocardio 4 volte superiore nei soggetti con diagnosi di depressione maggiore, anche dopo controllo per fattori di rischio medici e altre patologie psichiatriche, mentre i soggetti con diagnosi di disforia , che non avevano mai presentato un episodio depressivo maggiore nel corso della vita, hanno mostrato di avere un rischio di infarto intermedio fra depressi e non depressi. Nel più recente di questi studi ad essere stato pubblicato (18) Penninx et al. hanno seguito per 4 anni una coorte di 2847 uomini e donne, di cui 450 con disturbi cardiaci al baseline e 2397 privi di disturbi. Dopo avere effettuato la diagnosi di depressione maggiore secondo i criteri del DSM III, e di Depressione Minore utilizzando la Center of Epidemiologic Studies- Depressing Scale, il rischio relativo di mortalità cardiaca fra pazienti inizialmente già affetti da problemi cardiovascolari si è mostrato significativamente superiore sia nei soggetti affetti da Depressione Maggiore (O.R. 3.0), che da Depressione Minore (O.R. 1,6) rispetto ai non depressi. E all'incirca gli stessi dati sono emersi fra i soggetti privi di disturbi cardiaci al baseline, con un rischio relativo di morte per cause cardiovascolari di 1,5 nel caso di Depressione Minore, e 3.9 nei pazienti con Depressione Maggiore.

La seconda componente, correla la depressione ad una maggiore morbidità e mortalità in pazienti con un precedente infarto. Questo dato è emerso da una serie di studi prospettici che ha indagato il follow up di pazienti post-infartuati, fra i quali sono stati individuati soggetti affetti da depressione, con la somministrazione di interviste strutturate, e se ne è confrontata l'evoluzione della patologia con quella dei non-depressi. (19,20,21,22,23,24,25) Il più importante di questi studi è quello condotto dalla Frasure-Smith e dai suoi collaboratori (21,22,23), in cui gli autori hanno ottenuto una valutazione psichiatrica strutturata (utilizzando la DIS) in 222 pazienti 5-15 giorni dopo un infarto del miocardio, e li hanno ricontattati 6, 12 e 18 mesi dopo la dimissione dall'ospedale. Gli autori hanno riscontrato a 6 mesi che la depressione è un significativo fattore predittivo di mortalità (P<.001) anche dopo controllo tramite analisi di multivarianza con altri fattori di rischio indipendenti, quali l'anamnesi di un precedente IMA e la disfunzione ventricolare sinistra , rappresentata dalla Killip class (P= .01). Anche ai 18 mesi l'analisi di regressione multipla logistica ha dato il risultato di una significativa correlazione fra depressione e mortalità, dopo avere controllato con anamnesi di IMA, Killip class, e PCV (frequenza di contrazioni ventricolari premature) (P= .003).

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Per quanto concerne la prevalenza di depressione maggiore in pazienti post-infartuati non c'è concordanza nei diversi studi, probabilmente a causa di alcune differenze metodologiche adottate dagli autori, quali la scelta di popolazioni dissimili , l'utilizzo di strumenti diagnostici diversi, un differente status dei pazienti durante l'ospedalizzazione, e l'inclusione di disturbi cardiologici non specifici (21,26,27). In alcuni casi le interviste diagnostiche sono state modificate, come nello studio di Frasure- Smith et al. (1993), in cui la DIS ( Diagnostic Interview Schedule) ha visto adattare il criterio di durata di depressione maggiore al solo periodo di ricovero, ed escludere i criteri di "richiesta di trattamento per sintomi depressivi "e "deterioramento delle attività quotidiane" considerando l'ospedalizzazione dei pazienti. Tenute presenti tali limitazioni, il range di prevalenza che emerge dalla letteratura va dal 15% al 30% entro i primi 18 mesi, con un ulteriore 20% di pazienti con sintomi depressivi, ma senza diagnosi di depressione maggiore (27). Di questi pazienti solo un 10% viene effettivamente riconosciuto e trattato come depresso (27), e le cause di questa sottovalutazione possono essere identificate nella tendenza dei medici ad interpretare i sintomi depressivi come reazione naturale e transitoria ad un evento minaccioso per la vita del paziente quale un IMA (26),e di credere i sintomi somatici tipici della depressione, come insonnia o astenia, dovuti alla condizione cardiaca (Freedland) , e nell'atipicità di presentazione (28). Honig et al. (28) hanno infatti identificato nell' "indifferenza" il "core symptom" più frequentemente riportato da questi pazienti, piuttosto che umore depresso, e hanno inoltre evidenziato una maggiore quota di ostilità in pazienti depressi con IM, rispetto a pazienti depressi senza compromissione cardiaca, espressa come aggressività, irritabilità, rabbia e risentimento.

Fisiopatologia
Un possibile meccanismo biologico alla base di tale associazione potrebbe essere l'iperattività dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene documentata nei soggetti depressi da numerosi studi: ci sono state evidenze, per esempio, di un'elevata concentrazione di CRF nel fluido cerebrospinale (30,31,32,33,34,35), di un indebolimento della risposta dell'ACTH alla somministrazione di CRF, della non-soppressione di secrezione di cortisolo nel test al desametazone, di ipercortisolemia, di un ingrandimento della ghiandola pituitaria e surrenale, di un aumento del numero di neuroni ipotalamici CRF nel tessuto cerebrale nei pazienti depressi rispetto ai controlli(36,37). I corticosteroidi somministrati a fini terapeutici, si sono dimostrati in grado di indurre ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia e ipertensione, e quindi una disregolazione nel loro metabolismo potrebbe effettivamente essere alla base dell'associazione infarto depressione anche se, a dire il vero, il principale meccanismo candidato, sembra essere una disregolazione del tono simpatico cardiaco. Molti pazienti affetti da Depressione Maggiore mostrano infatti una disregolazione del sistema adrenergico, dimostrata dai dati di un'elevazione della concentrazione plasmatica di Noradrenalina , e della concentrazione sia plasmatica che urinaria dei suoi metaboliti(38,39,40,41), che appare diminuire a seguito di trattamento con farmaci triciclici(41,42,43,44,45,46).L'iperattività del sistema simpatico può contribuire allo sviluppo di malattie cardiovascolari attraverso gli effetti delle catecolamine sul cuore, sui vasi e sulle piastrine.

Schema ipotetico delle alterazioni fisiopatologiche associate alla depressione che probabilmente contribuiscono all'aumentato rischio di malattie cardiovascolari. (tratto da Musselman et al.The Relationship of Depression to Cardiovascular Disease. Arch Gen Psychiatry.1998; 55:580-592)

Un'alterata attività del SNA è rappresentata anche dalla diminuzione della Variabilità della Frequenza Cardiaca, o HRV (Heart Rate Variability). La HRV è la deviazione standard degli intervalli fra due successive onde R in un ECG con ritmo sinusale, e riflette l'equilibrio fra le attività del sistema simpatico e parasimpatico sul pacemaker cardiaco. L'esistenza di una variabilità nella frequenza cardiaca è il riflesso delle risposte del sistema di controllo cardiovascolare, costituito dai sistemi simpatico, parasimpatico e renina- angiotensina, ad una serie di perturbazioni fisiologiche, come la respirazione, e una sua diminuzione è uno degli indici prognostici sfavorevoli nelle malattie cardiovascolari. Si pensa che una riduzione della HRV sia da attribuire ad una diminuzione del tono parasimpatico, e quindi potrebbe essere un fattore predisponente l'insorgenza di aritmie ventricolari. Stein et al. hanno riportato una significativa diminuzione della HRV in pazienti con sindrome coronarica e diagnosi di depressione maggiore rispetto a pazienti non-depressi o solo lievemente depressi (47,48), imputandone la causa ad una disregolazione del SNA a favore del sistema adrenergico, già documentata nel disturbo depressivo maggiore. Se la depressione aumenta il rischio di mortalità dopo un IM disturbando la regolazione del tono autonomo cardiaco, c'è da aspettarsi che conferisca un rischio particolarmente elevato a pazienti che sono già affetti da aritmie ventricolari significative, o che abbiano una funzione ventricolare già compromessa (49) Frasure- Smith e colleghi hanno identificato nelle contrazioni ventricolari premature ,PVC (premature ventriculary contractions) una relazione fra depressione e mortalità dopo IM. Il rischio di morte cardiaca improvvisa associata a sintomi depressivi è risultato essere maggiore fra i pazienti con 10 o più PVC l'ora, il che non significa che soggetti depressi abbiano più probabilità di sviluppare aritmie, ma che l'impatto della depressione sia più alto in presenza di PVC. Pazienti non depressi hanno infatti evidenziato solo un piccolo aumento del rischio collegato alle PCV. In precedenti lavori la presenza di PVC è stata correlata ad una peggiore prognosi dopo IM, ma ciononostante il trattamento delle aritmie non ha ridotto la mortalità(50). Da questo si pensa che il trattamento della depressione potrebbe essere necessario per migliorare la sopravvivenza di pazienti con PCV.

L'effetto della depressione sull'infarto potrebbe anche essere mediato da un altro meccanismo, quello delle piastrine. Attraverso la loro interazione con le componenti sub-endoteliali dei vasi danneggiati e con i fattori plasmatici di coagulazione, le piastrine svolgono un ruolo centrale nell' emostasi, trombosi, sviluppo di aterosclerosi e sindromi coronariche acute (51). Per primi Markovitz e Matthews hanno proposto che l'elevata risposta delle piastrine a stress psicologici avrebbe potuto favorire manifestazioni coronariche (52). E l'associazione tra attività delle piastrine e depressione è indirettamente supportata da una serie di studi che mettono in relazione depressione e malattie cerebrovascolari, dimostrando una maggiore incidenza di ictus fra pazienti depressi rispetto ai non depressi (53), e una più elevata mortalità (54). Le piastrine umane contengono recettori adrenergici, serotoninergici e dopaminergici. Un aumento dei livelli di catecolamine circolanti potenzia gli effetti di altri agonisti, e può stimolare risposte di secrezione, aggregazione piastrinica e attivazione dell'acido arachidonico, nonché modificazioni emodinamiche ( un aumentato "shear stress") e variazioni dell'assetto lipidico ematico (55). In uno studio di Musselman et al. del 1996 (55), 12 pazienti depressi, in paragone con una popolazione di controllo di 8 soggetti normali, hanno mostrato un aumento dell'attivazione e della responsività delle piastrine. Analoghi risultati sono stati ottenuti da Langhrissi-Tode et al. nel' 97 (56), che analizzando 21 pazienti con comorbidità depressione- malattia cardiovascolare hanno evidenziato un'aumentata attivazione delle piastrine, dimostrata dall'elevato aumento di concentrazione plasmatica dei loro prodotti di secrezione fattore IV e §- tromboglobulina, rispetto a soggetti sani e pazienti cardiopatici non depressi. In un recente lavoro condotto su pazienti con diagnosi di depression maggiore (57., in corso di stampa) è stato osservato che i livelli plasmatici di §-tromboglobulina e fattore IV persistono a livelli significativamente più elevati rispetto alla norma anche dopo l'avvenuta remissione clinica dell'episodio depressivo. Si è rilevato tuttavia che l'attivazione piastrinica si correlava alla persistenza di una sintomatologia depressiva residua a livello sub-clinico. Inoltre sono state documentate alterazioni dell'attivazione delle piastrine mediata da serotonina nei disturbi affettivi. La serotonina secreta dalle piastrine potenzia la vasocostrizione coronarica nonché l'aggregazione piastrinica e il rilascio di mediatori mediante interazione con recettori 5HT2 presenti sulla membrana dei trombociti. Un aumento di densità di tali recettori è stato documentato in pazienti depressi (58,59,60,61), mentre altri studi hanno trovato una significativa riduzione del trasportatore di mebrana della serotonina (62), e questo suggerisce che i pazienti depressi possano essere particolarmente suscettibili all'attivazione piastrinica serotonino-mediata e alla vasocostrizione coronarica. La diminuzione dei trasportatori di membrana impedirebbe l'uptake e l'immagazzinamento di serotonina, e questo porterebbe all'esposizione di un maggior numero di recettori (28). Inolre le piastrine dei pazienti depressi mostrano un' elevazione della concentrazione di calcio libero intracellulare a seguito di stimolazione serotoninergica (63,64,65), e questo le renderebbe più suscettibili all'attivazione.

Anche dei fattori comportamentali correlati alla depressione possono influire negativamente sull'evoluzione di un IM, come suggeriscono degli studi che associano la depressione ad una scarsa aderenza ai regimi terapeutici prescritti a seguito di un IMA (66,67,68). Il più recente è stato condotto da Ziegelstein et al. nel 2000 (68): gli autori hanno determinato la presenza di depressione maggiore o distimia, tramite somministrazione della SCID, nei 3-5 giorni successivi un infarto del miocardio, e a distanza di 4 mesi la compliance dei pazienti è stata valutata mediante somministrazione della Medical Outcome Study Specific Adherence Scale. I pazienti in cui era stata riscontrata la presenza di depressione lieve- moderata (punteggio BDI > 10) o di depressione maggiore o di distimia hanno riportato una scarsa aderenza alle raccomandazioni di seguire una dieta priva di grassi, di svolgere un'attività fisica regolare, di ridurre lo stress e incrementare i supporti sociali. I pazienti con diagnosi di depressione maggiore o distimia hanno inoltre riportato una minore aderenza alla terapia farmacologica rispetto agli altri. Ed è stata anche discussa l'ipotesi che la depressione potesse incrementare indirettamente il rischio di mortalità per la sua associazione con altri fattori di rischio, quali il fumo o l'ipertensione arteriosa (69), ma come già accennato gli studi più recenti hanno evidenziato l'indipendenza dell'associazione depressione- mortalità da questi fattori.

Trattamento
La maggior parte degli studi sul trattamento di pazienti con comorbidità depressione- malattie cardiovascolari si è concentrata sulla sicurezza più che sull'efficacia (49). Gli IMAO risultano in genere privi di effetti sulla conduzione cardiaca, ma per la loro proprietà di indurre ipotensione ortostatica, e per le possibili crisi ipertensive associate ad un uso non attento, non risultano essere i farmaci di prima scelta in questi pazienti.. Il CAST (Cardiac Arrythmia Suppression Trial) (50) ha dimostrato un aumento di mortalità in pazienti trattati con agenti anti-aritmici comparati a pazienti trattati con placebo, e considerando che i farmaci triciclici hanno azione antiaritmica tipo 1A, questa classe di farmaci potrebbe non essere sicura per pazienti con tessuto cardiaco ischemico. Inoltre è stato riportato che i triciclici aumentino la frequenza cardiaca, inducano ipotensione ortostatica, e diminuiscano la conduzione ventricolare (71,71). In particolare uno studio caso-controllo del 2001(72) ha messo in evidenza un rischio di sviluppare un infarto del miocardio fino a 2 volte superiore in pazienti depressi che erano stati trattati con dotiepina rispetto ai controlli, dopo avere corretto i dati per possibili fattori confondentii quali diabete, ipertensione, fumo, BMI e impiego di SSRI. Gli SSRI non hanno invece manifestato azioni nocive sul miocardio (73,74,75).In uno studio comparativo del 1998 svolto da Roose e collaboratori (73), paroxetina (un SSRI) e nortriptilina (un TCA) si sono mostrate ugualmente efficaci nel trattamento della depressione in pazienti infartuati, ma il farmaco triciclico è stato associato ad un aumento della frequenza cardiaca, e di eventi cardiaci avversi . Nonostante siano dotati di una cardiotossicità inferiore rispetto ad altre categorie di antidepressivi, gli SSRI possono essere a rischio di interazione con alcuni farmaci impiegati nel trattamento di pazienti cardiopatici, quali §-bloccanti, warfarin, e antiaritmici di classe 1C, a causa della loro attività inibitoria sul citocromo P450. Ci sono però delle differenze fra i vari SSRI in merito allo specifico enzima del cit P450 inibito, e alla forza di inibizione, quindi il rischio di effetti avversi può essere evitato con la scelta di un SSRI che non interagisca con la terapia del paziente (49). Quindi, pur tenendo conto della possibilità di interazione con altri farmaci, gli SSRI sono da considerarsi gli antidepressivi di prima scelta in pazienti con malattie cardiovascolari, per la loro sicurezza. I dati in merito all'efficacia degli SSRI nel trattamento di pazienti con depressione- infarto sono ancora scarsi. Molto recente è uno studio di McFarlane et al. (76) che ha dimostrato un miglioramento della HRV in pazienti post-infartuati trattati con sertralina.38 pazienti con diagnosi di depressione posta tramite Inventory to Diagnose Depression sono stati randomizzati per trattamento con 50 mg/die di sertralina o placebo per 6 mesi, e ne è stata misurata la HRV 1-2 settimana dopo IMA, e poi a 6, 10, 14, 18 e 22 settimane. La stessa misurazione è stata effettuata in un campione di controllo di 11 pazienti risultati privi di sintomi depressivi al baseline. Da questo studio è emerso un miglioramento lineare della HRV nei pazienti trattati con sertralina, similmente ai soggetti non depressi, a discapito di un modesto, seppur significativo, declino della stessa nei pazienti trattati con placebo. Nel 1999 ha avuto inizio il SADHAT (Sertraline Depression Heart Attack Trial) (74) , uno studio canadese che si è proposto di valutare la sicurezza della sertralina in pazienti depressi dopo un IM, e la sua efficacia sulla prognosi cardiaca. Al momento sono disponibili solo dati preliminari dello studio, su una popolazione di 26 pazienti a cui è stata posta diagnosi di depressione maggiore 5-30 giorni dopo il ricovero per un IMA, e che hanno ricevuto trattamento con sertralina per 16 settimane, con dose iniziale di 50 mg/die, fino ad un massimo di 200 mg/die dopo 8 settimane. Durante il trattamento non sono apparsi significativi cambiamenti nella frequenza cardiaca, nella pressione arteriosa, nella conduzione cardiaca, nella frazione d'eiezione, e c'è stata una tendenza alla riduzione dell'attività ventricolare ectopica, ma non significativa, il che non supporta un effetto antiaritmico della sertralina. Non sono emersi cambiamenti significativi nel tempo di coagulazione, nonostante ci sia stata una tendenza all'aumento. Per quanto concerne l'efficacia sulla depressione, invece, è stato messo in evidenza un significativo miglioramento , con 62,5 % dei pazienti considerati responders al termine dello studio, soprattutto fra la prima e la quarta settimana di trattamento. Lo studio supporterebbe quindi l'efficacia della sertralina come antidepressivo, non evidenziando effetti collaterali rilevanti, ma l'assenza di un gruppo di controllo suggerisce cautela nell'analizzare questi dati. La brevità dello studio, inoltre, non ha permesso di valutare l'efficacia sulla morbidità a lungo termine, né sulla sopravvivenza, dati per i quali bisognerà attendere ancora. Un solo studio a doppio cieco è stato condotto finora, valutando l'efficacia e la sicurezza della fluoxetina nel trattamento di questi pazienti rispetto al placebo (Strick et al. 2000), e i risultati sono simili a quelli ottenuti dal SADHAT. Anche in questo studio si è trattato di una popolazione piuttosto piccola, (54 pazienti), randomizzata per la somministrazione di fluoxetina o placebo (studio in doppio-cieco), e seguiti per 25 settimane. Al termine, non sono apparse diminuzioni della funzione cardiaca fra i pazienti che avevano assunto fluoxetina, e seppure la differenza fra placebo è fluoxetina non sia risultata significativa , si è dimostrata una tendenza a favore dell' SSRI. Il miglioramento della depressione, valutato tramite HAMD, è stato significativo fra i pazienti affetti da depressione di grado lieve (punteggio HAMD-17 < o = 21). Inoltre i punteggi di ostilità, valutati con la HSCL-90, sono risultati significativamente ridotti in associazione al trattamento con fluoxetina. Anche questo studio, quindi, supporta la sicurezza e l'efficacia degli SSRI nel trattamento di questi pazienti, non fornendo però dati relativi agli effetti sulla prognosi cardiaca. A questo proposito, oltre al SADHAT sono in corso altri due studi che stanno esaminando se il trattamento antidepressivo possa migliorare la prognosi di pazienti inafrtuati: si tratta del MIND-IT (The Myocardial Infarction and Depession- Intervention Trial) (77), che sta valutando l'efficacia della mirtazapina, e l'ENRICHD (Enhancing Recovery in Coronary Heart Disease) (78), che sta valutando l'efficacia della terapia cognitiva. Uno studio del 2000, condotto da Carney et al.(78) aveva già dimostrato un miglioramento della frequenza cardiaca e della HRV in pazienti depressi sottoposti a 16 sedute di terapia cognitivo- comportamentale, aprendo la strada ad ulteriori studi su possibile effetto benefico della psicoterapia, quali l'ENRICHD.

Conclusioni
Dall'analisi della letteratura emerge quindi una chiara correlazione fra patologia cardiaca e depressione, che conferisce un certo adito di scientificità alla convinzione esistente fin da epoche remote che la sfera affettiva abbia un ruolo nel determinare l'insorgenza di eventi cardiovascolari infausti. Si può parlare di depressione sia come possibile fattore prognostico negativo nell'evoluzione della patologia ischemica, che come fattore di rischio assimilabile, secondo alcuni dati, a quelli già da tempo riconosciuti. Al momento attuale è anche possibile spiegare il ruolo svolto dalla depressione attraverso alcuni meccanismi fisiopatologici che influiscono negativamente sulla funzionalità cardiovascolare, quali le alterazioni riscontrate in soggetti depressi a livello dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene, del sistema nervoso autonomo e delle piastrine. Rimane ancora aperta l'ipotesi che un intervento terapeutico per la depressione possa avere un effetto positivo sulla prognosi della malattia cardiovascolare. E' comunque auspicabile che i sintomi depressivi vengano riconosciuti in questi pazienti, e nel caso in cui si decida di intraprendere un trattamento i farmaci SSRI sembrano essere i più vantaggiosi sul piano del costo-beneficio.


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