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I.S.A.P. - Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi
Modelli di retroazione tra filosofia e scienze cognitive

Antonio Lucci


INDICE

  1. Introduzione

  2. Un esempio di critica continentale al paradigma delle scienze cognitive classiche: Bernard Stiegler sulla macchina di Turing

  3. Il mutamento di paradigma epistemico nelle scienze cognitive “di seconda generazione”: gli esempi di George Lakoff e Michael Tomasello

    1. Dal concetto lakoviano di metafora a quello di frame

    2. Le origini culturali della cognizione umana in Tomasello

  4. Conclusioni: per una nuova antropologia filosofica

KEYWORDS: Scienze cognitive, Cognizione, Cultura, Couplage, Frame, Retroazione

PRESENTAZIONE: Questo intervento è un percorso espositivo che ha per cardine il rapporto tra le scienze cognitive di “seconda generazione” e alcune speculazioni recenti della filosofia continentale, esemplificate dalla posizione di Bernard Stiegler. Dopo una breve introduzione in cui si presenterà un esempio di critica “classica” al modello delle scienze cognitive “di prima generazione”, verrà esposta la congiuntura presente tra le analisi di Stiegler (dal lato della filosofia contemporanea) e quelle di Gorge Lakoff e Michel Tomasello (dal lato delle analisi cognitiviste di “seconda generazione”). Questa congiuntura verrà ritrovata nel concetto di couplage, quale concetto-chiave atto a esprimere la relazione di accoppiamento originario (e di retroazione) tra uomo, cultura e ambiente.

  1. Introduzione

Non parlerò in questa sede di qualcosa che è noto: di esperimenti sulla cognizione, di misurazioni rilevanti, di deduzioni empiriche. Cercherò piuttosto, attraverso gli strumenti tecnici che mi sono propri, vale a dire quelli dell’indagine teoretica, di dire qualcosa sul paradigma epistemologico di cui le “scienze cognitive di seconda generazione” sono espressione, soprattutto attraverso dei riferimenti alla filosofia continentale. Gli autori di cui tratterò principalmente saranno Bernard Stiegler, George Lakoff e Micheal Tomasello. Di questi ultimi due farò, e me ne scuso fin da ora con chi tra i presenti conosce questi autori meglio di me, un uso “strumentale”, mirato all’esplicitazione della “tendenza” teoretica sottesa alle loro indagini.

Il punto di partenza è una tesi apparentemente semplice: autori come quelli citati rappresentano l’avanguardia di una tendenza di pensiero audace, innovativa, che merita di essere esplicitata nella piena portata delle sue conseguenze teoretiche. La tendenza di cui sto parlando, rappresentata ad esempio da alcuni tratti epistemologici propri del secondo cognitivismo, è la messa in crisi di un modello ontologico classico, quello monovalente, di ascendenza parmenidea, che ha influenzato tutta la storia del pensiero occidentale, compresa l’evoluzione delle scienze empiriche.

Cercherò, nel corso del mio intervento, di tracciare meglio i caratteri di questa monovalenza, di esporre i motivi della sua insufficienza, di argomentare i punti dove gli autori di cui tratterò si fanno portavoce di una proposta innovativa.

  1. Un esempio di critica continentale al paradigma delle scienze cognitive classiche: Bernard Stiegler sulla macchina di Turing

Innanzitutto riprendiamo una divisione classica (“di scuola” e metodologica come tutte le divisioni di questo genere), quella tra scienze cognitive “classiche” e scienze cognitive “di seconda generazione. Se dovessi riassumerla individuerei i caratteri generalissimi del “primo cognitivismo” nell’ascendenza chomskyana/fodoriana, nell’insistenza sulla modularità della cognizione, nel tentativo di ricondurre il proprium dell’essere umano a delle caratteristiche fisiologiche ereditarie che strutturano gli a priori della conoscenza, della percezione, del linguaggio.

Il “secondo cognitivismo”, ci manteniamo sempre al livello di una macrodivisione, rispetto al primo fa proprio il rapporto del soggetto con l’ambiente attraverso l’introduzione del paradigma dell’embodiment, che potremmo definire, in una concezione allargata, sia l’incorporazione del soggetto nel suo Umwelt, sia la considerazione organica del soggetto come razionale ed emozionale, inscindibilmente.

Data questa macrodistinzione, per la cui grossolanità mi scuso, è interessante porre in evidenza un paradigma critico avanzato da un esponente della filosofia cosiddetta “continentale”, Bernard Stiegler, al modello alla base delle scienze cognitive di “prima generazione”. La scelta di un autore come Bernard Stiegler non è casuale. Infatti riteniamo che se la scelta fosse ricaduta su un pensatore di formazione analitica, o comunque addentro alle dispute che da sempre hanno animato il dibattito filosofico sulle scienze cognitive a partire da Chomsky, avremmo corso il rischio di trovarci a commentare i motivi di un’adesione entusiastica al paradigma esposto, o una critica interna alle suddivisioni di scuola tra cognitivisti (di cui quella proposta tra “prima” e “seconda” generazione è solo uno degli esempi). Stiegler invece rappresenta bene quella fascia di pensatori che, pur analizzando criticamente l’impostazione delle scienze cognitive, non le rifiutano ab origine, ma ne cercano al contrario una contestualizzazione nella storia del pensiero e delle scienze, ponendole in relazione al mondo socio-politico ed economico in cui esse hanno visto la luce.

Stiegler, allievo diretto di Jacques Derrida, al momento è uno dei personaggi di spicco della cultura francese. Direttore del Centre George Pompidou, dell’IRCAM (Institut de Recherche et Coordination Acoustique/Musique) e dell’IRI (Institut de Recherche et d’Innovation), ha coniugato il suo lavoro sull’audiovisivo portato avanti nel mondo delle istituzioni con una vastissima produzione filosofica, per lo più sconosciuta al pubblico italiano.

La tesi chiave di Stiegler è riassumibile nell’espressione terziarizzazione della memoria (o epifilogenesi). Con questa definizione Stiegler designa la facoltà unicamente umana di esteriorizzare in un impianto tecnico-culturale la propria memoria, creando così un terzo polo di aggregazione delle ritenzioni mnemoniche, oltre la memoria biologica e quella individuale. Con “tecnico” Stiegler, ovviamente, designa tutto l’ambito di ciò che è prodotto dall’uomo, a livello individuale e culturale, e che lascia una traccia (concetto evidentemente e dichiaratamente mutuato da Jacques Derrida).

Nel contesto delle analisi sulla terziarizzazione della memoria portate avanti nella sua monumentale pentalogia La technique et le temps (di cui gli ultimi due volumi sono ancora inediti), in particolare nel secondo volume, dal titolo La désorientation1, Stiegler avanza un’interessante critica al modello fondativo delle scienze cognitive di prima generazione:

Le modèle initial “orthodoxe” des sciences de la cognition pose que raisonner n’est rien d’autre que calculer, c’est-à-dire “appliquer une suite d’opérations élémentaires choisies dans un certain répertoire fini”. C’est par référence au test de Turing et au concept de machine universelle que le phénomene appelé cognition désigne a priori aussi bien des fonctionnements technologiques que des comportements animaux ou humains. […] Compte tenu de la nature technique de leur modèle fédérateur, il est étrange que les sciences cognitives n’intègrent pas dans leurs modélisations l’événement tecnhique comme extériorisation de la mémoire, comme poursuite de la vie par d’autres moyens que la vie, c’est-à-dire le caractère essentiellement épiphylogénetique de la connaissance. […] Le modèle cognitiviste oublie le rôle originaire de la prothèse dans la pensée: ce qui n’est pas pensée est le couplage du qui et du quoi en tant qu’il est plus vieux que le qui et le quoi en tant que tels.2

Le scienze cognitive di prima generazione, secondo Stiegler, ponendo come modello di riferimento standard per una teoria della conoscenza la macchina (e in particolare la macchina di Turing), non fanno riferimento, paradossalmente, a quello che è il nucleo essenziale della macchina: quello di essere una mechané, uno strumento per compiere qualcosa nel senso di un accrescimento, di un potenziamento (è questo il senso della radice sanscrita mah- che è alla base del termine). L’accrescimento di cui è qui in questione è quello della memoria umana, da intendersi in senso ampliato, vale a dire come la struttura di immagazzinamento delle informazioni accumulatesi nel corso della storia ed esteriorizzate in supporti artificiali atti a tramandarle (evitando così che si debba cominciare ogni volta, immer weider, da capo nel cammino della conoscenza). La macchina, secondo Stiegler, può essere un modello della conoscenza solo a patto che la si pensi in quest’ottica: quella del couplage, dell’accoppiamento originario con l’umano, senza di cui non può essere presa in considerazione, pena un’astrazione che ne inficia radicalmente la possibilità di considerazione quale modello conoscitivo.

È per questo che il modello classico delle scienze cognitive, secondo Stiegler, è ancora metafisico: perché pensa ancora attraverso una modellizzazione univoca, rispetto a cui gli esempi concreti devono essere considerati come elementi che devono adeguarsi a un parametro, a un paradigma.

Riassumendo: è quel couplage originario tra uomo e macchina, tra memoria genetica, esperienziale e materiale, l’impensato delle scienze cognitive classiche.

Nel linguaggio stiegleriano, la protesi.

Questi due concetti, couplage e protesi, rappresentano la vera sfida del pensiero contemporaneo a un impianto filosofico-scientifico che da circa due millenni domina il mondo occidentale:

il pensiero ontologico monovalente e la logica bivalente3 a cui è collegato,a cui accennavamo all’inizio.

Personalmente, e in questo mi pongo sulla scia di eminenti pensatori della contemporaneità, ritengo che la critica al monismo ontologico parmenideo (“l’essere è”) e alla sua conseguente logica dualistica (vero/falso; soggetto/oggetto) sia la grande sfida della logica alla modernità.

Questa sfida, i cui caratteri posso qui solo accennare, rappresenta il tentativo concreto, come accennavo, intrapreso da filosofi come Peter Sloterdijk, Gotthard Günther, Bruno Latour, Bernard Stiegler di pensare oltre le ripartizioni ontologiche classiche quali soggetto/oggetto, vero/falso, uomo/macchina.

Di pensare oltre quella che in un linguaggio filosofico di stampo heideggeriano viene chiamata “differenza ontologica”.

Heidegger, come è noto, distingue tramite delle cesure ontologiche l’ente inanimato, l’animale e l’uomo. Così come, irriducibilmente, Essere ed ente. In questa maniera tende a esplicitare un movimento che nella storia del pensiero occidentale è sempre stato presente, quello della divisione della realtà in regni ontologici diversi, da analizzare con strumenti epistemologici irriducibili gli uni agli altri, qualitativamente e quantitativamente differenti.

Pensare una riforma logica di queste categorie è, a mio parere, il compito della filosofia nella modernità: citando Peter Sloterdijk «Il pensiero moderno non sarà capace di nessuna etica fino a quando non chiarirà la sua logica e la sua ontologia»4.

Il motivo per cui parlo in questa sede di questa problematica è che proprio autori che in qualche maniera hanno dato origine al background culturale da cui anche le scienze della cognizione partono, penso al meno noto Gotthard Günther, appartenente alla cibernetica “di seconda generazione”, ma anche e soprattutto a Humberto Maturana e Francisco Varela, si sono sforzati, e tutt’ora si sforzano ancor più dei filosofi “di professione” di pensare al di là delle ripartizioni logiche e ontologiche classiche.

La mia tesi è che anche i contributi di Lakoff e Tomasello rappresentino, in questo senso, un grande contributo: ritengo infatti che in alcuni luoghi rilevanti della produzione teorica di questi due autori sia possibile intravedere il contributo delle scienze cognitive di seconda generazione all’elaborazione di un lessico della modernità che si è fatto carico del compito di pensare oltre quelle ripartizioni epistemologiche classiche che ho appena delineato.

  1. Il mutamento di paradigma epistemico nelle scienze cognitive “di seconda generazione”: gli esempi di George Lakoff e Michael Tomasello

Dunque, è nella direzione di un pensiero che cerchi di rendere conto di concetti come quelli di couplage e protesi utilizzati da Stiegler nel 1996 per criticare il modello standard delle scienze cognitive classiche che ci sembra siano riconducibili, in una certa misura, le analisi che gli studiosi appartenenti alla seconda ondata di studi sulla cognizione hanno portato avanti in parte respingendo, in parte modificando, le tesi di ascendenza chomskyana.

Ci soffermeremo qui di seguito su alcuni modelli teorici proposti da George Lakoff e da Michael Tomasello, particolarmente interessanti al fine di rilevare la “congiuntura” tra pensiero non-dualista ch stiamo elevando a paradigma da criticare e la nuova direzione presa dalle indagini sulla cognizione nel cosiddetto “secondo cognitivismo”.

    1. Dal concetto lakoviano di metafora a quello di frame

Mi soffermerò innanzitutto sul concetto di metafora in George Lakoff quale viene esposto nel testo, scritto con Mark Johnson, Metafora e vita quotidiana5. Ovviamente, essendo un testo di più di 30 anni fa, le analisi qui esposte non rappresentano che le basi della concezione della metafora di Lakoff, che si è andata notevolmente approfondendo e precisando nel corso degli anni.

Malgrado ciò ritengo che partire da questo testo sia ancora fondamentale, e forse soprattutto per la sua “inattualità”. Infatti ciò che mi interessa porre in evidenza è il paradigma che viene assunto come base da Lakoff e Johnson nel loro scritto, e che ritengo non sia stato soggetto a cambiamento nel corso degli anni che ci separano dalla pubblicazione di quest’opera.

Il paradigma a cui faccio riferimento è quello, ormai noto, dell’embodiment.

Ricostruendo dalla fine l’argomentazione lakoviana è possibile evidenziare innanzitutto due referenti critici: l’oggettivismo e il soggettivismo.

Queste due macrotendenze storico-filosofiche rappresentano i punti da cui gli autori vogliono prendere le distanze. Le critiche, per quanto semplici, sono radicali: il paradigma oggettivista postula l’esistenza di “cose in sé”, gli oggetti, rispetto a cui la conoscenza, per avere dignità di verità, deve adeguarsi. Il soggettivismo relativizza l’ordine della verità, riducendola a un effetto della disposizione soggettiva. Per quanto ci sia da rilevare che alle analisi critiche ben fondate sull’oggettivismo faccia da pendant una trattazione alquanto sbrigativa e poco approfondita del paradigma soggettivista, appare evidente quale sia l’intento costruens dell’argomentazione: sfuggire a una critica di relativismo e nichilismo da una parte, e riformare il vecchio paradigma aristotelico dell’adequatio rei et intellectus di cui l’oggettivismo rappresenterebbe la più recente propaggine, dall’altra. Il modo in cui i due autori propongono di risolvere l’alternativa tra oggettivismo e soggettivismo è definita esperienzialismo. È qui che entra in gioco il paradigma dell’embodiment, descritto nella prima parte del testo nella sua applicazione ai contesti metaforici.

Lakoff è decisamente contrario alla sostanzializzazione dei concetti: «Il tipo di sistema concettuale che abbiamo dipende dal tipo di esseri che siamo e dal modo in cui interagiamo con l’ambiente fisico e culturale»6.

È la costituzione delle interazioni corpo-mondo a creare il sistema metaforico, e di conseguenza, per Lakoff, il sistema concettuale. Dunque non esistono proprietà fisse, oggetti in sé, ma solo “proprietà relazionali”, in cui l’orientamento fisico del corpo nel mondo abbinato alle coordinate culturali creano la propriocezione del soggetto.

Lakoff dedica argomentazioni molto estese, in questo testo, all’esposizione delle metafore “emergenti” direttamente dall’ordinamento del corpo nello spazio.

Il paradigma a cui facevo riferimento agli inizi della mia esposizione appare evidente già in questo testo non più recente di Lakoff. Non si tratta più di pensare in termini di strutture mentali date a priori che poi in un fantasmatico tempo logico 2, si applicherebbero a un mondo posto come pura oggettualità, Gegen-stand, alla tedesca, ciò che sta di fronte. Si tratta invece di pensare la circolarità retroattiva di soggetto e ambiente, secondo una struttura di co-implicazioni e rimandi reciproci che la rigida separazione ontologica di soggetto/oggetto ha impedito di indagare prima della rivoluzione introdotta dal paradigma cibernetico.

Il rischio a cui però si espone l’argomentazione lakoviana è quello di “culturalismo”, di cui anche lo studioso di Berkeley si rende conto:

[…] Ciò che chiamiamo “diretta esperienza fisica” non è mai il puro e semplice fatto di avere un corpo di un certo tipo; piuttosto ogni esperienza ha luogo all’interno di un vasto retroterra di presupposizioni culturali. Può quindi essere fuorviante parlare di diretta esperienza fisica come se vi fosse un nucleo di esperienza immediata, che noi “interpretiamo” in termini del nostro sistema concettuale. Le assunzioni culturali, i valori, le attitudini non sono un rivestimento concettuale che noi possiamo a nostra scelta sovrimporre o meno all’esperienza. Sarebbe più corretto dire che tutta la nostra esperienza è completamente culturale e che noi facciamo esperienza del nostro “mondo” in modo tale che la nostra cultura è già presente perfino nell’esperienza stessa. Comunque, anche ammesso che ogni esperienza implica presupposizioni culturali, possiamo ancora fare l’importante distinzione fra esperienze che sono “più” fisiche, come il fatto di tenersi eretti, e altre “più” culturali, come partecipare a una cerimonia di nozze. Quando parleremo, in seguito, di esperienze “fisiche” in opposizione a esperienze “culturali”, useremo i termini in questa accezione.7

Se già l’argomentazione lakoviana poteva dare il fianco alle critiche degli oggettivisti fondando tutta la struttura concettuale su un essere-nel-mondo i cui caratteri possono essere definiti sempre per approssimazione, l’apporto culturale ammesso da Lakoff può portare le critiche a spingersi fino all’accusa di relativismo.

Se in effetti il nostro Umwelt, il mondo-ambiente in cui viviamo, influenza e in qualche modo determina, secondo quel couplage originario che abbiamo tentato di teorizzare fin dall’inizio, la costituzione della soggettività psicologica, perché escludere la componente storico-culturale dagli elementi originanti quell’Umwelt? E, di seguito, come è possibile avere dei criteri oggettivi per analizzare il sostrato della cognizione umana, se questo è predeterminato da variabili culturali soggette a mutamenti in tempi relativamente brevi?

Queste obiezioni restano valide, se non assumono addirittura maggiore legittimità, se si passa all’analisi dell’altra struttura concettuale fondamentale nell’impianto di pensiero lakoviano: il frame.

Come è noto il frame è un quadro di riferimento, incarnato a livello neurale, pensabile come una rete di nodi e relazioni, che può essere costituito da una serie di immagini o di conoscenze di altro tipo. Sia le parole che i concetti si definiscono entro un frame: quando si pensa entro un frame si tende a ignorare ciò che ne resta fuori (dunque perché i fatti abbiano senso devono adattarsi ai frame pre-esistenti). Il frame rappresenta la struttura base di narrazioni più complesse, che bisogna pensare non come astrattamente intellettuali, ma anche come emozionali8.

Ora, le narrazioni sono, in parte, culturali: «Ciò che le rende, in parte, culturali, è che usano prototipi, temi, immagini e icone culturali»9. Anche se Lakoff parla di “narrazioni profonde” (basate su frame profondi), vale a dire narrazioni che risultano comuni, al di là delle specificità culturali, torna il problema avanzato per quanto riguarda la metafora: fin dove è possibile pensare che una narrazione abbia una struttura a-culturale, quasi archetipica? È possibile, data una concezione della mente come embodied, pensare queste strutture archetipiche senza cadere nel mito oggettivista dell’esistenza di una “sostanza” indipendente dal contenuto esperienziale, che necessariamente è sempre anche culturale?

Credo che queste domande, per quanto lecite, si pongano però ancora da quel punto di vista della differenza ontologica e dell’ontologia monovalente che abbiamo indicato come paradigma da porre in questione all’inizio.

Nello specifico ritengo che si possa fare l’obiezione di relativismo culturalista a Lakoff solo se si postula l’esistenza di una realtà data, a cui il modello proposto dallo studioso impedirebbe di arrivare. Ritengo che invece il modello proposto da Lakoff sia quello di una identità in evoluzione: vale a dire una concezione del soggetto come determinata, quindi analizzabile, ma non fissata, quindi non oggettualizzabile. Il soggetto è analizzabile perché è possibile analizzare quel couplage formato dalla sua struttura neurale, dai suoi frame e dal mondo che lo circonda, che quei frame produce e rafforza. Non siamo in piena deriva relativista, perché abbiamo sempre delle determinazioni legate al bios umano, alla sua corporeità. Ma siamo anche oltre il paradigma generazionista, perché stiamo pensando a un soggetto che non nasce con delle strutture neurali fisse e immutabili che poi influenzano la sua concezione del mondo, ma a un mondo e un soggetto che si influenzano reciprocamente, strutturandosi secondo un modello che io definisco retroattivo.

È questo modello che, personalmente, ritengo sia la proposta innovativa a livello filosofico di Lakoff: un pensiero della retroazione che si basa su un’indagine delle strutture sia del cervello sia della società, individuando i nessi e le interazioni strutturali tra i due.

È attraverso la medesima lente che andrò di seguito a leggere alcuni concetti proposti nelle sue opere maggiormente teoretiche da Micheal Tomasello.

3.2 Le origini culturali della cognizione umana in Tomasello

Molto probabilmente Tomasello non conosce l’opera di Bernard Stiegler. Per lo meno non ne fa mai menzione nei suoi testi. Per questo assume ancora più valore il fatto che entrambi, praticamente negli stessi termini, pensino intorno a lo stesso. Per chi ha letto entrambi gli autori appare addirittura sorprendente la vicinanza delle argomentazioni dei due.

Come Stiegler Tomasello è un critico del paradigma classico delle scienze cognitive, così come della concezione della mente come modulare:

Secondo un paradigma largamente diffuso nel moderno studio del comportamento e della cognizione dell’uomo, gli esseri umani posseggono un certo numero di moduli cognitivi innati, separati e distinti. […] La difficoltà principale per le teorie della modularità è sempre stata la seguente: quali sono i moduli e come riuscire a identificarli? […] Cercare le risposte nel cervello, come è stato suggerito da alcuni modularisti, è tutt’altro che semplice, poiché la localizzazione delle funzioni nel cervello può dipendere da parecchi processi evolutivi differenti che non è detto implichino la specificazione genetica di un contenuto epistemico10.

Tomasello, in alternativa ai problemi che la concezione modulare della mente pone, propone un modello della cognizione umana basato su un unico mutamento genetico originario, consistente nella capacità eminentemente umana di identificazione con i conspecifici quali esseri intenzionali11.

Partendo da questa ipotesi Tomasello riduce al minimo la necessità di spiegazioni biologiche della cognizione umana, dividendo in tre livelli il processo cognitivo stesso: filogenetico, storico, ontogenetico. Al lettore attento di Stiegler apparirà evidente come i due pensatori siano in linea, addirittura a livello lessicale: Stiegler sostituisce a “storico” il termine “epifilogenetico”, ma il processo è il medesimo.

Siamo a un punto decisivo della nostra argomentazione: pensando all’interazione di tre livelli senza partire dalla priorità ontologica, logica o cronologica di uno sull’altro è possibile ricostruire in maniera convincente il processo della cognizione umana: «Quando indaghiamo e riflettiamo sull’esistenza umana, non possiamo toglierci gli occhiali della cultura per considerare il mondo da un punto di vista aculturale e metterlo a confronto con il mondo che percepiamo dal punto di vista culturale»12.

Quello che ci invita a fare Tomasello, è l’ibridazione della modalità di indagine: non partire più da un soggetto conoscente, ma neanche dalla mente come oggetto di conoscenza presa separatamente dal corpo in cui è incarnata, corpo fisico e sociale.

Come già Lakoff ci invita a fare con l’applicazione dei suoi studi sulle metafore e sui frames al contesto politico, anche Tomasello capisce la necessità di una riforma sostanziale delle modalità d’applicazione della scienza cognitiva al suo oggetto d’indagine.

Quel couplage che Stiegler rivendica come più antico del chi e del cosa, vale a dire del soggetto e dell’oggetto, è lo stesso che ci invitano a interrogare Lakoff e Tomasello, restituendo al soggetto il suo corpo, la sua storia culturale e il suo essere-nel-mondo.

Forse, a molti decenni di distanza, le scienze sperimentali stanno portando avanti quel compito che Edmund Husserl aveva tracciato per le scienze europee del suo tempo, che egli vedeva in irrimediabile crisi.

Prima di arrivare alle conclusioni del mio intervento vorrei concludere questa sezione della mia argomentazione con due citazioni a mio parere estremamente esplicative del concetto, la prima di Peter Sloterdijk, la seconda di Tomasello stesso:

I “materiali” nel pensare complesso vengono concepiti a partire dal loro senso proprio, e vengono utilizzati nelle operazioni sulla base della loro idoneità di massima: smettono cioè di essere quello che tradizionalmente eravamo abituati a chiamare “materia grezza”. Materie grezze ci sono solo là dove soggetti padrone, nel senso della tradizione, o per meglio dire soggetti grezzi, applicano su di esse delle tecniche grezze. […] Alcuni contemporanei e eminenti scienziati esprimono delle idee simili attraverso la metafora del “dialogo con la natura”. Questa espressione ha senso solo se consideriamo che essa viene a sostituire l’idea standard di guerra con la natura.13

Nella stessa direzione, spingendosi anche a livelli di esplicitazione superiore, è orientato Tomasello, che chiude il suo testo dedicato all’origine della cognizione umana con queste parole:

Complessivamente, le vecchie e logore categorie filosofiche rappresentate dalle opposizioni natura/cultura, innato/appreso, e anche geni/ambiente non sono semplicemente all’altezza della situazione – sono troppo statiche e troppo rigide – se ciò che vogliamo è spiegare in chiave darwiniana e dinamica la cognizione umana nelle sue dimensioni evolutive, storiche e ontogenetiche.14

All’elenco di opposizioni di Tomasello, aggiungerei la categoria soggetto/oggetto.

Conclusioni: per una nuova antropologia filosofica

Proprio oggi, nel pomeriggio, viene presentata all’Università degli studi di Roma 3, la ristampa di una delle opere fondamentali dell’antropologia filosofica del ‘900: L’Uomo, di Arnold Gehlen.

Il testo, la cui prima edizione data 1940, oggi, agli studiosi avvertiti nei campi della biologia evoluzionistica e degli studi sui primati, apparirà come un anacronismo colmo di inesattezze.

Gelhen, che fu avverso al freudismo e al darwinismo, delinea in quel testo una visione a tutto tondo dell’essere umano partendo dagli studi sull’etologia di Konrad Lorenz e sulla psicologia dei primati di Wolgang Köhler. La sua visione dell’essere umano è venata di pessimismo e antiumanismo: l’uomo, carente rispetto agli altri animali per ciò che concerne gli adattamenti fisiologici e istintuali al proprio ambiente, è un essere misero, che ha bisogno della cultura e della tecnica per sgravarsi del peso datogli dalle stimolazioni ambientali. Dunque le istituzioni esistono “per natura”, perché si fanno carico dell’esigenza umana di essere sgravato, esonerato, del peso della natura, visto che la natura stessa non lo ha dotato di adattamenti fisiologici. Queste istituzioni inglobano l’uomo e retroagiscono sulla sua costituzione della soggettività.

A mio parere non è irrilevante ricordare che Gehlen aderì al partito nazista. Senza cadere nel riduzionismo o nell’aneddotica biografica bisogna poter pensare questa adesione come una conseguenza della visione scientifica gehleniana dell’essere umano. Considerarlo un essere mancante significa riporre la propria fiducia nelle istituzioni protettive e normative. Il passo perché esse siano oppressive diventa breve.

Il grande progetto dell’antropologia filosofica di inizi novecento, che vide protagonisti oltre a Gehlen, Max Scheler e Helmuth Plessner, fu quello di integrare il progresso delle scienze naturali sperimentali in una visione organica dell’uomo. Ovviamente il risultato, importante dal punto di vista filosofico, ormai appare antiquato dal punto di vista dei referenti scientifici degli autori in questione. Eppure il modello teoretico, a mio parere, resta adeguato. I grandi autori appena citati, che scrivevano tutti in un periodo di crisi dell’uomo e delle istituzioni, avevano compreso che non era possibile dividere il bios del soggetto dalla sua costituzione culturale, pena l’incompletezza dell’immagine e la parzialità delle conclusioni.

Oggi viviamo in un momento storico in cui la crisi del soggetto e delle istituzioni è paragonabile a quella in cui l’esigenza di un’antropologia filosofica si fece pressante.

Dopo tre decenni in cui, a partire dall’Europa, il pensiero dell’irriducibilità del soggetto si è diffuso sulle macerie della seconda guerra mondiale fino alle sue propaggini deboliste, dando il fianco alla critica di relativismo quando non di nichilismo, dagli anni Ottanta in poi, in particolare nel campo delle scienze sperimentali, il “mito oggettivista” si è pienamente ristabilito, fino a permeare tutti gli strati della società.

Il pensiero monista oggettualizza secondo dicotomie rigide tutti gli ambiti del sociale, spesso considerati come risultanti di premesse scientificamente quantificabili.

In questo scenario l’esigenza di una nuova antropologia filosofica, che si faccia carico di pensare, attraverso la scienza, al di là di categorie come soggetto/oggetto, quel couplage originario che è contemporaneamente uomo e più dell’uomo (la sua scienza, la sua tecnica, la storia, le arti) e che sappia dare un’immagine organica, anche se in fieri, della posizione dell’uomo nel cosmo, appare sempre più urgente.

 

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1 Stiegler (1996).

2 Ivi, pp. 188-189. [«Il modello iniziale “ortodosso” delle scienze cognitive pone che ragionare non è altro che calcolare, vale a dire “applicare una sequenza di operazioni elementari scelte in un certo repertorio finito”. È in riferimento al test di Turing e al concetto di macchina universale che il fenomeno chiamato cognizione designa a priori altrettanto bene i funzionamenti tecnologici e i comportamenti animali o umani. […] Tenuto conto della natura tecnica del loro modello federatore è strano che le scienze cognitive non integrino nella loro modellizzazione l’evento tecnico come esteriorizzazione della memoria, come perseguimento della vita con altri mezzi, cioè il carattere essenzialmente epifilogenetico della conoscenza. […] Il modello cognitivista dimentica il ruolo originario della protesi nel pensiero: ciò che non è pensato è l’accoppiamento [couplage] del chi e del cosa in quanto più antico del chi e del cosa in quanto tali.»] (Traduzione mia)

3 Su questi due concetti cfr. Sloterdijk (2007), Günther (2002).

4 Sloterdijk (2001), tr. it, p. 184.

5 G. Lakoff, M. Johnson (1980), tr. it. pp. 151-152.

6 Lakoff & Johnson (1998).

7 Ivi, pp. 78-79.

8 Cfr. Lakoff (2008), tr. it., pp. 24-30. Lakoff (2006b), tr. it. pp. XV-XXIV.

9 Lakoff (2008), tr. it. p. 27.

10 Tomasello (1999), tr. it., pp. 239-240.


11 Cfr. Tomasello (1999), tr.it. p. 242: «Questa nuova forma di cognizione sociale significa piuttosto comprendere che gli altri, quando percepiscono e agiscono, fanno delle scelte, e che tali scelte sono guidate da una rappresentazione mentale di uno stato desiderato, vale a dire uno scopo.»

12 Ivi, p. 253.

13 Sloterdijk (2001), tr.it., p. 179.

14 Tomasello (2005, p. 254).


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