Parole chiavi: Lacan - Wittgenstein - oggetto a - etica della psicoanalisi - atletica della verità.
L’occhio cieco
L’occhio che tutto ti fa vedere, all’interno del tuo campo visivo, quell’occhio non lo vedi. Così scrive Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus, alla proposizione 5.633.
Wittgenstein sta ponendo un problema che segnerà l’uscita pressoché obbligata dalla sua prima maniera, in direzione di quella che, anni dopo, prenderà forma e consistenza nella maniera del cosiddetto secondo Wittgenstein. C’è una macchia cieca, strutturalmente cieca, al centro della scena della verità.
Che effetti produce la pratica filosofica, quanto meno quando sia intesa nel senso di questo Wittgenstein? Anzitutto, l’effetto di esercitare il filosofo, o se si vuole di educare il lettore di cose filosofiche, a notare e a farsi carico del fatto di quella macchia: non tutto è dato o è dell’ordine del dato, non tutto ciò che incontriamo nell’esperienza è dell’ordine dell’oggetto, non tutta la verità giace da qualche parte in attesa di essere scoperta. E quand’anche quella montagna di verità venisse scoperta, avvistata, rivelata, non tutta sarebbe enunciabile senza un resto: senza un resto non accidentale ma strutturale, legato da un lato al suo stesso istituirsi come verità, dall’altro lato all’istituirsi delle nostre enunciazioni (ma è vero che quei due lati sono poi i due lati di uno stesso foglio).
C’è, a monte dell’oggetto, della scena della verità, del “campo visivo” se stiamo all’esempio di Wittgenstein, qualcosa che è dell’ordine dell’inoggettivabile, e che allo stesso tempo rende possibile ogni oggettivazione, o verità, o significato, o visione. Questo inoggettivabile è una pura soglia, come un semplice tratto di penna che sul foglio bianco disegna una figura geometrica. È come il profilo di un quadrato, che rende consistente quella figura o quello spazio che chiamiamo quadrato e che senza profilo non sarebbe altro che bianco confuso nel bianco di un foglio. Di fronte a quel foglio, a quel quadrato, due sono gli atteggiamenti, due gli sguardi possibili. Guardare non-filosoficamente il quadrato significa guardare la figura interna al profilo nero che la staglia e la scontorna nel foglio; guardare filosoficamente, wittgensteinianamente, significa guardare la figura e, insieme a quella figura, non solo e non tanto il suo sfondo, ma il tratto che procede e si inoltra staccando la figura dallo sfondo, rendendo figura la figura per lo sfondo, e sfondo lo sfondo per la figura.
Fuori dal mondo
Quel tratto nero non è altrove che nella figura, ma vi è come un eccesso o come una causa infigurabile della figura. “Causa”, nel senso in cui Lacan ha parlato di un oggetto “causa” del desiderio.
Qui, infatti, con l’occhio wittgensteiniano, o col tratto nero di penna sul foglio bianco, abbiamo un oggetto che come l’oggetto-causa lacaniano non è affatto un oggetto; un non-oggetto che causa la visione del quadrato, la sua consistenza geometrica per i miei occhi di geometra, il suo essere ciò che è per il mio sapere o la mia esperienza.
Occorre rileggere in questa luce un’altra proposizione chiave del Tractatus (6.41): “Il senso del mondo dev’essere fuori di esso”. Il senso non è nessuno dei significati, non è nessuno dei punti bianchi interni del quadrato. Nessuno di quei punti “fa” il quadrato e ha in sé il “senso” del quadrato, se non in virtù del profilo nero che li orla e li compatta. Allo stesso modo, nessuno dei contenuti di una frase, nessuno dei suoi significati “fa” il senso di quella frase. Se io dico: “che simpatico che sei stato”, resta ancora da sapere se l’altro non mi abbia lanciato una torta in faccia, e se il mio elogio della sua gentilezza non fosse ironico, o se la sua torta non fosse invece uno scherzo tra amici fatto per ricordare chissà quale gioia passata, gioia che proprio quella torta in faccia poteva richiamare alla memoria con effettiva simpatia. Il senso non è mai dell’ordine della semantica, del gioco dell’articolazione significante/significato, ma della pragmatica, del gioco incessante delle domande e delle risposte, delle battute e delle rimesse che disegnano e ricompattano la semantica entro la loro cornice.
Ogni battuta che risponde alla mia, come ogni parola con cui chiudo una frase rispondendo all’apertura che la avviava, è il punto di imbotttitura [point de capiton], direbbe Lacan, che ne orienta a ritroso il significato. Il senso è il punto di capitone, il profilo senza spessore nel quale si raduna tutto lo spessore del significato. È l’incisione del significante che raduna e insieme lascia un resto, che orienta e produce desiderio e visione, direbbe Wittgenstein, e allo stesso tempo produce la cecità e la macchia di quella visione, l’informe di quella forma, la shakespeariana libbra di carne. Che il senso del mondo debba essere fuori dal mondo, non significa peraltro che esso sia semplicemente altrove, in uno spazio che tenderà a diventare un altro mondo, in un registro che tenderemo a immaginare come un mondo analogo a questo, ma spostato rispetto a questo, omogeneo e giustapposto. Non è così che il senso e il significato, il profilo e la figura si rapportano. Il senso del mondo è in un fuori che è il fuori di questo mondo, così come il profilo del quadrato aderisce punto per punto al quadrato che disegna, senza esserne semplicemente il negativo. Se si vuole: il negativo del quadrato è appunto un altro quadrato o un rovescio del quadrato; è l’altro del quadrato, ma non tutt’altro dal quadrato; è lo sfondo del quadrato, non quel “fuori” assoluto in cui va riconosciuto il senso del quadrato, ciò che rende quadrato il quadrato, la sua “causa”. Il profilo del quadrato invece sì, è tutt’altro dal quadrato. Non intrattiene con esso alcun rapporto di somiglianza, non è un quadrato più piccolo che riassume un quadrato più grande, non è un’origine congenere al suo risultato, non gli è in alcun modo contigua o consustanziale, è ad esempio una linea e non una superficie. Allo stesso tempo, il profilo è esattamente il profilo di quel quadrato; è il fuori di quel dentro, e in un certo modo è il fuori che sta dentro a quel dentro e da nessun’altra parte; è il fuori che proprio aderendo punto per punto al dentro se ne stacca e lo stacca da sé.
Un esercizio in perdita
Assumiamo, di nuovo, che l’esercizio filosofico sia dell’ordine del guardare il quadrato, e insieme il profilo del quadrato, questo essere enigmatico che sta al limite del quadrato senza essere nel quadrato e senza essere altrove dal quadrato.
L’esercizio filosofico così definito è anzitutto un esercizio in pura perdita. È il tratto che balza all’occhio del detrattore della filosofia, e già solo per questo meriterebbe attente riflessioni. L’esercizio è in pura perdita perché l’occhio, come diceva Wittgenstein, non lo vedi, e continui a non vederlo anche una volta che avrai svolto il tuo bravo esercizio consistente nello sforzarti di guardare l’occhio che guarda e mentre guarda. Se e quando lo vedi, quell’occhio che guarda, è perché un altro occhio si è aperto e attivato. L’occhio che vede effettivamente è quest’altro occhio, posto al di là dell’occhio che stai vedendo, e che appunto è un occhio visto, nient’altro che una cosa tra altre cose guardate. L’occhio che vedi allo specchio, ad esempio, è detto solo per omonimia occhio, occhio che vede. È piuttosto simile a una biglia di vetro, un occhio visto e in questo senso un occhio morto. Perciò, sia detto per inciso, non è mai senza qualche sconcerto che si transita davanti agli specchi, e che tanto spesso, nella nostra tradizione, ci si è interrogati con inquietudine intorno a questi strumenti diabolici. Essi di fatto interpongono una distanza tra la vita e la vita, riconsegnandola a se stessa sdoppiata, finalmente cosciente e insieme cosciente della propria zoppia (o meglio: zoppa e proprio perciò cosciente).
Dicevamo: l’occhio che vede, l’occhio nel suo vedere in atto, lo sguardo a cui anche Lacan (1979) consacra notazioni del tutto analoghe a quelle wittgensteiniane nel Seminario XI, non lo vedi mai, e quindi l’esercizio non può che ricominciare sempre di nuovo. Se infatti l’esercizio si fermasse, scambierebbe qualcosa che è dell’ordine del causato per la causa, e in un certo senso produrrebbe una paralisi ancora più grave, una sorta di feticismo ancora più radicale di quello che vorrebbe curare, un’alienazione definitiva e insormontabile. Individuata una causa, difatti, ci si ritrova consegnati alla cascata deterministica delle sue conseguenze. Se questa fosse davvero la direzione della cura, se questa fosse la proposta “terapeutica” wittgensteiniana, in filosofia come in psicoanalisi, come si potrebbe mai sperare di liberare qualcuno dalla pura ripetizione di ciò a cui quella causa o quell’oggetto-causa o quell’occhio invisibile lo destina?
Dunque la nostra affermazione iniziale va precisata, sfumata, addirittura rovesciata. Una volta che ci si è impratichiti dell’esercizio, resta vero che l’occhio non lo vedi, resta vero che l’esercizio è in pura perdita, ma diventa anche vero che dell’occhio trovi traccia, che impari a indovinarne l’assenza all’interno della presenza a cui dà luogo. Non devi ogni volta attivare un altro occhio perdendo il primo, non devi regredire all’infinito, non devi fare dell’etica (ci torneremo) la messa in opera di un cattivo infinito. L’occhio non lo vedi, insomma, ma bisogna aggiungere e precisare: non lo vedi se non come ciò che manca e come ciò che si dà a vedere come ciò che manca in ciò che c’è, e che c’è proprio perché quella mancanza lo disegna e rende possibile. La regressione all’infinito si arresta. Non è come cosa vista, ma neppure come semplice invisibile, che incontri quella soglia della visione e del desiderio. È come traccia ai limiti dell’invisibile inscritta nel visibile. Un tratto, appunto, un profilo senza spessore, il gioco inconsistente di una domanda e di una risposta in cui consiste ogni significato della nostra esperienza e ogni sua interna oggettività. Certo serve esercizio, prima di imparare a vedere qualcosa che non è da vedere, ma da cui discende ogni vedere. Ed è un vedere singolare, questo a cui si arriva con l’esercizio. Un vedere di cose non visibili, un vedere un invisibile che rende visibile ciò che poi sarà anche visto. Un vedere tracce in un campo fatto di cose visibili, un vedere incrinature in una scena fatta di presenze compatte.
Il doppio luogo dell’oggetto a
Da sempre, peraltro, la filosofia frequenta questa posizione paradossale, per cui filosofare significa vedere ciò che consente di vedere, sapere significa sapere ciò che consente di sapere, essere significa essere ciò che consente di essere. Solo l’idea persistente, la tentazione quasi ineliminabile, di pensare che nonostante tutto ci sia pure “qualcosa” da vedere, qualcosa che sarebbe infine e in verità quell’“invisibile”, quell’“inoggettivabile” di cui ogni oggettivazione è effetto, ha potuto portare a pensare la filosofia come metafisica e poi la metafisica come matrice delle scienze e come progetto tecno-scientifico compiutamente dispiegato.
Ci “sarebbero” insomma l’anima, l’idea del Bene, il soggetto trascendentale, e magari l’architraccia o l’oggetto-sguardo; e quindi ci sarebbe una scienza di ciò che è l’anima, delle sue facoltà, delle sue possibilità e limiti, o un’analitica del trascendentale, o una teologia negativa, perché tale spesso è, nelle sue definizioni e ancor più nelle sue movenze, dell’architraccia stessa o dell’oggetto-sguardo. L’automatismo è quasi ineliminabile, perché nasce dalla torsione e dal détournement di un gesto che è di per sé oggettivante. Si vuole vedere qualcosa, cioè si vuole vedere che non si può vedere il luogo da dove si vede. Ma il “che non si può vedere” diventa facilmente il “qualcosa” che si cerca di vedere, diventa cioè una cosa, perfetto simulacro dell’esercizio scaduto a risultato dell’esercizio, contrabbando dell’operazione con l’opera che ne risulta, punto di consistenza in cui l’inconsistenza dell’esercizio tenderà a cancellarsi.
Se si riesce a tenere in sospeso questo automatismo “oggettivistico” del nostro comune modo di vedere e forse della struttura stessa del gesto del vedere, la filosofia va invece a risolversi integralmente in quel suo gesto paradossale: tentare di vedersi vedere, voler vedere la soglia da cui proviene il vedere, installarsi nel punctum dello sguardo. Il filosofo si congeda allora dall’idea, dal progetto, dall’armamentario tecnico che quel progetto di vedere la soglia della visione mette via via in campo. Con un soprassalto nota che, anche a vedere finalmente la soglia, non ci sarebbe che da mettersi nuovamente in cerca di ciò a partire da cui l’ha vista. E si fa carico del fatto che il punto è infine un altro: riutilizzare tutti quegli oggetti che avremo trovato lungo la strada (compresi, appunto, quegli oggetti che non sono oggetti e che si chiamano “soglia”, “sguardo”, “anima”, “profilo”, “gesto”) come pure e semplici occasioni di esercizio. L’esercizio che compi ora è esso stesso la soglia in cui si inscrive la soglia che cercavi come se fosse situata in un “allora”. L’occhio che tutto vede senza essere visibile ti appare laggiù, una volta che hai compiuto l’esercizio, in quanto però era in atto qua, dove non potevi vederlo e da dove perciò potevi vedere.
Psicoanaliticamente, la cosa si potrebbe forse tradurre così: individuata una certa “causa” del desiderio di vedere in un certo modo, o di desiderare secondo una certa maniera, o di essere divenuti soggetti del proprio mondo in quanto anzitutto soggetti “a” un certo concatenamento di oggetti-scarto, converrà chiedersi quale sia la causa dell’aver visto la causa in quella certa causa; converrà chiedersi quale soglia attuale ci induca a individuare la soglia in quella soglia che abbiamo indicato; quale atto attuale ci induca a dirci “fatti” da quel certo fatto da cui saremmo stati fatti.
È nel mio sguardo attuale che si vede quel certo sguardo della mamma o del papà, che mi hanno indotto a guardare e desiderare in quel certo modo che è il mio. Il profilo del quadrato non è mai collocato in illo tempore, ma è sempre in atto qui, in atto ora, all’opera in questa figura della mia esperienza, al margine di questo campo che mi si dischiude. Se, in altri termini, il senso del mondo è fuori dal mondo solo in quanto vi è implicato come il suo limite e come la soglia che aderendogli lo staglia e lo disegna, allora il senso è sempre e soltanto un senso attuale, nel quale ogni altro significato è collocato, nel quale ogni altro evento passato trova posto e prospettiva. Si potrebbe dire la cosa rovesciando il discorso di Lacan contro se stesso: l’«oggetto a piccolo» è tanto laggiù, alle nostre spalle, quanto quaggiù, da dove si proietta ai nostri occhi l’illusione di una provenienza che determinerebbe la vicenda dei nostri desideri. In questo senso, l’oggetto-causa non solo non è un oggetto, ma non è neppure una causa. O meglio: si arriva a incontrare un punto, un passaggio, di cui parlano Lacan quanto Wittgenstein, attraverso il quale l’«oggetto a» passa e si tramuta alchemicamente da oggetto-causa a oggetto-causato. Allo stesso modo, filosoficamente, si potrebbe dire che c’è un punto in cui le condizioni della verità diventano oggetto di un’altra verità a cui esse stesse hanno contribuito a dare vita, e che proprio diventando oggetto di quest’altra verità quelle condizioni tramontano in quanto condizioni o in quanto condizionanti.
Il filosofo come atleta
Da questo punto di vista, il filosofo non è più (e per tanti versi non è mai) uno scienziato della verità, ma piuttosto un atleta della verità, nel senso in cui i mistici del primo cristianesimo orientale si sono definiti talvolta “atleti di Dio” (d’altra parte, Platone non giocava a dire, nel Cratilo, che la verità è la corsa degli dei, ale-theia?).
Dell’occhio che vede, e vediamo balenare nel campo visivo come traccia che lampeggia e scompare e si offre alla presa malcerta di quella che si chiama “la coda dell’occhio”, dell’oggetto a piccolo che vediamo per un istante in quello che Lacan chiamava la sua pulsazione, il suo battimento (Seminario XI), la sua breve e labile vibrazione, non c’è nulla da sapere, vedere, comprendere; c’è qualcosa da fare, forse; qualcosa che è dell’ordine dell’askesis.
Di nuovo, una certa proposizione di Wittgenstein, giustamente celebre, profondamente connessa col senso ultimo del suo progetto filosofico, va ripetuta e insieme variata. “Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, si legge nella Prefazione del Tractatus (proposizione che conclude il Tractatus stesso), quasi a sigillarne l’intero cammino. Se quanto detto sopra ha qualche tenuta, allora das Mystische, che è appunto quanto non può dirsi perché regge quanto può dirsi come il suo margine e la sua spinta indicibile, non è affatto un contenuto sublime, non è mai il portato di un’epopteia dalla quale sia opportuno tornare ammutoliti. Non c’era niente da vedere, laggiù, all’origine del vedere, se non che si stava già vedendo da quaggiù, che non c’era un’origine nelle brume del tempo andato, che l’origine è sempre e soltanto un’opera in corso qui e ora. Di ciò di cui non si può parlare non si deve affatto tacere. Che lo si debba tacere, è appunto un’illusione indotta dallo stesso passo falso che poteva farci credere che il bene o l’anima o il trascendentale o l’architraccia siano da qualche parte, ancorché in un altro mondo oltre il mondo, e proprio perché quel mondo oltre il mondo era un altro mondo, congegnato a perfetta somiglianza di questo. Di ciò di cui non si può parlare, si deve “fare” qualcosa, lo si deve mettere “all’opera”, e questo anzitutto perché esso stesso è un’opera o un’operazione, un fare e una pratica in corso, un senso e una direzione già sempre in atto, che chiede perciò d’essere prolungato e trasferito, molto più che fermato e fotografato in una sua supposta verità.
Questo è appunto il nodo in cui si annodano l’etica “informulabile” (Tractatus, 6.421) di cui parla Wittgenstein (la si può formulare solo con un dire che si disdice di continuo, e che in questo disdire mima perfettamente un movimento che è una forma di vita: tenti di vedere l’occhio che non puoi vedere ma da cui vedi, e da cui vedi che non puoi vederlo, intanto che anche lo avvisti nel suo scomparire e cancellarsi) e l’etica di cui parla Lacan (non cedere sul desiderio, se stiamo al Seminario VII (Lacan 1994); non scambiare l’oggetto del desiderio col senso del desiderio, e non scambiare il senso del desiderio o la causa del desiderio con il destino del desiderio; poiché il senso viene da là e appare venire da là, solo perché viene da qua; da qua, dove io non sono proprio per esserci e avendo da esserci).
Entrambe queste etiche sono dell’ordine di ciò che Platone, già Platone, chiamava gymnasia (Parmenide, 127e7-130a1). L’obiettivo di quella ginnastica non è la verità, ma appunto un’atletica, un certo tono, o una certa tonicità, o intonazione, di chi la cerca.
Bibliografia
Lacan, J.:
- (1994) Il seminario. Libro VII (L’etica della psicoanalisi), a cura di A. Di Ciaccia (Torino: Einaudi).
- (1979) Il seminario. Libro XI (I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi), a cura di G. Contri (Torino: Einaudi).
Wittgenstein, L. Tractatus logico-philosophicus, a cura di G. A. Conte (Torino: Einaudi, 1998).
Platone:
- Cratilo, in Opere, vol. 2, Laterza, Roma-Bari 1991.
- Parmenide, in Opere, vol. 3, Laterza, Roma-Bari 1982.
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