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A. M. P.
SEMINARI 2000 - 2001
Maria Antonia Ferrante

Il grande psicodramma: il mondo della Divina Commedia



Per quanto mi sarà possibile, cercherò di omologare il viaggio catartico di Dante ad un percorso psicoterapeutico che si snoda attraverso stadi differenziati: da quelli iniziali, durante i quali sono prevalenti le angosce, i timori e la sfiducia, a quelli che preludono l’aumento della tolleranza, dell’autocontrollo e del rinforzo dell’ego.
Dante intraprende, nel mezzo della sua età, all’alba di un giorno particolare, il Venerdì Santo del 1300, data molto significativa, sebbene incerta, il suo viaggio di pellegrino. Il poeta cade in un sonno profondo che si trasforma in sogno, il sogno del malato penitente che varca la soglia degli inferi, come il paziente che varca la soglia dello studio del terapeuta con le ansie, le attese e le incertezze per un percorso che si prevede lungo ed accidentato.
Dante ha buoni motivi per decidersi ad avventurarsi nella selva oscura, ma non lo fa da solo; l’accompagna un terapeuta, Virgilio, il più adeguato a percorrere con Dante il primo tratto del viaggio, il più terribile.
Lo scenario infernale irrompe con immagini violenti, simboli ed allegorie dell’anima travagliata. Melma, fuoco e turbolenze atmosferiche mutevoli avviluppano e tormentano le anime. Animali immondi, mostruosi e fantastici, specchi di una psiche disorientata, ostacolano il cammino catartico. Dante era tormentato e disorientato. Egli stesso ci informa su questo suo stato con parole che oggi utilizzerebbe uno psichiatra per emettere una diagnosi di profonda depressione. Non ebbe vita facile l’Alighieri. Fu orfano della madre in tenera età, male accudito dalla matrigna e da un padre assente che il poeta mai nominò. Sposo di una donna che non ebbe alcun significato nella sua vita. Gli diede quattro figli, che Dante ricorda solo nel periodo dell’esilio, preoccupato per il loro sostentamento materiale. Il poeta molto amò, ma breve fu la stagione del suo amore; Beatrice, la fanciulla che poche volte incontrò, fu carpita dalla morte prematuramente, dopo quella del di lei padre, Folco Portinari, al quale Dante fu molto legato. Nella “Vita Nova” il poeta così descrive i suoi sintomi prima del viaggio ultraterreno.

“Avvenne che in alcuna parte de la mia persona mi giunse una dolorosa infermitade, onde io continuamente soffersi, per nove dì, amarissima pena, la quale mi condusse a tanta debolezza che me ne conveniva stare come coloro li quali non si possono muovere” (“Vita Nova”, XXIII, 1).

Dante, per un breve periodo, smarrì la ragione.

“Mi giunse un sì forte smarrimento che chiusi li occhi e cominciai a travagliare come farnetica persona e a imaginare in questo modo: che ne lo incominciamento de lo errare che fece la mia fantasia, apparvero a me certi visi di donne scapigliate che mi diceano ‘tu se’ morto”.(“Vita Nova”, XXIII, 1).

Il Boccaccio descrive mirabilmente lo stato di Dante in quel periodo.

“Gli era sì per lo lagrimare e sì per l’afflizione che il cuore sentiva dentro, e sì per non avere di sé alcuna cura, di fuori divenuto quasi una cosa selvatica a riguardare: magro, barbuto e quasi tutto trasformato da quello che avanti essere solea”. (“Trattatello in laude di Dante”, in “Dante e Firenze”, Sansoni, Firenze, 1984, pag. 48).

La depressione profonda e lo stato allucinatorio non durarono a lungo perché ben presto Dante tornò a vivere sentendo attenuata anche la pena per la morte di Beatrice; anzi, quasi dimentico di lei, ne sublimò il ricordo e si dette con alacrità sia agli studi filosofici sia, come molti studiosi danteschi affermano, ad altre donne. Ed è ancora il Boccaccio che ci informa sul come il sommo poeta passasse dalla malattia alla guarigione, diremmo apparente se, subito dopo, si lasciò trascinare dal suo amico Forese Donati, dal 1293 al 1296, data in cui il Forese morì, in una condotta di vita triviale e smoderata, come si rileva dal contenuto dei sonetti, detti “tenzone”, che i due si scambiarono.
Il Boccaccio, profondo conoscitore delle dinamiche in cui è invischiato l’animo umano dice, a proposito del mutamento repentino del comportamento di Dante:

“Siccome noi veggiamo per lunga usanza le passioni divenire agevoli a comportare, e similmente nel tempo ogni cosa diminuire e perire; avvenne che Dante, infra alquanti mesi apparò a ricordarsi senza lagrime, Beatrice essere morta, né guari di spazio passò, che dopo lasciate lagrime e li sospiri, li quali già erano alla lor fine vicini, cominciarono in gran parte a partirsi senza tornare” (Boccaccio, op.cit, pag. 47).

Ma all’euforia si sostituì il senso di colpa per aver tradito la memoria di Beatrice, in un periodo storico di turbolenze politiche. Il poeta entra nell’atmosfera fiorentina con veemenza, con la passionalità sanguigna, irosa e lussuriosa, ambiziosa e battagliera che gli era propria. Riscattata, infine, dall’umiltà del credente, del peccatore fra peccatori, dall’esule vagabondo in terra, pellegrino nel regno dei morti. Dante, filosofo, poeta, politico, guarì parlando a sé e ad ogni altro uomo attraverso “La Commedia”, messaggio per “l’io parlante” e per “l’io trascendentale”.
Il poeta è consapevole della sua fragilità e se è vero che fu dominato da tratti caratteriali negativi, tali da farlo riconoscere come rabbioso, vendicativo, provinciale, vanesio e lussurioso, è ancor più vero che fu all’altezza di un’autoanalisi che lo guidò verso la “visione finale”: conoscenza, autoconsapevolezza, individuazione.
Nella “Vita Nuova”, l’Alighieri, consapevole della sua fragile struttura umana, dice:

“Più volte bestemmiava la vanitade de li occhi miei e dicea loro nel mio pensiero ‘or voi solevate fare piangere chi vedea la vostra dolorosa condizione” (XXXVII, 1-2).

E’ chiaro il riferimento a Beatrice. La psicoterapia è scandita dal ritmo delle sedute, alcune delle quali si rivelano più delle altre decisive per l’andamento positivo del processo di guarigione. Così, nella “Commedia”, alcuni canti, fortemente icastici, toccano problematiche fondamentali relative alla complessa struttura dell’animo umano, alle tante contraddizioni che regolano la vita dell’essere vivente che si dibatte fra le sue tante passioni.
Seguendo il filo conduttore che dalla pratica psicoterapeutica ci porta a considerare la “Commedia” come viaggio iniziatico, ho scelto alcuni versi dei canti piu incisivi, partendo da quelli infernali, per segnare, passo passo, l’ascesa di Dante verso la guarigione-salvezza.
I primi due canti dell’Inferno sono di apertura. Il terapeuta, Virgilio, e il paziente, Dante, prendono accordi circa la modalità di intraprendere il viaggio. Ma la terra trema, preludio di un cammino difficile, e Dante subisce il primo collasso.
Passando dal primo al secondo “cerchio”, la drammaticità della scena si intensifica. Qui vi sono gli ignavi e i non battezzati. Da questo girone, già scarso di luce, si va verso la tempesta che travolge coloro che peccarono per lussuria: Semiramide, Cleopatra, Elena di Troia, Paolo e Francesca, la coppia che commuove il poeta che in loro si ravvisa.
Dante va fra un foltissimo gruppo di anime, ombre di uomini famosi vissuti in peccato. Nella foga che lo trascina non ne tralascia alcuno. Sfilano le anime mitiche, quelle storiche, religiose e politiche e i mostri terrificanti, metafore di brutalità: Minosse, Caronte, Pluto: forze super-egoiche, impietose, specchio della cattiva coscienza.
Poi compaiono gli avari e i prodighi, emblemi di uno stesso vizio. La gamma dei peccati sembra includere ogni tipo di trasgressione della condotta umana. La prova diventa sempre più pesante e l’animo sempre più oppresso dalle orribili visioni.
Il cammino si fa difficile perché la vista è gravata di immagini terrificanti. Diavoli, muniti di forconi: Graffiacane, Ciriatto, Libicocco e Draghignozzo, sono gli attori di una farsa tragicomica.
Dante, attore ed osservatore, non può fermarsi, sa che dolorosamente deve andare avanti per colloquiare con i suoi fantasmi; con l’epicureo Farinata che emerge dalle fiamme della sua sepoltura; con Pier delle Vigne, suicida, albero senza vita; con Taide, la cortigiana relegata nella Malebolge. Anime che si pongono a Dante come parti sue con le quali ora deve fare i conti, perché il poema dell’Alighieri è, al contempo, soprannaturale e terreno.
Il poeta non è solo, gli sarebbe impossibile giungere alla fine del percorso. Virgilio è il suo duca, il suo pedagogo, il suo maestro. Noi diciamo, ora, il suo terapeuta. Dante lo appella, di volta in volta, quando più duro si fa il cammino e Virgilio gli rinfresca il viso, gli copre gli occhi di fronte a scene terribili, lo bacia perfino, ma lo rimprovera, anche, quando avverte il cedimento del suo paziente.
Il passaggio dall’Inferno all’Antipurgatorio e al Purgatorio segna la risalita. l’Antipurgatorio è il luogo dove gli occhi iniziano a vedere, essendo aumentata la luce. Il simbolismo delle scene rinvia chiaramente al processo di comprensione che avanza positivamente con lo scemare della sofferenza.
L’anticamera del purgatorio è importante nella mappa geografica della “Commedia”, dove ogni spazio deve tradursi come spazio reale e come spazio simbolico. Nel Purgatorio la sofferenza scema con l’aumento del processo di riscatto. Lo spirito acquista coscienza della sua forza e, purgandosi, si avvicina alla libertà. Il Purgatorio sottolinea quella fase della cura catartica che introduce il dominio della ragione, sempre più impegnata nel controllo delle richieste pulsionali.
Il pellegrino-paziente, adesso, ha alquanto affinato la capacità di specchiarsi nelle anime dei penitenti e ciò induce un nuovo stato dell’anima: pacato, nostalgico e malinconico. Qui l’Alighieri incontra Pia de’ Tolomei, uccisa dal marito. Incontra Stazio, Forese ed altri personaggi significativi nella sua vita terrestre.
E’ prossima la conclusione del viaggio, come vicina è la separazione dalla guida, Virgilio, che ha portato a termine la sua opera di sostegno. Sulle sponde del fiume Lete Matelda illustra a Dante le condizioni del luogo, mentre, fra giulive acclamazioni, appare Beatrice che sostituirà Virgilio nell’ultimo tratto che ancora resta del pellegrinaggio.
Il regno del disordine mentale è ormai alle spalle e il penitente avverte che qualcosa di nuovo sta accadendo, come l’analizzando che sente alleggerirsi il fardello delle sue pene. Prima di lasciare Virgilio il poeta sente già il variare del suo umore e così a Virgilio si rivolge:

“Maestro, di’, qualcosa greve
levata s’è da me, che nulla quasi
per me fatica, andando, si riceve”.

Adesso lo spirito è attivo e cosciente, incline già alla contemplazione e Dante può osservare il mutamento di scena nel disporsi delle anime.
Se si equiparano le anime della “Commedia” ad un grande gruppo, ogni elemento del quale agisce all’interno di una struttura specifica, ci rendiamo conto che nell’Inferno le anime sono disorganizzate, divise in sottogruppi, secondo il castigo inflitto ad ognuna di esse. Nel paradiso le anime, al contrario, sono organizzate secondo un disegno teleologico. Il grande gruppo paradisiaco è ordinato. Qui le anime cantano e ridono, ragionano e, come in una danza, si combinano nelle diverse gradazioni della luce che del paradiso è l’elemento saliente. Luce terrestre, perché Dante, nel suo capolavoro, ha portato la terra in cielo. Ogni terzina del paradiso pone a confronto terra e cielo.

“Come si volgon per tenera nube
due archi paralleli e con colori.” (Paradiso, XII,10_11)

“E come giga e arpa, in tempra tesa
di molte corde, fa dolce tintinnio”. (Paradiso, XIV, 118_119)

“Come s’avviva allo spirar di venti
carbone in fiamma”.(Paradiso, XVI, 28_29)

“Come l’augello intra l’amate fronde,
posato al nido de’ suoi dolci nati”.

Tutte queste sono immagini consuete per i mortali. Dante le colloca lì, fra i santi e i cherubini.
Nel Paradiso la gruppalità predomina nell’assetto circolare in cui si dispongono le anime.
Nell’ordine che ha soppiantato il caos, la luce vince sulle tenebre e la vista percepisce sempre più nettamente.
Beatrice, guida dolce e severa al contempo, che non ha risparmiato i meritati rimproveri a Dante, adesso, mentre sono prossimi al traguardo, così a Dante si rivolge:

“Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al cielo ch’è pura luce:
luce intellettual, piena d’amore;
amore di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogni dilzore”. (Paradiso, XXX, 38_42)

Ragione ed amore; dal cielo sensibile al cielo che è luce pura.

“In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue cristo fece sposa”. (Paradiso, XXXI, 1_3)

Il percorso terapeutico e purificatorio del pellegrino penitente è giunto al termine. La rosa mistica, dalla forma circolare, è il simbolo della totalità.
Dante incontra Beatrice ed incontra la Vergine, due figure femminili, madri del fanciullo Dante che la madre conobbe appena. Le incontra dopo essere stato accudito da un pedagogo-padre, Virgilio, che si è fatto carico di una funzione che il padre terreno del poeta non svolse.
L’uomo, piccolo, finito, accede, infine, alla visione sublime, frutto di un lungo, accidentato cammino.
Dante, poeta, filosofo e scienziato merita, fra gli altri attributi, quello di grande psicologo e psichiatra per aver, nella “Commedia”, non solo caratterizzato i tanti e diversi personaggi mettendone in risalto i tratti salienti della loro personalità, ma per aver di loro individuato le patologie che ne fecero suicidi, traditori, assassini e peccatori per diversi misfatti.
Dante si interessò del significato dei sogni perché consapevole, da uomo di scienza, che essi erano riflessi di una problematica intima, espressione di un vissuto ancora ignoto al sognatore; vissuto che impone l’analisi del “sognato” per decodificarlo. Il sogno è per Dante una “visione”. Gli accadde di averne una dopo il secondo incontro con Beatrice, allorché egli aveva dodici anni. Dopo tale incontro si rifugiò nella sua camera e qui, in una condizione di sogno, come egli afferma, vede la sua amata nuda, coperta solo di un velo purpureo, fra le braccia del dio amore che in una mano ha un cuore palpitante; quello del poeta innamorato offerto alla fanciulla perché se ne sazi. Subito dopo il dio d’amore esce dalla stanza perché prevede già le pene che questo sentimento procurerà al giovane che inizia a “rimare”.
Dante vuole conoscere il significato di questo suo sogno e ne invia copia, in versi, ad alcuni “trovatori” del suo tempo.
Dante si augurava che coloro ai quali inviò il suo primo sonetto si esprimessero circa il significato del sogno-visione. Sappiamo che gli rispose Dante da Maiano, secondo il quale il contenuto dei sogni era da addebitare ad una buona, oppure ad una cattiva digestione. Ovvero, se il sogno è di contenuto drammatico è da attribuire a malattia atrabiliare o a passioni amorose, che a suo avviso, spingono gli uomini a “favoleggiare loquendo”.(“Tutte le opere di Dante” a cura di L. Blasucci, Sansoni, Firenze, 1965, p. XII).
Il de Maiano si convinse che Dante fosse molto malato, secondo quanto si rilevava dal sogno e pertanto gli consigliò di farsi controllare le urine.
Al contrario, Guido Cavalcanti, allorché ebbe sotto gli occhi il sonetto, e dopo averlo letto più volte, intuì che colui che l’aveva scritto era già un grande poeta. Dante ne fu informato, e, lusingato, si legò al cavalcanti di grande amicizia.

Non credo che esistano molti lavori riguardanti l’analisi dei personaggi della “commedia” secondo l’uso di parametri psichiatrici moderni. Di certo l’Alighieri è uomo del suo tempo, e non potrebbe essere altrimenti. Le opere sue sono intrise delle tematiche del suo secolo: religiose, politiche e sociali. Ma al di là del clima che Dante respirò, c’é tutto il suo mondo intimo, quello del singolo, che può essere influenzato dall’ambiente, ma che é soprattutto patrimonio personale.
Nel redigere la biografia di Dante come di ogni altro scrittore, di qualsiasi tempo egli sia, si rischia, soprattutto se si analizzano i personaggi creati dall’autore, di cadere nell’arbitrarietà. Pertanto, è fondamentale procedere con cautela per non travisare il vero intento di colui che dà vita ai protagonisti della propria opera.
Quando affermo che il mondo della “Divina Commedia” è omologabile ad un grande gruppo che inizialmente si muove e si agita nella sofferenza, in balia di forze violente e che in questo gruppo Dante si riflette, si vede e si riconosce, sottolineo soprattutto che l’Alighieri, precorrendo i tempi ed allo scopo di curarsi, ha immaginato che potesse guarire sognando un viaggio, il viaggio dell’anima pellegrina. Accompagnato da un maestro terapeuta che lo sostiene, che interpreta per lui, che lo affida a Beatrice, la quale continua l’opera del primo analista, la “Commedia” di Dante si snoda come un incontro con tante parti del sé, anime che nel dialogare con il poeta e nel rammemorare la loro vita terrena, ne traggono beneficio, sebbene la loro sorte eterna sia già segnata.
Pertanto, all’interno delle comprensibili differenze, attinenti al tempo storico, agli intenti dell’autore, all’ambientazione ecc., può rimanere valida la considerazione che rinvia all’intento iniziatico-catartico con il quale Dante si è apprestato a scrivere.
Secondo lo psichiatra catanese Salvatore Saitta, la “Divina Commedia” è un trattato di psichiatria. Il medico siciliano cercò di analizzarlo scrivendo un prezioso libretto, “Le psicopatie nella Divina Commedia” (Giannotta, Catania, 1921), dopo aver tenuto una conferenza a questo riguardo.
Egli afferma che nell’Anti-inferno, gli abulici sono assimilabili agli psicopatici; apatici, affetti da disturbi della motilità e della sensibilità.

“sospiri, pianti ed alti guai
voci alte e fioche e suon di man con elle”.(Inferno, III, 22-27)

Gli ignavi, invece, sarebbero simili a catatonici. Essi gridano soltanto e non vogliono parlare. Avari e prodighi sarebbero, secondo il Saitta, dei frenastenici privi di potere critico, incapaci di formulare un sano giudizio.
Nella palude Stigia c’è Filippo Argenti, prototipo dell’iracondo. La sua anima guazza nel fango, è affetto da furor brevis, da accesso maniacale che ne altera l’aspetto fisico, di “sembiante offeso”.
I suicidi sono melanconici che soffrono di paranoia. Fra questi, Pier delle Vigne, il cancelliere di Federico II.

“Per disdegnoso gusto
credendo col morir fuggir disdegno”. (Inferno, XIII, 70_7)

Capaneo è un grande paranoico, continua ad affermere il Saitta. Insensibile, rimane fermo ed altero sotto la pioggia di fuoco. Qui, come sottolinea lo psichiatra siciliano, la caratterizzazione che il poeta adotta per descrivere la personalità di Capaneo è sublime, sia per l’approfondimento dello stato emozionale che travaglia questa anima, sia per l’individuazione della patologia della quale è stato affetto in vita. Capaneo si sente grande, ma perseguitato da coloro che non riconoscono la sua grandezza. La sua è fobia persecutoria.

“O Capaneo, in ciò che non s’ammorza
la tua superbia, sei tu più punito;
nullo martirio, fuor che la tua rabbia
sarebbe al tuo furor dolor compito”. (Inferno, XIV, 63_66)

Un accesso epilettico, secondo il Saitta, è descritto dall’Alighieri, secondo i canoni di un trattato di psichiatria, nel canto XXIV dell’inferno, riferendosi all’anima di Vanni Pucci che predice a Dante sciagure familiari. Vanni Pucci sarebbe affetto dal “gran male”; egli è antisociale, delinquente, propenso al crimine per sua perversa natura.

“E quale è quei che cade e non sa como
per forza di demon ch’a terra il tira
o d’altra oppilazion che lega l’uomo
Quando si leva o che intorno si mira,
tutto smarrito dalla grande angoscia
ch’egli ha sofferto e guardando sospira”.(Inferno, XXIV, 112_117)

Analizzando questi versi, il Saitta dice, traendo spunto da un vecchio trattato di psichiatria: “destatosi dal sonno, l’ammalato, qui Vanni Pucci come i tanti che soffrono della stessa patologia, non si reintegra nella coscienza; è stordito, guarda all’intorno con uno sguardo incerto, mostrando di comprendere poco o nulla di tutto quanto lo circonda. La fisionomia permane coi caratteri della stupidità, intontita; l’infermo, richiamato, si volge appena , non è capace di dir nulla, d’intendere nulla perché instabile è lo stato della coscienza ed uno stato di confusione mentale è più o meno accentuato” (Saitta, op. cit., pag. 21).
Fra i mostri infernali, Nembrotte sembra affetto da confusione o amenza, disturbo che genera il delirio, le allucinazioni, i comportamenti maniacali e lo stupore. Nembrotte articola male la parola, è smemorato, è un autentico psicopatico.

“Ché sempre l’uomo, in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno
perché la foga l’un dell’altro inzolla”. (Purgatorio, V, 16_18 )

Fuga delle idee, incapacità di collegamento fra le percezioni e l’organizzazione dei pensieri.
Atamante, tebano, sembra essere stato colpito da ictus epilettico, che ora si manifesta con un tremore incontrollabile, equiparabile ad una forma di raptus.

“Non avea membro che tenesse fermo”. (Inferno, XIII)

Il conte Ugolino, secondo lo psichiatra siciliano, confermerebbe la teoria della ereditarietà dei disturbi psichiatrici.

“Rade volte risurge per li rami
l’umana probitade” (Purgatorio, VII, 121_122).

“Molte volte già pianser li figli
per la colpa del padre”.

“Quinci addivien che Esaù si diparte
per seme da Giacob e vien Quirino
da sì vil padre che si rende a Marte”. (Paradiso, VIII, 130_132)

Le malattie terribili, irreversibili, diremmo, dalle quali sono affette le anime relegate nell’Inferno, diventano più leggere per le anime purganti. I loro disturbi sono più nevrotici che psicotici, volendo usare le categorie nosografiche della moderna psichiatria; sono curabili. Le sinestesie, i fenomeni per cui una sensazione uditiva ne richiama una visiva, tattile o olfattiva, sono mirabilmente descritte nei seguenti versi:

“Oro e argento fino cocco e biacca
indaco legno lucido e sereno
fresco smeraldo allorché si fiacca,
dall’erba e dalli fior, dentro a quel seno
posti ciascun saria di color vinto
come dal suo maggior è vinto il meno.
Non aveva pur natura ivi dipinto
ma soavità di mille odori
vi faceva un incognito indistinto.
Salve Regina, in sul verde in sui fiori
quivi seder, cantando, anime vidi”. (Purgatorio, VII, 73_84)

Tutti i sensi sono coinvolti nella condizione estatica dove i colori, i suoni ed i profumi si amalgamano favorendo il godimento dei sensi che al contempo è delizia dell’anima.
Anche il Saitta si è interrogato circa il senso che i sogni avessero per Dante, quesito che molti dantisti si sono posti e continuano a porsi. Attualmente, pensiamo che i sogni rappresentino l’abbandono dello stato di vigilanza che permette al controllo della coscienza di farsi da parte per dare spazio ai contenuti dell’inconscio.

“La mente nostra peregrina
più della carne, e men dai pensieri presa
alle sue vision quasi è divina”. (Purgatorio, IX, 16_18)

Versi di una attualità sconcertante per la descrizione puntuale dello stato di sogno come abbandono di ogni cura della vita reale.
Il Purgatorio è il regno del sogno articolato in tanti sogni vaporosi, delicati, leggeri come quei fiori colti da Lia. Mentre nel Paradiso i sensi cedono e Dante è abbagliato, inerte e muto.

“Come subito lampo che discetti
gli spiriti visivi, sì che priva
dell’atto l’occhio dei più forti obbietti
così mi circonfuse luce viva
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nullo m’appariva”. (Paradiso, XXX, 46_51)

“Così la mente mia ha quelle dape
fatta più grande, di se stesso uscio
e che si fosse rimembrar non sape”. (Paradiso, XXIII, 43_45)

L’estasi culmina nella visione di Dio, oltre la quale neanche l’immaginazione può più oltre andare.
L’analisi autobiografica di Dante si completa qui. Tanti i personaggi, le anime dai caratteri umani e dai caratteri divini, una folla grandiosa che sfila davanti al penitente: da Virgilio a Beatrice e da quel grandissimo gruppo di dannati, di meno dannati e di eletti, fino alla Vergine ed al Sommo Creatore, tutti posti sulla strada del grande cammino.


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